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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Avvento

I Domenica

(27 novembre 2016)

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Is 2,1-5;  Sal 121;  Rm 13,11-14;  Mt 24,37-44

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Avvento non significa primariamente attesa, ma presenza. Il periodo liturgico dell’Avvento non è un’attesa della nascita di Gesù a Betlemme, ma la tensione a una capacità di sensazione, di intuizione cordiale della compagnia di Gesù che opera continuamente perché il suo regno conquisti i cuori e la storia. E se di attesa si parla, si tratta dell’attesa della manifestazione del Signore Gesù al nostro cuore.

L’antifona di ingresso di questa prima domenica di avvento canta: “A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido: che io non sia confuso. Non trionfino su di me i miei nemici. Chiunque spera in te non resti deluso”. Le parole sono prese dal salmo 24 (25), che può essere scelto come salmo tipico dell’avvento. Le espressioni di questo salmo sostanziano l’invito alla vigilanza che la liturgia dell’avvento ripete continuamente: ‘in te confido; ti ho atteso; ho sperato in te; ricordati delle tue compassioni; i miei occhi sono sempre rivolti al Signore; liberami dalle mie angosce: il suo segreto è per quanti lo temono; Kyrie eleison”. È interessante costatare che, rispetto alla traduzione italiana ‘ho sperato’, le antiche versioni in greco e in latino riportano: ‘ho atteso’, a sottolineare che anche l’uomo deve avere pazienza col suo Dio, pazienza che si esprime nella fatica di conoscere le sue vie e di riconoscere i sentieri della vita.

Il tempo della chiesa è compreso tra le due venute di Cristo: quella umile, a Betlemme e quella gloriosa, alla fine dei tempi. La liturgia orienta gli sguardi, nelle prime due settimane, alla venuta gloriosa e nelle ultime due, alla venuta del Figlio di Dio nella carne. Ma lo sguardo non è rivolto né al futuro né al passato, bensì al profondo, nel senso che fin da ora il Cristo vive con noi: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), le ultime parole del vangelo di Matteo. L’invito alla vigilanza punta al profondo, punta a rendere esperibile, nella storia e soprattutto nella storia personale, la presenza del Signore che ci attira a sé, verso il Regno. E il profondo riguarda la dimensione del cuore che sa riconoscere la verità della salvezza del Signore, che ne intuisce la bellezza e ne testimonia lo splendore.

È il cuore che si apre al sogno della colletta di oggi: “O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria”. Con lo sguardo puntato su Gesù, lui che è stato inviato per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per noi e per riunire insieme i figli di Dio dispersi (cfr. Gv 3,16; 11,52), si realizza il sogno del profeta Isaia: “Venite, camminiamo nella luce del Signore” (Is 2,5). Il sogno si traduce per noi nell’avere la possibilità concreta di vivere nella benevolenza senza antagonisti né avversari né tanto meno nemici. È la realizzazione della vocazione dell’uomo come essere per la comunione. Chi può garantire tale possibilità è proprio quel Gesù, di cui celebreremo la venuta nella carne con il Natale.

Per questo san Paolo dichiara: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”, per vivere la storia nella benevolenza, senza paure, tanto da essere addirittura custoditi da una armatura di luce: “indossiamo le armi della luce”. Luce, che consiste nell’assumere il principio della riconciliazione come unico fondamento dell’agire. Si esercita vigilanza nello spirito quando ci si sforza di radicarci sempre più autenticamente, sempre più profondamente, sempre più concretamente, in quella riconciliazione di cui Dio ci ha fatto dono, in Cristo, in modo da estenderla a tutto in noi e a tutti dovunque. La vigilanza ha senso nello stare fermi in quell’unico punto: se Dio ha fatto grazia di Sé a noi, allora anche noi possiamo fare grazia di noi a tutti. E così il mondo tornerà a risplendere, perché ognuno potrà sperimentare quello che dice il salmo: “il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,14), da intendere, come del resto suggerisce lo stesso testo ebraico del versetto: il segreto (o l’intimità) del Signore, cioè la sua offerta di benevolenza nel dono di Sé che ci fa, vale per chi ne fa il punto fermo della sua vita e ha posto tutta l’attesa del suo cuore nel condividerne la gioia con tutti.

La Bibbia finisce con il grido: “Vieni, Signore Gesù”, Marana tha! (Ap 22,20). L’aspetto singolare è che sia lo Spirito che la Sposa, sia Dio che l’uomo, si ritrovano accomunati dallo stesso grido, al quale fa eco la parola/promessa di Colui che è desiderato: “Sì, vengo presto”. Come tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui, così tutto è redento per mezzo di lui e in vista di lui (cfr Col 1) tanto che tutto ciò che si vive si risolve nell’incontro del desiderio di Dio e dell’uomo perché lui venga, perché sia reso manifesto nel suo amore per noi da indurci a vivere dentro e in forza di quell’amore. La vigilanza dell’Avvento punta qui.

L’aspetto drammatico di suddetta vigilanza la liturgia lo sottolinea con la costatazione che il Signore tarda. Nella storia tutto sembra far resistenza alla manifestazione del Signore Gesù, ma il cuore non aspira ad altro. Nel brano di vangelo di oggi l’avvertimento di Gesù segue l’annuncio degli eventi drammatici della fine, quando tornerà il Figlio dell’uomo e giudicherà il mondo. L’evangelista Matteo ha già vissuto il dramma della fine con l’assedio e la caduta di Gerusalemme del 70 d.C. e sa che però non è ancora la fine. Il tempo della storia che continua, nel dramma, ha per i credenti un unico scopo: dare testimonianza a Gesù, permettere alla salvezza operata da Gesù, come dice il canto al vangelo: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”, di manifestare la sua potenza nel mondo fino a che tutti se ne lascino conquistare.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Avvento

II Domenica

(4 dicembre 2016)

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Is 11,1-10;  Sal 71;  Rm 15,4-9;  Mt 3,1-12

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Il grido del Battista risuona forte lungo tutto l’Avvento: “Convertitevi … Fate un frutto degno della conversione”. La liturgia si premura di illustrare appunto il mistero della conversione, che si risolve nel godere la grazia tipica del Messia, cioè quella di gustare il regno di Dio ormai venuto. Conversione non indica tanto cambiamento di mentalità, ma ritorno incondizionato al Dio dell’alleanza, che cancella i peccati e introduce nella comunione di vita con lui.

Nel brano evangelico ci sono almeno tre termini carichi di allusioni: deserto, forte, conversione. Il Battista predica nel deserto della Giudea. È lo stesso territorio dove, all’epoca dei Maccabei, la gente che era rimasta fedele al Signore si ritira e dove sono stati rinvenuti i cosiddetti manoscritti del Mar Morto. Narra il libro dei Maccabei: “Allora molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero nel deserto per stabilirvisi” (1Mac 2,29). Viene applicata al Battista la profezia di Isaia che annunciava la liberazione del popolo: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore” (Is 40,3).

Nel presentare colui che verrà dopo di lui, il Battista lo definisce ‘più forte di me’. Viene applicato al Messia, a Gesù, la qualifica tipica di Dio nell’Antico Testamento: il Forte. Per fare qualche esempio: “Dio grande, forte e terribile” (Dt 10,17); “Tornerà il resto, il resto di Giacobbe, al Dio forte” (Is 10,21); “Tu sei un Dio grande e forte” (Ger 32,18). Ora, dove si manifesterà la forza del Messia? Nel perdono dei peccati, nell’ottenerci il perdono dei peccati e la comunione alla stessa vita di Dio. Come splendidamente annuncia il profeta Isaia, nella prima lettura, con la visione di una pacificazione universale e con la promessa: “Non agiranno più iniquamente … perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare” (Is 11,9). Il salmo responsoriale 71 lo conferma e descrive la giustizia di Dio operante tra gli uomini tanto che tutti benediranno il Signore perché la sua gloria riempie la terra. Quando il profeta Geremia descriverà il compimento della nuova alleanza, non potrà che indicare la stessa cosa: “Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,33-34). Tutti mi conosceranno, perché tutti potranno accogliere il perdono del Signore e si ritroveranno uniti nella misericordia del Signore che tutti accomuna.

L’invito, forte, del Battista alla conversione, ha proprio a che fare con la ritrovata possibilità di questa ‘conoscenza’ del Signore. Nel linguaggio dei profeti la conoscenza del Signore segue la distruzione delle false sicurezze, delle illusioni o dei miraggi mondani. La conversione procede dal fatto che il nostro cuore custodisce, anche se come sepolta, la coscienza di un’alleanza che gli è stata offerta da Dio e che Lui non si è mai rimangiata, la coscienza di una felicità possibile, forse persa, ma sempre desiderabile e, nella speranza, ancora vivibile. Non è però scontata e per questo la chiesa fa pregare: “Dio grande e misericordioso, prepara con la tua potenza il nostro cuore a incontrare il Cristo che viene” (colletta del mercoledì della prima settimana di avvento). Fondamentalmente la conversione è un credere ancora possibile per il nostro cuore la felicità promessa da Dio, che in Gesù si fa accessibile e godibile.

