Secondo ciclo

Anno liturgico B (2005-2006)

Tempo Ordinario

 

7a Domenica

(19 febbraio 2006)

 

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Is 43,18-25; Sal 40; 2Cor 1,18-22; Mc 2,1-12

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Non è usuale nei vangeli che coloro i quali si appressano a Gesù per ottenere qualcosa tacciano. Del paralitico e dei suoi portatori non si riporta alcuna parola né prima né dopo la guarigione. Ma la liturgia è come se mettesse in bocca a quell’uomo, simbolo di noi tutti, le parole del salmo 12 che servono da antifona di ingresso: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato”. Tanto più se teniamo conto che il salmo comincia: “Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?...”. La situazione dell’uomo è ben descritta, come del resto l’intervento di Dio.

Nel brano di Marco risulta fondamentale l’annotazione: “Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: ‘Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati’ ”. Evidentemente l’evangelista vuole attirare l’attenzione dell’ascoltatore oltre l’apparenza. E’ chiaro che il paralitico è stato portato per ottenere il miracolo della guarigione e tutta la scena è costruita sulla ‘decisione’ dei suoi amici di arrivare allo scopo, fino a scoperchiare perfino il tetto (lascio immaginare la sorpresa e la costernazione del proprietario della casa!) pur di far arrivare il loro protetto davanti a Gesù. Ma Gesù non risponde subito a quell’urgenza. Ne rivela invece un’altra, inaspettatamente, e di questa parla la fede che Gesù aveva notato. Noi però non riusciamo più a cogliere quello che si era scatenato a partire da ciò che Gesù aveva visto e che aveva permesso anche a lui di mostrarsi nella sua verità.

Se ci rifacciamo alla prima lettura, al brano del capitolo 43 di Isaia, possiamo accostarci meglio al segreto di quella scena. Il profeta descrive il Signore nel suo amore per Israele: “…Il popolo che io ho plasmato per me…Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati”. Tutto il capitolo è attraversato dalle manifestazioni di un affetto intenso e intramontabile di Dio per il suo popolo (Dio dice al suo popolo: ‘sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima, io ti amo, io sono con te…’). Quell’amore si esprime proprio nel ‘cancellare’ i peccati, nel ‘non ricordare’ le colpe. Non si vuol dire però che il suo amore è tanto grande da dimenticare i peccati, ma che il fatto di non ricordare i peccati è il segno che quell’amore ci raggiunge, ce ne comunica l’intensità, ci rapisce nella sua dinamica di vita. In effetti, quando il testo parla di ‘popolo che ha plasmato’ intende ‘popolo che ha riconciliato’, popolo che continuamente conquista al suo amore, popolo che vuol far vivere nel suo amore e del suo amore. L’antica versione greca dei LXX traduce il passo sopra citato enfatizzando quel significato: “Io sono, Io sono, proprio colui che cancella le tue trasgressioni…”. Dio in se stesso, almeno per quello che l’uomo può cogliere, è semplicemente e totalmente il Dio che è dalla parte dell’uomo, il Dio che è a favore dell’uomo, il Dio che ama l’uomo al punto da non stancarsi mai di volerlo far vivere proprio in e a partire dal Suo amore. Dio non ha mai bisogno di riconciliarsi con l’uomo; è l’uomo che va riconciliato con Dio e Dio non può avere la sua gioia se non nel vedere l’uomo riconciliato con Lui. Questo spiega la corsa di Dio verso l’umanità, di cui tutte le Scritture parlano. E Gesù, nel brano del paralitico guarito, agisce proprio nell’ottica di quel ‘Dio che plasma il suo popolo’. Il canto al vangelo lo sottolinea fortemente: “La tua parola, Signore, è verità: consacraci nel tuo amore”, espressione tratta dalla preghiera di Gesù al Padre nell’ultima cena: “Consacrali nella verità. La tua parola è verità” (Gv 17,17). E’ la verità di Dio che ha raggiunto l’uomo con il suo amore e che fa vivere l’uomo a partire e dentro quell’amore. La lode che l’uomo tributa a Dio, dopo che è stato guarito, è la lode per l’amore che l’ha toccato e sanato, è la lode come prosecuzione, intensificazione e irradiamento di quell’amore che è diventato radice di vita per sé e per il mondo. E sarà proprio Gesù, il Figlio dell’uomo, a far vedere al mondo quell’amore di Dio che ‘plasma’ l’uomo.

Nel salmo responsoriale, il primo versetto canta: “Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero…”. Il ‘debole’ non è solo il fratello malato, bisognoso, che dovrà essere portato sul lettuccio da noi fino a Gesù, ma è proprio il 'Figlio dell'uomo', che ha sacrificato ogni potere e grandezza per invitare tutti e ciascuno alla comunione con Lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato, che non si stanca di ‘plasmare’l’uomo. E noi, se di quell'Uomo abbiamo premura, allora la Sua presenza ci fa attraversare ogni sventura nel senso che non c'è sventura che possa separarci da Lui e dai nostri fratelli. Qui tende l’agire di Dio nel mondo, a questo punta l’azione di Dio di ‘plasmare’ l’uomo in Cristo.