Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo di Avvento

 

4a Domenica

(24 dicembre 2006)

 

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 Mic 5,1-4;  Sal 79;  Eb 10,5-10; Lc 1,39-48

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La liturgia di oggi si apre con l’antifona tradizionalmente cantata nella novena in preparazione del Natale: “Rorate coeli desuper et nubes pluant justum: aperiatur terra, et germinet salvatorem”; “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8). Si tratta della versione della Volgata che interpreta messianicamente l’espressione più neutra dell’ebraico e del greco dei LXX: “Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza”. Quel Giusto, quel Salvatore, di cui si invoca la discesa contemporaneamente dall’alto e dalla terra, è colui che di sé dice entrando in questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la tua volontà” (Eb 10,7). La sua non è una dichiarazione puntuale, che avviene cioè in un determinato momento sottintendendo che prima non pensava in questi termini, ma è una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro e al mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana perché non può esistere storia umana se non nella storia sacra, nella storia dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto. Si invoca la sua discesa dall’alto: Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa figlio dell’uomo, non l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla terra: Dio non sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché dall’alto; Dio, nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si avvicina all’uomo lo fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo in moto per condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla terra è proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è preparato perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il desiderio di Dio dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e tutto l’uomo per Dio.

A quel ‘volere’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Sono la serva del Signore: avvenga di me quello che hai detto”. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio per il desiderio di Dio, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio della creazione. E non per nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”. E parafrasando potremmo aggiungere: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, eternamente, su di lei come sul mondo. E’ da tale consapevolezza che sgorgano le parole del magnificat e il canto di esultanza dell’essere che vede lo spazio di vita ormai  totalmente occupato da quell’amore. Anche nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’ per prima cosa chiediamo di fare esperienza di quell’amore di benevolenza da parte di Dio, amore nel quale siamo stati concepiti e voluti e che costituisce tutto il nostro splendore.

Se si accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’ avvenga di me quello che hai detto c’è anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del ‘magnificat’ alludono anche alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio. Di quell’amore Lui è il rivelatore per eccellenza perché conoscendo il Padre in verità sa che è amore per noi. E questo è venuto a ‘far vedere’! E in questo sta la nostra salvezza e la nostra pace.

Nel canto responsoriale si proclama: “Fa’ splendere il tuo volto e salvaci, Signore”, a commento del brano del profeta Michea che aveva annunciato la nascita del Messia a Betlemme. Il versetto è ripreso dal salmo 79, versetto che viene ripetuto tre volte nella forma: “Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”. Il salmo si appunta sulla proclamazione del Messia come ‘figlio dell’uomo che per te hai reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci godere la pace, cioè ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da non concepire la vita in altri termini se non nella logica di quell’amore. La pace non è evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore, amore che esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte nostra. È interessante osservare che l’espressione della lettera agli Ebrei: “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40, ma l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità totale al volere di Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.