E la felicità, di cui il cuore custodisce l’anelito, non può provenire che da quella nuova umanità, fatta germogliare da Gesù, in giustizia-mitezza-pace, di cui parla la colletta di oggi: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione, perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto germogliare sulla nostra terra”. Giustizia nel senso di tornare a sentirci non solo oggetto di amore, ma soggetti degni di amore; mitezza nel senso di non lasciarsi più deviare da nulla rispetto allo scopo da perseguire, che è la fedeltà al bene comunque; pace nel senso di quel regno di Dio giunto a noi, cercato sopra ogni cosa, che ci ricolloca nella giustizia e ci induce alla mitezza.

È assolutamente caratteristico che san Paolo, nella sua lettera ai Romani, fondi il cammino di conversione sulla ‘perseveranza e consolazione’ che derivano dalle Scritture, scritte per nostro ammaestramento, come lui dice. Va detto che perseveranza allude ad una generosa pazienza che dura nel tempo e consolazione alla gioia ritrovata che ci dà il senso del cammino, nel ritorno sempre più sincero e autentico all’alleanza col nostro Dio. Io interpreterei così: il Dio della nostra afflizione (l’asprezza e la fatica del cammino) diventi il Dio della nostra consolazione (il compimento e il godimento di una relazione affettuosa).

Mi ritrovo nelle parole che Pietro rivolge ai fedeli ricordando gli anni del suo ministero di evangelizzatore: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo …” (2Pt 1,16). Credo sia l’unica volta, nelle esortazioni apostoliche, in cui ‘la venuta’ del Cristo è riferita al passato e non al futuro. L’Avvento ci predispone a percepire la potenza di salvezza, cioè la possibilità di vivere la nostra umanità, nello splendore di un cuore purificato, in giustizia-mitezza-pace, che, se, da una parte, esprimono l’esperienza dell’incontro col Signore, dall’altra, strutturano lo spazio interiore per l’incontro con gli uomini. Come san Paolo prega: “…vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù“. Si realizza in modo nuovo l’avvertimento dei profeti alla conversione come ritorno incondizionato all’alleanza col nostro Dio. Sarà appunto il dono per l’umanità del Natale di Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Solennità e feste

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2016)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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La benedizione che Paolo implora ed annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini ha ricoperto e intriso in modo singolare la Tutta Santa, la Vergine Maria. In lei quella benedizione si fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla di prezioso da desiderare. La tradizione venera la Vergine come “la madre del creatore di tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di Dio”.

Frutto di quella benedizione è la lode che prorompe dalla Vergine e che l’antifona di ingresso riprende come compimento della profezia di Isaia: “Esulto e gioisco nel Signore; l’anima mia si allieta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come una sposa adornata di gioielli” (Is 61,10).

Lode e benedizione che i fedeli riprendono con la preghiera dell’Ave Maria, preghiera che è entrata nell’uso così come la conosciamo con la sua adozione da parte dell’ordine dei Mercedari nel 1514. Lei è la ‘benedetta’ perché porta il ‘Benedetto’, salutato dalla folla degli ebrei nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme con la proclamazione: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Mc 11,9).

La benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, con il suo Figlio condividiamo la stessa umanità perché anche noi possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi. L’aspetto assolutamente straordinario del disegno divino per l’uomo, come dice Paolo, è il fatto che prima della creazione del mondo siamo stati scelti, che la Vergine è scelta prima della creazione del mondo, che il Figlio è destinato al mondo prima che il mondo fosse. Una visione del genere, se non è una fantasia, significa che il senso delle cose, della vita, del mondo, ha radicalmente a che fare con l’incommensurabile amore di Dio la cui luce tutto attraversa e struttura.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione e la gelosia, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione.

Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio: “dove sei?”, che continuamente bussa al suo cuore, superando l’inganno, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine. La Vergine è proprio colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità. L’esperienza di cui è stata gratificata può diventare, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Io collegherei la domanda di Dio ad Adamo allo stesso volere di Gesù che, prima della sua passione, svelando ai discepoli i suoi segreti, proclama loro: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Dove è Gesù? Gesù è nell’amore del Padre per noi, così noi, in lui, siamo nello stesso amore per tutti. La Vergine è colei che da sempre ha abitato quel ‘luogo’, che da sempre è collocata nel ‘luogo’ dove Gesù è.

Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

La Vergine Immacolata è anche chiamata Signora nostra. Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas ne spiega la portata: “… signora non solo in quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto, ineffabile e beato” (Omelia 14). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Avvento

III Domenica

(11 dicembre 2016)

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Is 35,1-6a. 8a.10;  Sal 145;  Gc 5,7-10;  Mt 11,2-11

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Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. È la domanda di una vita. Di Giovanni Battista, anzitutto. Tutta la sua vita era consistita nel predisporre la via a un Altro: ‘bisogna che lui cresca e io diminuisca’. Accoglierne il mistero non significa però saperne in anticipo l’esito. Significa, più semplicemente ma più sinceramente, stare comunque disposto ad accogliere tutta l’esperienza umana e spirituale che quel mistero comporta nel suo dispiegamento. Così Giovanni, in carcere, alla fine della vita, riformula la stessa domanda con un risvolto angosciante: mi sono forse illuso? È lui quel Tu che tutti attendono e che io sono stato chiamato a svelare al mondo?

Gesù, citando il profeta Isaia, fa riferire a Giovanni che le profezie si compiono in lui e con lui: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti … Poi aggiunge la sua novità, che non era presente nella profezia di Isaia: ‘ai poveri è predicata la buona novella’, come a dire: la grazia del vangelo è rivolta a tutti, senza distinzioni e come l’amore di Dio è grazia, così l’annuncio evangelico è grazia e più si rivolge al peccatore, al lontano, all’ultimo, più si svela il suo mistero di grazia.

Ma l’aspetto singolare della sua risposta è l’ultima frase: ‘beato è colui che non trova in me motivo di scandalo’. Nel vangelo di Matteo, in altre due occasioni si parla di scandalo a proposito di Gesù: in 13,57, allorché i compatrioti di Nazaret fanno resistenza all’insegnamento di Gesù e in 26,31, allorché i discepoli restano scandalizzati nella notte della cattura di Gesù. Sta di fatto che il Messia si manifesta diversamente da quanto ci si aspetta. Se vale per i profeti, è valso per i discepoli, come non varrà anche per noi? Lo scandalo del Messia povero e disarmato non finisce mai nella nostra vita. La rivelazione di Dio sorpassa ogni pensiero, sorprende le attese del cuore perché “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d’uomo aveva più l’aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.

La domanda del Battista è però anche la nostra domanda di credenti che sempre ci troviamo confrontati, lungo il percorso della nostra vita, con il mistero della scoperta del vero Volto di Dio. L’esito dell’incontro con Dio non è mai scontato. L’esperienza che siamo invitati continuamente a fare va sempre al di là di quello che ci immaginiamo o ci aspettiamo: in gioco è l’incontro con il Dio Vivente e non con un simulacro di Dio, che risulterebbe soltanto la proiezione delle nostre pretese. Tutto questo esige l’entrata nella piccolezza di Dio a cui risponde, specularmente, la piccolezza dell’uomo che trova vita, se la perde, che vive se è capace di morire, che si ritrova libero se rinnega se stesso, ecc., al seguito ‘del più piccolo nel Regno dei Cieli’, cioè Gesù.

La liturgia di oggi, consapevole della vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne portata di scandalo di quell’evento, indica la porta di accesso per il mistero di Dio in Gesù. Invita alla gioia, alla letizia, che suona scandalosa per la carne. Se l’uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire. Ma può l’uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Se l’uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e onnipotente potrebbe gioire. Ma può derivare all’uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo conto dell’illusione di una letizia che avesse tali radici.

Ora, proprio la possibilità di una letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell’uomo la presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela questo al Battista e quando ne tesse l’elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma l’ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del Battista, che riconosce nel Figlio dell’uomo la ‘grazia della verità’ che viene da Dio.

Quando Giacomo, nella sua lettera, invita alla pazienza (nel testo italiano traduciamo con costanza: ‘siate costanti’), invita a camminare e a lavorare con generosità e fiducia in vista della manifestazione del Salvatore al nostro cuore, finché essa diventi radice di letizia: il Signore è con noi! Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l’amore salvatore di Dio. Sarà il senso della gioia del Natale scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del ‘Dio con noi’ la ragione profonda della sua storia.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Avvento

IV Domenica

(18 dicembre 2016)

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Is 7,10-14;  Sal 23;  Rm 1,1-7;  Mt 1,18-24

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La liturgia dell’ultima domenica di Avvento è incentrata sulla figura dell’Emmanuele, Dio-con-noi. Riprende la profezia di Isaia che, seguendo la versione greca della LXX, la quale rende il termine ebraico ‘giovane donna’ con ‘vergine’, ad indicare la natura misteriosa del bimbo che nascerà, il Nuovo Testamento legge in funzione del concepimento verginale di Maria. Con il salmo responsoriale interpreta l’Emmanuele come il Signore che viene, il re della gloria. Con s. Paolo, lo designa come il Figlio di Dio ‘nato dal seme di Davide secondo la carne’, mentre con il vangelo lo mette in relazione a Giuseppe ‘figlio di Davide’, come risulta dalle parole dell’angelo.

