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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

IV Domenica

(3 febbraio 2019)

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Ger 1,4-5.17-19;  Sal 70;  1 Cor 12,31-13,3;  Lc 4,21-30

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Quando si proclama il vangelo nella liturgia siamo resi contemporanei alla vicenda di Gesù. La parola che ascoltiamo è per noi, è pronunciata ora, custodisce tutta la sua potenza di salvezza nell’attualità del tempo in cui viviamo, se l’accogliamo. È esattamente quello che ha voluto dire Gesù ai suoi concittadini a Nazaret: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21). Faccio memoria di due altri passi del vangelo per sottolineare la valenza di quell’ ‘oggi.’ Quando Gesù vuole incontrare Zaccheo dice: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” E a incontro avvenuto conferma: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza” (Lc 19,5.9). Sulla croce, davanti alla supplica del buon ladrone, Gesù gli promette: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). È il senso della proclamazione della parola di Dio che risuona nei nostri orecchi: oggi porta a te la salvezza!

Vale la pena di sottolineare un’altra sfumatura a proposito della Parola proclamata. Traducendo letteralmente, Gesù dice: “Oggi si è compiuta questa scrittura nei vostri orecchi”. Sottinteso: la potenza di salvezza che questa parola custodisce, adesso si manifesta e agisce in voi se l’accogliete. Accogliere la potenza di salvezza è farsi toccare dall’amore di Dio, come dirà s. Giovanni nella sua prima lettera: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19). Senza essere mossi a questo amore e da questo amore, la parola proclamata, che di quel mistero è cifra, resta impenetrabile, anzi, suscita fastidio quando non indifferenza. È esattamente il caso degli ascoltatori di Nazaret.

In effetti, l’interesse dell’evangelista per questo episodio emblematico risiede nell’esito finale: Gesù è respinto. E se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore profetico di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il proverbio riferito al medico, che suonava ironico sulle labbra dei suoi concittadini, ma che lui realizzerà in verità: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).

La richiesta dei miracoli da parte dei suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente no, come non sarebbe suonata supplica la richiesta: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’ Israele, scenda ora dalla croce e crederemo in lui” (Mt 27,42). Si supplica se si apre il proprio cuore perché oppresso, malato, afflitto. Diversamente, si provoca. Può compiersi un miracolo dietro provocazione? Lo scopo del miracolo è proprio quello di aprire il cuore al Signore che mi è venuto incontro e mi può guarire. Ma se il cuore non è disposto ad aprirsi, quale miracolo si potrà vedere? Non per nulla, il brano parallelo di Matteo si conclude: “E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi” (Mt 13,58) e quello di Marco: “E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6).

Gesù non si era limitato a constatare la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae uno spunto profetico invitandoli a guardare più nel profondo e allarga l’evento di cronaca alla storia di Israele perché i cuori si rendano conto di cosa sia in gioco. Quando cita il proverbio del profeta che non è ben visto in casa propria, si riferisce al brano del profeta Isaia che aveva appena letto all’assemblea: il Servo di Dio avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore. È accogliendo il profeta che si può accogliere il messaggio di grazia che porta. La liturgia rinforza questa comprensione con l’annuncio della prima lettura dove viene presentata la vocazione del profeta Geremia. Il profeta è scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una intimità grande con Dio; è inviato alle nazioni, cioè ha il compito di togliere il muro di separazione nell’umanità. Il profeta sarà come un muro di bronzo davanti a coloro che lo contrastano, cioè sarà pronto alla passione, perché lo splendore dell’amore di Dio conquisti i cuori. Così la buona novella che Gesù annuncia come profeta non consiste semplicemente in buone parole o in determinati miracoli, ma rimanda a quella passione/morte/risurrezione in cui risplende l’amore di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso i suoi simili da dentro quello stesso amore.

Tutta la scena è racchiusa da due identici sentimenti dal valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire. Una meraviglia, quella di Gesù, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività in tutto il paese.

L’agire di Gesù tende a ristabilire in tutti, vicini e lontani, ebrei e pagani, la possibilità di tornare a dar credito alla promessa di Dio. Voler mantenere la distanza delle differenze tra ebrei e pagani, tra giusti e empi, tra puri e impuri, ecc. (gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani – la vedova di Zarepta di Sidone e Naaman il siro – come se questa preferenza comportasse l’accusa ai suoi figli) significa stravolgere il piano divino della creazione e restare impassibili davanti all’amore di Dio che tutti ingloba nel suo amore salvatore, che non si piega al ricatto del figlio maggiore come non si ritrae dalla vergogna del figlio minore per riunirli entrambi nella gioia del Regno. La terribile lotta che l’uomo è chiamato a sostenere è quella contro il sospetto che la differenza non contenga la ricchezza della promessa di Dio, ma sia un attentato alla sua identità. La ragione di tale sospetto, che insidia ogni relazione, deriva non dalla paura dell’uomo, ma dalla paura di Dio al cui amore e alla cui promessa di vita non si dà più credito. Questa mi sembra la ragione profonda della difficoltà a credere, a prestare fede alla testimonianza di Gesù come a Colui che davvero ci rivela il volto del Padre. Purtroppo troppe cose nella vita quotidiana e dentro noi stessi non fanno che confermare quel sospetto, che preferiamo rimuovere piuttosto che curare. Ci appare più pio difendere il nome di Dio, nascondendoci nella giustizia di qualche pratica religiosa che ci dà il senso di vantare dei meriti piuttosto che fidarsi dell’amore di Dio che si traduce in prossimità per tutti gli uomini a gloria del suo nome, seguendo Gesù nella sua rivelazione del Padre.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di Nazaret. In ultima analisi, l’annuncio di Gesù si risolve nell’eliminare ogni tipo di separazione tra gli uomini perché tutti possano godere dell’amore sovrano di Dio.

Mi permetto di segnalare un libricino prezioso del pastore protestante, missionario in Africa, Henry Drummond, The greatest thing in the world, uscito nel 1890 e pubblicato da Bompiani a cura di Paulo Coelho, che l’ha scoperto nel 2007, con il titolo Il dono supremo, dove viene commentato l’inno alla carità di Paolo.

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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):

[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]

Prima Lettura  Ger 1,4-5.17-19

Dal libro del profeta Geremia

 Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore:

«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,

prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;

ti ho stabilito profeta delle nazioni.

Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,

àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;

non spaventarti di fronte a loro,

altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.

Ed ecco, oggi io faccio di te

come una città fortificata,

una colonna di ferro

e un muro di bronzo

contro tutto il paese,

contro i re di Giuda e i suoi capi,

contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.

Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,

perché io sono con te per salvarti».

Salmo Responsoriale  Dal Salmo 70

La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.

In te, Signore, mi sono rifugiato,

mai sarò deluso.

Per la tua giustizia, liberami e difendimi,

tendi a me il tuo orecchio e salvami.

Sii tu la mia roccia,

una dimora sempre accessibile;

hai deciso di darmi salvezza:

davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!

Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

Sei tu, mio Signore, la mia speranza,

la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.

Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,

dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno.

La mia bocca racconterà la tua giustizia,

ogni giorno la tua salvezza.

Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito

e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

Seconda Lettura  1 Cor 12,31-13,13

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.

E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

[ La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.

Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! ]

 

Vangelo  Lc 4,21-30

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.