Secondo ciclo

Anno liturgico B (2005-2006)

Tempo Ordinario

 

19a Domenica

(13 agosto 2006)

 

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1Re 19,4-8; sal 33; Ef 4,30-5,2;  Gv 6,41-51

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Tutto il lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere i segreti di Dio. Gesù si premura di spiegare, di convincere, ma pochi cuori si apriranno alla sua rivelazione. Eppure gli ascoltatori, nelle loro interrogazioni, dimostrano di cogliere nel segno, sebbene non sappiano poi tirare le giuste conclusioni. Nei versetti precedenti rispetto al brano proclamato oggi, davanti all’offerta di un pane ‘speciale’ da parte di Gesù, tutti chiedono: ‘dacci allora questo pane!’. Come la samaritana al pozzo, quando Gesù le parla di un’acqua ‘speciale’, chiede di averla. Forse, la richiesta, qui come là, nasconde una punta di ironia: sarebbe bello avere l’acqua, avere il pane, in modo da non avere più sete o fame, in modo da non fare più fatica a procurarsi il nutrimento, ma evidentemente non è possibile; chi promette quelle cose è un imbonitore e basta. Tuttavia, il desiderio del cuore è pur sempre quello e resta profondamente vero: il cuore cerca davvero un’acqua e un pane speciali, che ristorino, che rigenerino, che fortifichino, che facciano gustare la vita.

Quando Gesù si presenta come ‘il pane disceso dal cielo’, gli ascoltatori ancora una volta dimostrano di aver capito che quel pane speciale deve per forza venire dal cielo, ma sono incapaci di riconoscere nel concreto la via di Dio che a loro si sta rivelando. Se di Gesù conoscono padre e madre, se lo conoscono come il figlio di Giuseppe, come può dire di essere venuto dal cielo? Quindi, è la conclusione, questi racconta storie. Ma Gesù continua a rispondere al desiderio del cuore di vedere ‘colui che discende dal cielo’ e, riferendosi alla profezia messianica del profeta Geremia, annuncia che ‘tutti saranno ammaestrati da Dio: “Questa sarà l' alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo.  Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34). Perché Gesù cita quel passo? Già all’inizio del suo vangelo Giovanni l’aveva proclamato: “Dio nessuno l' ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Se è lui a rivelare il Padre, allora solo da lui può venire la conferma di verità della volontà del Padre. E se lui dice che il Padre ha voluto dare loro nella sua persona quel pane speciale, che tutti vogliono, allora lui solo costituisce quel pane speciale. Vuol dire allora che i tempi messianici sono compiuti; la verità di Dio, che noi attendiamo si riveli finalmente, in lui risplende. Perché allora i cuori non riescono a vedere? Perché, pur desiderando la vita, non l’accolgono?

Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di ‘discesa’ che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Lo afferma il brano della lettera agli Efesini, che leggiamo tutte le settimane nell’ora di compieta, al mercoledì: “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato”. Quello che qui è reso “perdonandovi a vicenda”, in greco è un verbo altamente significativo. Non si tratta dell’usuale ‘perdonarsi’, ma di un verbo che alla lettera si dovrebbe rendere “facendovi grazia gli uni gli altri come Dio ha fatto grazia di sé in Cristo a voi. Diventate quindi imitatori di Dio”. Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del  suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.