L’aspetto misterioso dell’evento è descritto con la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza. Come è possibile che uno contemporaneamente scenda dall’alto e germogli dal basso? È appunto il mistero dell’agire divino che il profeta fa risaltare e che vale anche per noi. È la colletta a proclamarlo: “… concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede”. Dio, non semplicemente viene vicino a noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a noi di noi stessi; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come segno dell’azione di salvezza di Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. All’uomo sarebbe stato impossibile perfino immaginare un segno di tal genere, benché quel segno compia finalmente i suoi desideri più profondi. Dio sopravanza sempre la sua creatura, ma nella linea del desiderio della creatura stessa.

Il nome Emmanuele, come nome di persona, non è attestato altrove nell’A.T. e porta la promessa di salvezza. L’aspetto interessante è la ripresa di questo nome nel racconto evangelico di Matteo a spiegazione del nome di Gesù, che verrà imposto al bambino secondo l’annuncio dell’angelo. Tanto che l’equivalenza che ne deriva è di questo tipo: il Dio-con-noi, l’Emmanuele, è il nostro Salvatore, Gesù, la salvezza consistendo nel poter godere nuovamente nella e della comunione con il proprio Dio. Quando il salmo responsoriale denomina il Signore che viene come re della gloria allude alla modalità con cui Gesù si è rivelato il Salvatore. È sulla croce che Gesù sarà visto come il re della gloria, apparirà cioè come splendore dell’amore del Padre per noi. E se Gesù nasce è per poter assumere la morte nel fuoco della carità. Come fanno intendere alcune espressioni suggestive di s. Efrem nei suoi inni natalizi: “Gloria a quel Grande il cui figlio scese e si rimpicciolì”; “La natura che mai fu palpata, fu legata e avvinta per le mani, trafitta e crocifissa per i piedi. Di sua propria volontà prese un corpo per coloro che lo afferrarono”; “Benedetto il clemente. Vedendo la lancia, presso il paradiso, sbarrare la strada verso l’albero della vita, venne a prendere un corpo che sarebbe stato colpito dalla lancia: mediante l’apertura del suo fianco egli avrebbe aperto la via che conduce dentro al paradiso”.

Nella serie delle testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo secondo la liturgia dell’avvento, Giuseppe è l’ultimo testimone e viene chiamato in causa proprio in rapporto alla profezia di Isaia. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di Davide’, la verità della sua regalità.

Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità. Ma non sa in anticipo cosa questo gli richieda; sa solo che questo è il suo compito e in tutta obbedienza lo eseguirà, fedele in tutto e in ciò ritrovando gli aneliti supremi del suo cuore di uomo e di credente.

Giuseppe accoglie: la grazia viene dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il Salvatore. Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. La sua vocazione può essere definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni nell’unico Segno che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Natale

Natale del Signore

(25 dicembre 2016)

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Messa vespertina della vigilia:          Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

Messa della notte:                              Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                             Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                              Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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La settima antifona solenne della novena del Natale, quella del 23 dicembre, illustra a meraviglia il senso della salvezza che la Chiesa ha invocato per tutto l’avvento con la supplica: Vieni, Signore Gesù! L’antifona proclama: “O Emmanuele, Dio con noi, attesa dei popoli e nostro liberatore: vieni a salvarci con la tua presenza”. Facendosi bambino, confondendosi con noi, uno tra noi, Dio ci salva! La salvezza è tornare a godere della presenza del Signore con noi. L’evento è cantato dalla liturgia in termini di luce: luce che splende e illumina, luce che scalda, luce che rigenera, luce che libera, luce che fa splendere. E richiama il versetto del prologo di s. Giovanni, che viene letto nella messa del giorno: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4).

La luce splende, ma si vede un semplice bambino, in condizioni disagevoli, per quanto circondato di tenerezza. È evidente la sproporzione e l’inadeguatezza tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata con gli angeli che lodano Dio, con la luce che risplende, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i cuori. Ma come canta s. Efrem: “Quanto sei audace, o bimbo, che a tutti ti concedi. A chiunque ti viene incontro tu sorridi e di chiunque ti guarda tu hai desiderio. È come se il tuo amore avesse fame degli uomini. Non fai distinzione tra i tuoi parenti e gli estranei, tra tua madre e le serve, tra colei che ti ha allattato e le donne impure. È questa la tua audacia o il tuo amore, o tu che tutti ami?”.

Davanti al Bambino che veniamo ad adorare, ci accompagna l’eco delle parole del Padre: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22), proferite al battesimo di Gesù nel Giordano.  Nella genealogia di Gesù che Luca fa seguire, quel Bambino non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità. Gesù è il sigillo di questa storia d’amore di Dio con l’umanità; è colui che ci introduce in questa storia e ce ne svela il senso. Come, sempre s. Efrem, canta nei suoi meravigliosi inni natalizi: “Benedetto colui che si è fatto piccolo senza misura, per farci diventare grandi senza misura… Beato chi ha fatto dimorare le tue gioie nel suo cuore e che ha smarrito in te le sue pene!… Benedetto colui che è venuto in ciò che è nostro e ci ha uniti a ciò che è suo!… Benedetto colui che è all’altezza dei nostri tormenti. Benedetto colui che ha trionfato nei nostri tormenti. Il nostro corpo è diventato il tuo vestito, il tuo Spirito è diventato il nostro abito. Benedetto colui che si è adornato e ci ha adornato”.

Se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero di quel Bambino, nato per noi, è delineata secondo la traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “…fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “…fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

Non trovo parole migliori di quelle di un poema natalizio, sempre di s. Efrem: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!… Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”.

Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

BUON NATALE A TUTTI.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Natale

Maria ss. Madre di Dio

(1° gennaio 2017)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Il nuovo anno inizia con la celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.

Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha visto l’estensione e la profondità della benedizione di Dio sull’umanità: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). La benedizione può essere così intesa:

– che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

– che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e renda luminoso il tuo volto del suo splendore

– possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti custodisce nella Sua pace.

E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

Così porranno il mio nome e io li benedirò” continua il testo dei Numeri, come a dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua benedizione, ti custodirà e ti terrà compatto, dentro un’intimità, alle radici del cuore.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi.

L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non percepiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto con più esattezza: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: ‘tutte queste cose‘ del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita tornerà a risplendere della presenza del nostro Dio.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Natale

Epifania del Signore

(6 gennaio 2017)

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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La festa di oggi, che in Oriente si festeggia insieme al Natale, viene presentata così nel Martirologio romano: “Solennità dell’Epifania del Signore, nella quale si venera la triplice manifestazione del grande Dio e Signore nostro Gesù Cristo: a Betlemme, Gesù Bambino fu adorato dai Magi; nel Giordano, battezzato da Giovanni, fu unto dallo Spirito Santo e chiamato Figlio da Dio Padre; a Cana di Galilea, alla festa di nozze, mutando l’acqua in vino, manifestò la sua gloria”. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. L’episodio dell’adorazione dei Magi non sembra potersi ricondurre a un evento storico preciso, ma, nella logica narrativa di Matteo, la rivelazione è che Dio guida la storia perché sia conosciuto il suo Figlio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella versione greca che i cristiani hanno fatto propria: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La cosa straordinaria è che un bambino venga proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. Lo esprime molto bene s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando scrive: “[tutte le genti, tutti gli uomini] sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo, ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (Ef 3,6). In ciò che è essenziale, nella vita, tutti desideriamo le stesse cose, tutti siamo fatti per le stesse cose, tutti siamo chiamati a godere le stesse cose. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Natale

Battesimo del Signore

(8 gennaio 2017)

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Is 42,1-4.6-7;  Sal 28;  At 10,34-38;  Mt 3,13-17

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La liturgia del battesimo di Gesù chiude il ciclo natalizio. La Chiesa celebra, nel battesimo al fiume Giordano, la manifestazione di Gesù al suo popolo e il mistero di salvezza che ne deriva, collegato alla visita dei Magi e al primo miracolo a Cana di Galilea, come canta l’antifona al Benedictus già risuonata nella festa dell’Epifania: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”. Il mistero è contemplato nell’ottica dell’invocazione: “Dio onnipotente ed eterno, che nel Natale del Redentore hai fatto di noi una nuova creatura, trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità” (colletta, sabato 12 gennaio).

L’immagine di fondo è quella delle nozze: Dio sposa l’umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei magi, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato ad ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione con la solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata che ne scaturisce è che oramai l’umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l’umanità, pur con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio di Dio, che se l’è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato. Non si può più gemere sull’umanità senza aver compassione di Dio!

La liturgia accosta al racconto del battesimo il brano profetico di Isaia 42. È il testo che Matteo riprende integralmente in 12,18 e qui in un solo dettaglio: “Appena battezzato, Gesù uscì dall’ acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento»”. E quando a Giovanni si presenta Gesù, per vincere la sua ritrosia gli dice: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”.

