Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo di Avvento

 

3a Domenica

(17 dicembre 2006)

 

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 Sof 3,14-18;  Sal: Is 12,2-6;  Fil 4,4-7;  Lc 3,10-18

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“Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!”; “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Per quale motivo? Con quali ragioni? Se non si coglie la portata di questo invito, nemmeno si può cogliere la portata delle parole e della testimonianza del Battista secondo il racconto del vangelo.

Il ritornello del salmo responsoriale definisce il nostro Dio come ‘Dio della gioia’. L’espressione va intesa in due sensi: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). Se il cuore non vede mai, non percepisce mai come Dio cerchi la sua gioia in noi, come Dio non si dia pace finché noi vediamo quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che Dio è la nostra gioia, che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi; è lui a revocare la nostra condanna, è lui che salta dalla gioia operando la nostra salvezza, come non potesse essere felice senza di noi. La cosa è tanto singolare che la nostra psicologia interiore non riesce a produrre una sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della nostra dignità. Quella percezione è frutto della ‘conversione’, vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. È l’esperienza della fede: Dio viene incontro a noi e noi lo riconosciamo nel suo agire per noi. Riconoscere la sua gioia la procura anche a noi. Quando Giovanni Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quella visione, quell’incontro, gli procura. Fin dal grembo di sua madre, Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo sta in piedi ad udirlo e si riempie di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29) : godeva non tanto perché gli era dato predicare e parlare ma perché poteva ascoltare. Così, quando Luca deve descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre deriva dal suo amore per noi.

Così il motivo della gioia della liturgia di oggi è la proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi, capaci finalmente di condividerla’. In tal senso il brano evangelico ha un’allusione misteriosa. Giovanni chiama Gesù ‘uno che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è proprio l’amore di Dio che diventa condiviso, apertamente e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (= la perfetta letizia di s. Francesco) è proprio quella che custodisce la gioia di Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera di Dio che si fa manifesta. Per questo insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, prima di tutto del nostro Dio e poi di tutti i suoi figli, per cui l’indicazione delle varie opere che il Battista indica come segno dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini.

Possiamo ora pregare la colletta in verità: “Guarda , o Padre, il tuo popolo che attende con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza”. Oppure, con la preghiera sulle offerte: “Sempre si rinnovi, Signore, l’offerta di questo sacrificio che attua il santo mistero da te istituito, e con la sua divina potenza renda efficace in noi l’opera della salvezza”.