Questi versetti celano molti misteri. Perché Gesù parla di ‘ogni giustizia’? Gesù non si attiene semplicemente alla Legge; il suo comportamento parla di una sovrabbondanza assolutamente gratuita dal punto di vista della Legge. Non aveva motivo di farsi battezzare, come lo stesso Giovanni riconosce, perché lui non è peccatore. Ma lui solidarizza con i peccatori, perché il mistero dell’amore di Dio per i suoi figli appaia in tutto il suo splendore. Più tardi sarà accusato di stare con i peccatori, di frequentarli, di essere un mangione e un beone, ma così viene svelata la giustizia di Dio, che è amore per noi.

Il particolare poi dei cieli che si aprono assume un significato molto denso. Marco, nel suo vangelo, usa lo stesso verbo ‘squarciare’ per indicare i cieli aperti al battesimo e il velo del tempio che si lacera dopo la crocifissione di Gesù. Il battesimo mostra anticipatamente quello che si compie alla Pasqua. Il velo del tempio (per l’esattezza, del Santo dei santi) che si squarcia, significa, tra l’altro, che ciò che è riposto nel seno del Padre, il suo Verbo, germoglia dall’interno della terra ove è stato riposto con la morte-risurrezione, aprendo, per l’umanità intera, l’accesso al Santo dei santi: la vita intima del Padre. Quando Gesù dirà che lui è la porta vuole riferirsi a questa medesima realtà: in Gesù l’umanità entra nel cielo e il cielo si apre sull’umanità. L’immagine della colomba sembra riferirsi alla stessa realtà, almeno secondo certe interpretazioni patristiche: lo Spirito annuncia al mondo la misericordia di Dio, che in Gesù risplende piena e assoluta.

Nella visione che Gesù ha dopo il suo battesimo si può ravvisare l’autocoscienza della sua intimità con il Padre e della sua realtà messianica con l’allusione a quella nuova creazione di cui le Scritture sono la promessa. Come all’inizio della creazione lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, così ora la discesa sopra di lui dello Spirito, nella sua umanità, prefigura la nuova creazione. Non si tratta tanto di vedere una colomba che discende quanto di vedere il planare dello Spirito come una colomba, al modo di una colomba. Alla sua visione segue la voce, che conferma per tutti quello che Gesù ha visto, nel senso di invitare tutti a seguire quel Figlio nella rivelazione dell’amore del Padre per gli uomini. Con la voce del Padre sono compiute tutte le Scritture perché la frase è costruita con i testi di Gn 22,2, Is 42 e Sal 2,7, rispettivamente presi dalla Torà, dai Profeti e dai Salmi e, nello stesso tempo, le Scritture sono confermate per noi che possiamo fare esperienza della giustizia di Dio che è amore per noi.

La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Amato non dice soltanto tutta l’intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche lo sconfinato amore per l’umanità che i due condividono. Amato o unico o preferito fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2); rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6); ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell’amore del Padre per l’umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È l’amato perché il Suo Amore di Padre in lui è perfetto nel senso che in lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l’umanità e lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È amato perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui, in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.

Il risvolto tutto speciale del mistero allude però a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare, come citavo all’inizio: ” … trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

II Domenica

(15 gennaio 2017)

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Is 49, 3. 5-6;  Sal 39;  1 Cor 1, 1-3;  Gv 1, 29-34

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La chiesa, che ha lo sguardo fisso sul suo Signore, morto e risorto, introduce il tempo ordinario dell’anno liturgico con la proclamazione che l’Agnello è il Figlio di Dio, come viene riportata nel vangelo di Giovanni, il quale non riferisce direttamente né il battesimo di Gesù né le tentazioni nel deserto. La verità di Gesù è presentata sulla base della testimonianza del Battista, testimonianza che indurrà i suoi discepoli a seguire oramai il nuovo Maestro.

Per tre volte Giovanni Battista dà testimonianza: prima ai sacerdoti e ai leviti (vv. 19-23), poi ai farisei (vv. 24-28), poi a Israele (vv. 29-34). La forza della testimonianza deriva dall’aver ‘visto’ il mistero, il segreto di Dio svelato. Il Battista dice: “Ho contemplato [visto con ammirazione] lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (Gv 1,32). Si dice la stessa cosa degli apostoli, sulla testimonianza dei quali anche noi siamo invitati alla stessa esperienza: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

Giovanni Battista riassume la sua testimonianza nella figura dell’Agnello, figura che si collega a quello del Servo e a quella del Figlio. Non va dimenticato che in aramaico servo e agnello sono espressi da un unico termine: talya’. La figura del Servo è annunciata dal profeta Isaia, nel suo secondo carme del servo, proclamata dalla prima lettura: “Il Signore mi ha detto: ‘Mio servo sei tu, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria’” (Is 49,3). Ma quel servo sarà indicato come il Servo sofferente: “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti …” (Is 53,4-5). Quando l’evangelista Giovanni mette in bocca al Battista la sua testimonianza a Gesù con il denominarlo agnello, svela un doppio collegamento: si riferisce a Gesù come all’agnello pasquale immolato (Gv 19,36 descrive Gesù sulla croce in riferimento all’agnello al quale non viene spezzato alcun osso, secondo la prescrizione rituale dell’immolazione dell’agnello pasquale) e soprattutto rileva come Gesù non porta semplicemente il peccato del mondo, ma lo porta via, lo toglie: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29).

E questo avviene perché Gesù è servo del volere di salvezza del Padre nei nostri confronti. L’aver accettato di prendere un corpo e di vivere nella natura di servo sottolinea l’obbedienza a questa volontà di salvezza del Padre per noi, come canta il salmo responsoriale oggi: “Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo’. ‘Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo’” (Sal 39,8-9). Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

L’aspetto più straordinario poi è dato dal fatto che questa obbedienza fino all’immolazione in croce è vissuta in quanto Figlio, intimo del Padre. La sua intimità di sentire e di agire con il Padre è definita in rapporto all’amore per noi: tutti e due condividono lo stesso immenso amore per noi. E proprio la visione della discesa e permanenza su Gesù dello Spirito, dopo il battesimo al Giordano, rivela questa comunanza del Figlio con il Padre nell’opera della nostra salvezza. È lo Spirito che, colmando Gesù nella sua natura di servo, lo rende solidale con l’amore del Padre per noi da indurlo a fare sempre la volontà del Padre, cioè a cercare in ogni modo, senza alcuna riserva, con tutto lo splendore di amore che comporta, la nostra salvezza. In altre parole, Gesù tende a inglobare noi, per mezzo dello Spirito, nella stessa comunione di amore che lo lega al Padre e a noi. E sarà per questo che il segno dell’esperienza di salvezza per noi verrà individuato nell’amore a Dio e nella solidarietà piena con i nostri fratelli, in Cristo.

La proclamazione del Battista è tradotta con ‘Ecco l’agnello di Dio’, ma bisognerebbe tradurre: ‘Vedi l’agnello di Dio’. Secondo il vangelo di Giovanni, ‘vedi’ ha il valore di un presente perenne. Anche adesso vale quella proclamazione: ‘vedi’, vale per noi che ascoltiamo, varrà sempre per coloro che ascolteranno. Quell’agnello è ‘dato per noi’, non una volta per tutte, ma sempre, per tutto il tempo della nostra vita, per tutto il tempo della storia, fino a contemplarlo poi glorioso nella Gerusalemme celeste, come descrive l’Apocalisse, insieme a tutti i santi. Riusciremo allora a vedere tutto l’immenso amore che ha comportato quell’essere ‘dato per noi’!

L’itinerario che ha definito Gesù nella sua umanità per esprimere nel concreto della sua vita la realtà del suo essere servo-figlio-agnello diventa lo stesso nostro itinerario. Così si compiono i misteri di Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel suo Dio. Cose misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del nostro vivere e del nostro desiderare.

Quando l’evangelista Giovanni deve indicare dove la passione di Dio per gli uomini condurrà il Figlio prediletto per raggiungere lo scopo che li ha guidati fin dalla fondazione del mondo nel loro agire verso gli uomini, dirà: “Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,49-51). Qui stanno riuniti insieme i tre nomi: Figlio, Servo, Agnello.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

III Domenica

(22 gennaio 2017)

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Is 8,23b – 9,3;  Sal 26;  1 Cor 1,10-13. 17;  Mt 4,12-23

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Nel vangelo di Matteo per due volte viene riportato: “Da allora Gesù cominciò …”. Il primo stacco temporale riguarda l’inizio della predicazione di Gesù alle folle, dopo che Giovanni Battista è stato incarcerato: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»” (Mt 4,17). Gesù non si sovrappone al Battista, comincia a predicare dopo che il Battista non può più farlo. Il secondo, dopo la confessione di fede di Pietro a Cesarea, Gesù comincia ad annunciare ai discepoli la sua passione (cfr. Mt 16,21). Si tratta di decisioni precise di Gesù che vive il suo mandato messianico in vista della rivelazione della grandezza dell’amore di Dio per l’uomo.

Convertitevi, dice Gesù, riprendendo la stessa predicazione di Giovanni Battista. Come ci dicesse: ‘aprite gli occhi, riconoscete la via di Dio; tornate a sentire la bontà di Dio per voi; rinverdite il cuore, svegliatelo all’intelligenza degli eventi, alla libertà del desiderio, svegliatelo all’amore; tornate a gustare la vita nella comunione col vostro Dio’! Siccome nella lingua ebraica e aramaica il termine cielo non esiste al singolare, Gesù chiama il suo regno ‘regno dei cieli’, cioè il regno di Dio. Intendendo due cose: quel regno non è relegato nei cieli ma si manifesta sulla terra; quel regno è diverso dai regni della terra, è di natura celeste. Proprio quel regno è vicino, vale a dire è venuto a voi, lo potete vedere e toccare. Toccare, sì, toccare. Quando i discepoli di Gesù hanno provato a riassumere la loro esperienza del Maestro si sono espressi così: “quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita …” (1Gv 1,1).

Gesù, proprio per sottolineare la ‘possibilità’ perenne di ‘toccarlo’ per quanti lo incontreranno, sceglie gli apostoli, che il vangelo di Marco dirà “perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). La realtà della vicinanza di quel regno è tale che può toccare i cuori, che può muoverli a non desiderare altro se non quel regno. Non si tratta tanto di raccontare da parte dell’evangelista la cronaca della vocazione degli apostoli, ma di mostrare la potenza dell’iniziativa di Dio che dà corso alla sua opera di salvezza. Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l’importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, per tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell’incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. L’intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c’è un uomo, fin dove c’è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell’incontro, fin dove c’è una malattia da curare, l’apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell’incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Un altro particolare poi è estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al vangelo del regno.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

IV Domenica

(29 gennaio 2017)

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Sof 2,3; 3, 12-13; Sal 145; 1 Cor 1, 26-31; Mt 5,1-12a

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Di fronte alla magna carta del cristianesimo, come vengono definite le Beatitudini annunciate da Gesù sul monte ai suoi discepoli, non si può non registrare come la comunità cristiana abbia come perso la potenza sconvolgente di questo annuncio: beati i poveri, beati coloro che sono nel pianto, beati i miti … beati i perseguitati per la giustizia!. Gesù non sta esortando ad essere felici; sta rivelando l’accesso alla felicità, sta mostrando come partecipare alla sua intimità di Figlio inviato a mostrare la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo. Molto spesso noi prendiamo il vangelo come una specie di correttore/perfezionatore della nostra visione umana del mondo. La sua, però, di Gesù dico, non è una visione complementare alla nostra, ma una visione radicale, che svela i segreti della nostra umanità. Lo riferisce in modo così espressivo s. Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi: “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). Le beatitudini sono da recepire a partire da questa rivelazione.

L’uomo aspira alla felicità? Allora Gesù ne traccia le coordinate che la strutturano perché il cuore dell’uomo non fallisca lo scopo della vita. Potremmo anche domandarci: perché è venuto meno il timbro della gioia nell’esperienza della vita cristiana in questo mondo? Perché la sequela del Signore ci lascia piuttosto indifferenti quanto alle energie del cuore, perché sembra suscitare più timore che felicità? Non ci siamo più premurati di cogliere le beatitudini come porte di accesso al mistero di Dio che viene a noi e al mistero dei cuori quanto agli aneliti che li attraversano, limitandoci a vederle come un ideale di perfezione da perseguire, di fatto però irraggiungibile e perciò ininfluente sulle energie di vita dei cuori.

La liturgia ce le fa leggere dentro la prospettiva del Regno, come il salmo responsoriale 145 sottolinea, esplicitando la profezia di Sofonia: “Il Signore regna per sempre”. L’espressione corrisponde a quanto proclamerà la moltitudine dei santi in paradiso: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Ap 7,10). Se l’uomo non può darsi la salvezza, nemmeno può darsi la felicità. Il salmo lo dichiara a chiare lettere quando nei primi versetti dichiara: “non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”, da rendere con più precisione, secondo la versione greca: ‘in un uomo che non ha salvezza’.

La felicità è paradossale. Tutti sappiamo che il piacere te lo puoi prendere, ma la gioia non te la puoi dare. La gioia o la felicità non si prende dove sembra di vederla, ma la si ottiene spesso con ciò che sembra il contrario. Perché in gioco è la credibilità stessa di Dio che viene incontro all’uomo, senza però mai poterlo convincere all’evidenza. Nella felicità è in gioco non semplicemente l’esaudimento di un cuore, ma l’incontro di due, la comunione di due.

Le beatitudini sono otto. La prima e l’ultima comportano la stessa promessa: ‘perché di essi è il regno dei cieli’ e racchiudono le altre sei. C’è un doppio movimento nell’elenco delle beatitudini: un movimento di concatenazione e un movimento circolare. La concatenazione riguarda lo spazio definito dalla seconda alla settima, mentre il movimento circolare è dato dal ritornare dell’ottava alla prima per riavviare, a livelli sempre più profondi, la concatenazione. Se non si coglie il dono di quel ‘regno dei cieli che è venuto a noi con Gesù’, come poter afferrare la potenza di quella felicità nuova promessa? In effetti, la felicità è definita nei termini di una appartenenza (‘di essi è il regno dei cieli’), appartenenza che allude a una comunione di amore ardentemente desiderata e finalmente goduta. Corrisponde al godimento del regno proclamato nella parabola profetica del giudizio finale, alla gioia del banchetto messianico, alla consumazione di un amore che aveva ferito il cuore. Solo che le condizioni che la permettono sono paradossali: si parla di povertà e di persecuzione. Il significato mi sembra questo: l’esperienza promessa è nuova rispetto a tutto ciò che può produrre il mondo. Ma è tale che può portare a compimento tutto ciò che nel mondo si vuol vivere.

In effetti, le promesse di compimento rispetto alle condizioni elencate (beati gli afflitti, i miti, gli affamati della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace) parlano di qualcosa che i nostri cuori cercano comunque: essere consolati, godere ciò che ci appartiene, essere saziati negli aneliti più profondi, essere graziati anche nella nostra indegnità (=misericordia), essere fatti capaci di vedere, vivere nella comunione del Padre da figli felici.

Tenuto conto che Gesù parla a cuori che si stanno aprendo alla rivelazione del regno giunto a loro, la felicità scaturisce dai passaggi indicati:

se ti affliggi solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato;

se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti; se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse;

se condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio;

se sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza;

se seguirai l’opera di Dio che è la fraternità tra gli uomini,

allora – è la promessa della settima beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini.

Se nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti, finché tutto in lui splenda della bellezza del Regno.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

V Domenica

(5 febbraio 2017)

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Is 58,7-10;  Sal 111;  1 Cor 2,1-5;  Mt 5,13-16

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Gesù proclama: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”. Quel ‘voi’ si riferisce ai discepoli la cui vita esprime la potenza delle beatitudini che immediatamente prima Gesù aveva proclamato. Si tratta di quei discepoli che, insultati, perseguitati, sparlati, custodiscono la letizia dell’incontro con il Signore Gesù, che è diventato per loro ragione di vita e principio dell’agire. Non per nulla la liturgia fa leggere, abbinato al brano evangelico di Matteo, un passo del profeta Isaia dove si profetizza l’esistenza dell’Israele gradito a Dio come una esistenza ricca di misericordia per tutti, ricca del dono della fraternità a tutti perché segno della comunione realizzata con Dio, che si è reso presente in mezzo a loro. La luce di cui risplende l’umanità abitata da Dio è la luce della fraternità condivisa.

È appunto il profeta Isaia a definire le condizioni per diventare sale e luce, conseguenza del vivere l’insieme delle beatitudini. Tre riguardano il non fare, due il fare. Per il non fare: togliere l’oppressione, il puntare il dito, il parlare empio. Potremmo interpretare così: quando un uomo non schiaccia nessuno, non porta accusa contro nessuno, non è insolente verso nessuno, allora è sulla via di Dio. Il fare: aprire il cuore all’affamato, saziare l’afflitto. Non si dice semplicemente di dare da mangiare all’affamato, ma di togliersi il pane di bocca per darlo a chi ha fame e così togliere l’afflizione non solo della fame, ma della solitudine al proprio fratello nel bisogno. Il brano di Isaia termina: “Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa: sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono” (Is 58,11). Si realizza la promessa della presenza del Signore in mezzo al suo popolo.

Il salmo responsoriale definisce la beatitudine dell’uomo nell’essere misericordioso, pietoso e giusto, che sono le qualità che la Scrittura attribuisce a Dio nei confronti degli uomini. Sono queste a rendere luminoso l’uomo. E Gesù le applica ai discepoli che hanno accolto le sue beatitudini con l’immagine del sale e della luce.

L’immagine del sale. Il sale ha due qualità: rende saporito il cibo e conserva. Nella Scrittura si conosce l’espressione ‘alleanza di sale’ (Nm 18,19 e 2Cr 13,5) per indicare la perpetuità dell’alleanza di Dio con gli uomini. Applicata ai discepoli l’immagine significa che i discepoli sono chiamati a conservare e a rendere saporito il mondo nella sua alleanza con Dio. Da notare che se il sale dà sapore alle cose, le cose non possono dare sapore al sale. Il che significa ancora: i discepoli sono chiamati a permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il mondo permea loro con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita desiderabile e amabile.

L’immagine della luce. Un’antica glossa bizantina spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non sono se non le vie per le quali si può partecipare alla effusione nell’universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l’azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli (ecco l’azione della luce). Le buone opere che gli uomini devono vedere nei discepoli sono le opere che derivano dalla pratica delle beatitudini.

Noi vorremmo, sì, percepirci luminosi, ma non è certamente un fatto scontato, dal momento che tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. Quando Massimo Confessore spiega l’invocazione ‘non ci indurre in tentazione’ nella preghiera del Padre Nostro, ha l’ardire di precisare: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”. Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora – continua Isaia – “implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!”. Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, non può cedere all’oppressione, perché il Signore è con lui. Non c’è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall’intimità con il suo Signore.

Se Gesù chiede ai discepoli di essere la luce del mondo, vuol dire che chiede loro di essere il segno della misericordia di Dio tra gli uomini, come lo è lui stesso. In questo senso l’invito e il comando ad essere sale e luce si riferisce all’attuazione di quello che Gesù dirà ai suoi discepoli alla fine del vangelo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli … insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Se le nostre opere buone devono risplendere davanti agli uomini, secondo il comando di Gesù, ciò significa che le nostre opere buone devono essere a vantaggio, per profitto degli uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini] permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

VI Domenica

(12 febbraio 2017)

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Sir 15,15-20;  Sal 118;  1 Cor 2,6-10;  Mt 5,17-37

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Il senso delle letture di oggi è ben descritto dall’antica colletta: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora”.

Le parole del Signore, i suoi comandamenti, non sono semplici ingiunzioni o precetti alla cui osservanza è promessa la nostra beatitudine futura. Sono assai di più, sono rivelazione di Lui, modalità di partecipazione alla stessa vita divina, spazi di comunione con lui e con i fratelli, luoghi di intimità. Gesù allude sempre nel suo annuncio del Regno a una eccedenza, a una sovrabbondanza rispetto alla giustizia che cerchiamo con le nostre opere. In effetti, il senso della nostra vita si gioca non nel fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio. È un’intimità, che fa vivere la vita dentro un’obbedienza e un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore; un’intimità capace di riempire il cuore, di rendere la vita degna di essere vissuta.

È quello che Gesù fa intendere con la proclamazione dal monte delle beatitudini: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17).  Fa poi seguire una serie di antitesi: “Avete inteso che fu detto agli antichi … Ma io vi dico …”. Negli esempi che porta, Gesù mostra la reale intenzione di Dio per l’uomo quanto all’esigenza della santità della vita perché noi non ci si chiuda nella menzogna. Non basta evitare di uccidere; Gesù svela la natura omicida dell’ira, del disprezzo, della ribellione contro il proprio fratello. La preghiera è gradita a Dio, ma solo a condizione che il cuore l’innalzi dallo spazio di riconciliazione voluto e cercato con i propri fratelli. Il cuore si sporca non solo con gli atti compiuti, per esempio, l’adulterio consumato, ma anche con i desideri cattivi che lo attraversano quando sono trattenuti e fomentati. L’uomo purtroppo è anche capace di snaturarsi: l’occhio, che dovrebbe aiutarlo a percepire l’inciampo per non cadere, è esso stesso occasione di caduta quando serve il desiderio cattivo.

Gesù fa vedere la forza della proclamazione del Siracide: “Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai” (Sir 15,15). Quando la Parola è la nostra dimora, allora anche la promessa di vita che racchiude ci apparterrà, diventerà il nostro segreto. Con l’umiltà e la gioia di chi, come dice san Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano” (1Cor 2,9). Proprio come la colletta pregava: ‘rendici degni di diventare tua stabile dimora’. E si diventa dimora con il custodire le parole (comandamenti) di Gesù, finché siano loro a custodire il nostro cuore nella gioia che rilasciano. Come ancora il Siracide proclama: “I suoi occhi sono su coloro che lo temono” (Sir 15,19). È il senso della compagnia di Dio che custodisce, ristora, infonde coraggio, consola.

Saldi nella fiducia che questo è il dono di Dio per noi, senza alcun merito da parte nostra, come proclama il canto al vangelo: “Ti rendo lode, Padre, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno”. Gesù formula questa preghiera di lode vedendo i discepoli ritornare tutti contenti dalla loro missione di predicazione e li avverte che la gioia che provano non dipende dalla grandezza delle opere compiute, ma dal vivere la comunione con Dio che vuole la salvezza di tutti. Tale principio di comunione non tiene in alcun conto la grandezza degli uomini, tanto che, quando Gesù dovrà svelare il suo destino di Messia annunciando la sua passione, si premurerà di tenere i suoi discepoli al riparo da quella meschina grandezza, così ambita dagli uomini. La cosa è ribadita nel brano evangelico di oggi dicendo che gli uomini, davanti a Dio, non saranno grandi se faranno cose grandi, ma se terranno aperte le cose piccole, ogni cosa più piccola, al mistero del Regno, alla percezione del Regno. Quello che vale per le Scritture, vale anche per la nostra vita.

In questa luce, la ‘giustizia superiore’ alla quale Gesù invita i suoi discepoli non si riferisce ad opere diverse da quelle comandate in precedenza, come esistesse un’opera maggiore rispetto a quelle di prima, ma alla capacità di percezione e alla fedeltà all’intenzione segreta di Dio a cui le opere richieste rimandano. Il ‘compimento’ di cui parla Gesù non allude all’aggiunta di qualcosa, ma alla radicalità dell’esperienza che rimanda direttamente a Dio e alla sua rivelazione. Il compimento di Gesù, che risalterà in tutto il suo splendore con la sua passione e morte, mostra la profondità di provenienza dei comandamenti e la bellezza della promessa di Dio racchiusa nei comandamenti perché l’uomo possa finalmente godere della comunione con il suo Dio, dentro un’umanità solidale, e non semplicemente ‘tenerlo buono’ con la propria giustizia, perché la propria giustizia non fa splendere il cuore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

VII Domenica

(19 febbraio 2017)

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Lv 19,1-2.17-18;  Sal 102;  1 Cor 3,16-23;  Mt 5,38-48

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L’antifona di ingresso esprime molto bene l’atteggiamento con cui ascoltare l’annuncio della parola di Dio oggi: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato” (cfr. Sal 12 (13),6). Lo stesso atteggiamento è ripreso dal salmo responsoriale, a commento del comando proclamato nella prima lettura: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2), con il ritornello: ‘Il Signore è buono e grande nell’amore’. Ma quando risuonano queste parole nella Scrittura? In una situazione così altamente drammatica da temere, da parte del popolo, di aver ormai perso tutto. Occorre riandare al contesto in cui il nome di Dio era stato proclamato per cogliere la portata della santità che definisce Dio nei confronti dei suoi figli e che abilita i suoi figli ad essere tali, come a Lui è gradito, per rivelare al mondo la grandezza del suo amore. Il popolo nel deserto, esasperato e impaziente, costruisce il vitello d’oro e rifiuta l’alleanza con il suo Dio che non sentiva più accanto. Quando Mosè discende dal monte e vede l’idolo eretto nell’accampamento si infuria, spezza le tavole della Legge e cade in profonda prostrazione: cosa farà ora il Signore? Starà ancora dalla parte del suo popolo? E di me che ne sarà? Mosè sta solidale con la sua gente, ricorda a Dio che questo è il suo popolo e per essere confermato chiede a Dio di vedere la sua gloria. E quando la gloria del Signore gli si manifesta, ode la proclamazione del nome: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso …” (Es 34,6). È la seconda volta che Dio rivela il suo nome e questa volta nel dramma più assoluto.

Così, la ripresa di questa proclamazione nelle parole del salmo responsoriale, a commento del comando di santità da parte di Dio ai suoi figli, assume questa particolare sfumatura. Se Dio è il misericordioso, sperimentato nella situazione di massima lontananza da lui e non respinge il pentimento dei suoi figli, ciò significa che tutte le virtù o l’agire buono degli uomini, se non introducono nella misericordia verso i propri fratelli, provengono dalla millantata giustizia umana, che non ha nulla a che fare con la santità di Dio. Gli effetti da osservare sono questi: quando l’agire buono trasborda in misericordia, si è fecondi, generosi di cuore, portatori di comunione; quando l’agire buono non si traduce in misericordia, ci si irrigidisce, si resta sterili e si rende la vita temibile. Non si dimentichi che il termine ebraico che esprime misericordia è collegato all’utero materno, non solo perché allude al legame viscerale tra madre e figlio, ma soprattutto al fatto che dall’utero materno scaturisce la vita. La misericordia favorisce sempre la vita, altrui e nostra.

Quando Gesù, a sigillo dei suoi inviti ad andare oltre la Legge, ma compiendone i misteri che alludono alla rivelazione di Dio nella sua persona, dirà: “Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, non farà che far emergere in tutto il suo splendore la luminosità della santità di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti all’uomo. In effetti, non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” nel senso di: “tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico”. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai, suona appunto: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo ‘misericordioso’ è attribuito solo a Dio e mai all’uomo. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della ‘perfezione’ richiesta all’uomo.

La giustizia basata sul principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono non rivela ancora lo splendore di Dio. Gesù invita alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli, che in lui si fa manifesto e partecipabile.

La ‘ricompensa’ di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: “possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere”. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.

Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene). ‘Chi ti costringe ad accompagnarlo per un miglio’ allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza. Tra l’altro, il verbo italiano angariare deriva dall’obbligo di una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, richiama proprio la santità di Dio che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza a cui allude Gesù ha proprio a che fare con questo ‘Bene’ di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di non dar spazio al male.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

VIII Domenica

(26 febbraio 2017)

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Is 49,14-15;  Sal 61;  1 Cor 4,1-5;  Mt 6,24-34

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Quello che il salmo responsoriale proclama, a commento della straordinaria dichiarazione d’amore di Dio per il suo popolo riportata dal profeta Isaia: “Solo in Dio riposa l’anima mia” (Sal 61/62, 2), raramente è vera per noi! Per questo, l’invito di Gesù che non si possono servire due padroni, non è salutare preoccuparsi del domani, non serve affatto preoccuparsi, è piuttosto disatteso da noi, come non fosse alla nostra portata, data l’oppressione e la fatica del vivere quotidiano. Non ci accorgiamo che la soluzione sta appunto nell’aprire il cuore alla verità di quanto Gesù proclama.

Dice il profeta: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). Sono le parole con cui Dio risponde all’angoscia del popolo: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Il profeta aveva già annunciato il ritorno glorioso degli esuli nella terra dei padri, ma quando sarebbe avvenuto? Ogni israelita poteva domandarsi: lo potrò vedere io? In altre parole: è possibile nelle afflizioni continuare a fidarsi di Dio? Perché la fiducia in Dio trova spesso le porte chiuse del nostro cuore?

Il punto nevralgico sta esattamente in ciò che dice Gesù: “Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,24). Ricchezza è il termine che traduce il vocabolo aramaico ‘mamonà’, che propriamente significa proprietà. Se sulla ‘proprietà’, intesa nel suo senso più esteso (le cose e gli affetti, i beni materiali e i beni morali o spirituali), si basa la propria fiducia, è impossibile evitare l’affanno. Lo esprime chiaramente s. Francesco d’Assisi nelle sue Ammonizioni:

“Mangia infatti dell’albero della scienza del bene colui che si appropria la sua volontà e si esalta dei beni che il Signore manifesta e opera in lui; e così per suggestione del diavolo e per aver trasgredito ad un comando diventò per lui il frutto della scienza del male; per cui bisogna che ne sopporti la pena (Amm. II); “Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona pecchi, il servo di Dio che si lasciasse prendere dall’ira o dallo sdegno per questo, a meno che non lo faccia per carità, accumula per sé – come un tesoro – (cfr. Rm 2,5) la colpa degli altri. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, vive giustamente e senza nulla di proprio. Ed è beato colui che non si trattiene niente per sé, rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Mt 22,21) (Amm. XI); “Beato il servo che rende tutti i suoi beni al Signore Iddio; perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del suo Signore (Mt 25,18), e ciò che crede di avere gli sarà tolto (Lc 8,18) (Amm. XIX).

La ragione più profonda la troviamo espressa nell’antifona di ingresso che cita il salmo 17/18 nei versetti 19-20: “Il Signore è mio sostegno, mi ha liberato e mi ha portato al largo, è stato lui la mia salvezza, perché mi vuol bene”. Nella versione greca e latina del salmo l’ultima espressione suona: ‘perché mi ha voluto, quoniam voluit me’. Ecco, la percezione di questa verità: ‘il Signore mi ha voluto’ costituisce la radice di tutta la nostra fiducia. Il bene per noi è essere voluti, senza altra aggiunta.

Possiamo vedere chiaramente che Matteo inserisce le ammonizioni di Gesù nel contesto di una ritrovata libertà dalle preoccupazioni per un cuore conquistato dall’annuncio del vangelo tanto da indurlo a focalizzare tutti i suoi sforzi su di un unico obiettivo: custodire la gioia del vangelo nelle vicissitudini quotidiane. Luca, invece, inserisce le stesse ammonizioni nel contesto della testimonianza del discepolo di Gesù di fronte al mondo. L’invito a non preoccuparsi dei beni della vita diventa l’invito a non avere paura, a non temere quello che ci può venire dagli uomini perché “al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32). Evidentemente, il cuore deve poter essersi già dischiuso a percepire la bellezza di quel ‘regno’, di cui la Chiesa è allusiva e di cui è la memoria tra gli uomini e per il quale la fede nel Cristo Signore è porta di accesso. La narrazione evangelica tende a questo, come del resto tende a questo anche la celebrazione liturgica.

Quando il canto al vangelo proclama che “la parola di Dio è viva ed efficace, discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”, nel contesto del brano evangelico odierno significa: non si può a lungo mescolare ciò che è importante, essenziale, con ciò che è superficiale, vacuo. Se la parola del Signore tocca il nostro cuore, allora appare subito evidente che non si può barattare il di più con il di meno. Se voglio la ricchezza comunque, ciò vuol dire che non voglio il Signore e quindi non mi interessa la giustizia; se voglio il mio diritto comunque, ciò significa che non mi sta a cuore il prossimo; se voglio un bene a scapito della giustizia, ciò significa che non voglio la pace: “Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza”.

Di fronte alle preoccupazioni e alle vicissitudini della vita, Gesù invita: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. È come un invitare a vivere da dentro una relazione riuscita, quella per cui tutte le cose che cerchiamo trovano la loro destinazione di fondo. Non agire in questo modo significa vivere a partire dall’assillo della paura che attanaglia il cuore dell’uomo. Non è solo la paura di non avere quello che ci è necessario, ma la paura che altri prendano quello che è nostro, per cui la lotta contro la paura si risolve nella diffidenza verso tutti e nella lamentela contro la vita.

La scoperta da fare è proprio la benevolenza di Dio che ha deciso di ‘darci il Regno’ comunque. Il regno non si sostituisce ai beni di questo mondo, che ci sono necessari. Fa’ in modo che il perseguimento dei beni non ci perverta il cuore, contro noi stessi e contro il prossimo; fa in modo che i beni raggiungano la loro vera destinazione nel senso di schiudere il cuore alla gratitudine e alla condivisione perché l’amore di Dio splenda nel mondo. Non si tratta però di una saggezza umana, forse anche condivisibile, ma incapace di rispondere al dramma dell’uomo e della storia. Si tratta del segreto di Dio per l’uomo, che Gesù svela e che partecipa ai cuori che sono disposti ad accoglierlo, come più avanti nel racconto evangelico dirà: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Quaresima

I Domenica

(5 marzo 2017)

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Gn 2, 7-9; 3, 1-7;  Sal 50;  Rm 5, 12-19;  Mt 4, 1-11

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La preghiera della Chiesa così commenta l’episodio delle tentazioni nella vita di Gesù: “…concedi al tuo popolo di intraprendere con la forza della tua parola il cammino quaresimale, per vincere le seduzioni del maligno …” (colletta) e “Egli consacrò l’istituzione del tempo penitenziale con il digiuno di quaranta giorni, e vincendo le insidie dell’antico tentatore ci insegnò a dominare le seduzioni del peccato …” (prefazio). L’uomo è soggetto alle seduzioni del maligno e del peccato, questo è il fatto! Per non soccombere, la chiesa, guardando a Gesù, su cui è fondata, inaspettatamente suggerisce l’unica via di uscita possibile: “… concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo …” (antica colletta) e “Il pane del cielo che ci hai dato, o Padre, alimenti in noi la fede, accresca la speranza, rafforzi la carità, e ci insegni ad aver fame di Cristo, pane vivo e vero, e a nutrirci di ogni parola che esce dalla tua bocca” (orazione dopo la comunione).

Senza tentazioni non c’è verità, dicevano i nostri padri. Nella percezione psicologica la lotta spirituale sembra tesa a ‘dominare le seduzioni’ del male, che non smette mai di far sentire la sua presenza ingombrante e spesso angosciosa con la scusa di attirarci a qualcosa di attraente e fascinoso. Ma nella dinamica spirituale, tipica del nostro cuore, la lotta è per crescere nella ‘conoscenza del mistero di Cristo’, vale a dire per aprirci ad un’umanità che Gesù ha fatto splendere e che il nostro cuore sogna. Il dilemma dell’uomo, alla fine, non è tra dipendenza e libertà, ma tra autosufficienza e libertà. L’illusione è l’indipendenza intesa come autosufficienza. Non per nulla Gesù risponde agli attacchi del maligno con le parole della Scrittura, con la sottomissione radicale alla parola di Dio, che libera. Gesù non appare come l’eroe o il superuomo che sa combattere e vincere, ma come colui che sta sottomesso in modo così radicale da godere della libertà di Dio, che è amore per noi.

Il maligno, non essendo stupido, non tenta certo di distogliere Gesù da Dio per indurlo al male. La sua azione è più raffinata. Gli suggerisce che ci sarebbe un modo più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno sta nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio. Le tentazioni hanno appunto lo scopo di distoglierci dall’obiettivo vero per suggerirne uno fasullo. Le tre tentazioni sono precedute dall’annotazione che, dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ebbe fame. Non si tratta solo di una fame materiale (solo la prima tentazione alluderebbe direttamente al desiderio di cibo) ma del suo desiderio di realizzare il compito di cui è stato investito come Messia: portare tutti a Dio. Il suo aver fame richiama il grido sulla croce: ho sete (Gv 19,28). Ha fame e sete degli uomini. È nel suo zelo per gli uomini che viene tentato.

La scena richiama l’esperienza del popolo di Israele in viaggio verso la terra promessa nel suo peregrinare nel deserto, luogo della rivelazione di Dio e nello stesso tempo luogo di terribili tentazioni. Le risposte che Gesù dà al diavolo sono tutte citazioni prese dal libro del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,16; 6,13), soprattutto da quel capitolo 6 che contiene la professione di fede del pio israelita, lo Shema Israel.

Dal punto di vista di Dio, che consente il sopraggiungere della tentazione, in gioco è la verità della sua promessa al nostro cuore: ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio piacere; ci è promesso il soccorso, ma dentro una provvidenza che impariamo ad accogliere; ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi.

Le parole di satana nella seconda tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo) e non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.

Le risposte di Gesù frantumano l’illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l’illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”. È l’illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell’umanità da riempire.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Quaresima

II Domenica

(12 marzo 2017)

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Gn 12,1-4a;  Sal 32;  2 Tm 1,8b-10;  Mt 17,1-9

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La chiesa ha sempre messo in relazione il Tabor (che nel passo evangelico è chiamato semplicemente ‘alto monte’, come per il monte della tentazione e come per la missione finale in Galilea, forse per indicare simbolicamente il monte escatologico dove affluiranno tutte le nazioni della terra) con il Golgota, allorquando Gesù non apparirà trasfigurato, ma sfigurato. In effetti, anche nel racconto evangelico, l’evento della trasfigurazione segue il primo annuncio della passione (cfr. Mt 16,21-28, introdotto con l’espressione solenne ‘da allora’ per indicare la decisione solenne di Gesù di andare a Gerusalemme e svelare ai discepoli il suo destino). Prima di ritrovarci immersi nel dramma della passione e della morte, la liturgia ci ‘consola’ con la visione della trasfigurazione, allo scopo di insegnarci a vedere nel volto martoriato e insanguinato il Volto del Signore della gloria.

Una duplice tensione anima la liturgia: a) proclama l’evento della trasfigurazione di Gesù per esaltarne la tensione alla Pasqua, tensione che Gesù vive in se stesso e nella sollecitudine per i suoi discepoli perché imparino a fidarsi di Dio; b) fa emergere la tensione che lavora il cuore dell’uomo nel suo desiderio di vedere il volto di Dio e saziare la sua nostalgia.

L’antifona di ingresso: “Di te dice il mio cuore: «Cercate il suo volto». Il tuo volto io cerco, o Signore. Non nascondermi il tuo volto” risponde allo stupore estasiato di Pietro: “Signore è bello per noi restare qui”. Il salmo 26 incomincia con “Il Signore è mia luce e mia salvezza”; prosegue con “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore” e finisce con “Mostrami, Signore, la tua via”. È la tensione di una vita.  Quando il salmo proclama: “Non nascondermi il tuo volto”, supplica Dio per due cose precise: perché faccia sentire la sua presenza di accompagnamento e si degni di far vedere il suo volto. Sulla tensione di fondo del cuore, che la colletta del martedì della prima settimana di quaresima così esprime: “Volgi il tuo sguardo, Padre misericordioso, a questa tua famiglia, e fa che superando ogni forma di egoismo risplenda ai tuoi occhi per il desiderio di te”.

Il punto di convergenza delle due tensioni non riguarda però il vedere, ma l’ascoltare. Il racconto della trasfigurazione ha il suo culmine nella voce: “Questi è il mio Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” e nella consegna del silenzio.  Come a sottolineare che, se il racconto è per gli occhi, lo scopo che ne costituisce la ragione è per gli orecchi, con l’evidente conseguenza che soltanto ascoltando si potrà vedere.

Se riferiamo la voce alla circostanza della settimana precedente quando, dopo che Gesù svela il suo destino di passione, Pietro lo prende in disparte rimproverandolo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22), risuona assai più profondamente nel nostro cuore. L’invito non è semplicemente: ascoltate quello che dice, ma: seguitelo fin sulla croce, perché là sarà manifestato il segreto dell’amore di Dio per gli uomini. Non è un’esortazione per l’uomo recalcitrante; è l’accesso alla verità di Dio, che non rientra nell’orizzonte umano, ma di cui il cuore dell’uomo ha bisogno per rispondere agli aneliti che porta e conoscere finalmente il suo Dio.

Quando nel ‘Padre nostro’ invochiamo: “sia santificato (=glorificato) il tuo nome”, chiediamo appunto questo: Signore, rivelati nella tua verità, rivela il tuo volto al nostro cuore! Se il Signore si rivela al nostro cuore, allora anche le cose si rivelano e solo allora potremo cogliere il loro ‘splendore’, il segno della gloria di Dio diffusa su tutto il creato, perché tutte le cose ci parleranno della gloria di Dio, vale a dire del suo amore per noi.

La tensione del mostrarsi di Dio all’uomo converge verso questo unico punto: conoscere il suo Figlio prediletto, vedere il suo Volto. Ascoltarlo significa percepire che la vita consiste in questo immergersi e ritrovarsi nello splendore del suo Volto; significa vedere se stessi, le cose, il mondo, la storia, da dentro il rapporto, accettato, con questo Figlio prediletto. Ed è per questo rapporto accettato che, per noi come per Pietro e gli apostoli, si rivela al nostro cuore quanto è bella la visione, quanto è drammatico il rinnegamento, quanto penetrante lo sguardo del Signore misericordioso su di noi, quanto persuasive le sue parole, quanto tenere le intimità godute, quanto angosciante la lontananza, quanto forte e costringente il suo amore.

L’esempio di Abramo è eloquente. Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”. L’espressione singolarissima, nel testo ebraico, è ‘lek leka’, che traduciamo con ‘vattene’, ma che andrebbe resa, secondo la vocalizzazione tradizionale: ‘vai a te’, ‘vai verso te stesso’, ‘vai per te stesso’. Contemporaneamente un esodo e un ritorno. Un esodo da qualcosa che impedisce la scoperta del senso pieno del vivere e un ritorno a ciò che ci costituisce nell’intimo per vivere in gratuità e servizio la nostra vocazione all’umanità. Abramo non conosce nulla del nuovo paese: sa solo che Dio gliene fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere la benedizione realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con colui che lo coinvolgeva nella sua storia sacra fino a diventare il suo Dio, lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo commento al Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di Dio, diventa benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza dell’amore di Dio e lo splendore che si irradia su tutto.

Così, se Abramo ascolta Dio, Gesù ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà nel condividere, nella loro umanità, lo sguardo di compiacenza del Padre, che riposa tutto sul suo Figlio benedetto, fatto uomo. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che, mentre ci squaderna il segreto di Dio per l’uomo, fa rilucere il mondo dello splendore della sua bellezza.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Quaresima

III Domenica

(19 marzo 2017)

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Es 17,3-7;  Sal 94;  Rm 5,1-2,5-8;  Gv 4,5-42

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Anticamente i fedeli che si preparavano al battesimo, che avrebbero ricevuto nella solenne veglia pasquale, venivano accompagnati con delle catechesi, la prima delle quali cominciava con la liturgia di oggi. Nel colloquio con la samaritana al pozzo di Giacobbe, Gesù si definisce Acqua viva, sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna. Nella prossima, con la vicenda del cieco nato, Gesù è definito Luce; nella terza, con la risurrezione di Lazzaro, Gesù si presenta come Vita.

La liturgia quaresimale indica i percorsi della conversione del cuore con le domande di fondo essenziali. Una di queste domande, forse non sempre espressa, ma continuamente serpeggiante nel cuore, è quella del popolo di Israele, esasperato nel deserto dalla fame e dalla sete: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). La domanda del popolo non è provocatoria o irriverente; semplicemente, è angosciante: il Signore è con noi? Ogni prova fa emergere il dubbio: ma Dio vuole davvero il nostro bene? L’insinuazione dell’antico serpente disturba i sogni di felicità dell’uomo.

Nel riferirci a Dio, quello che forse il nostro cuore stenta a credere è sentirlo pieno di desiderio di noi, è sentire la sua ‘sete’ di noi. Nel prefazio della messa di oggi la chiesa proclama: “Egli chiese alla samaritana l’acqua da bere, per farle il grande dono della fede, e di questa fede ebbe sete così ardente da accendere il lei la fiamma del tuo amore”. In effetti è Gesù che chiede da bere alla samaritana, è lui che ha sete. Evidente il rimando alla sete di Gesù sulla croce: “Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: ‘Ho sete’” (Gv 19,28). Come a dire che tutta la Scrittura è l’espressione della sete di Dio per noi. Gesù è affaticato da un viaggio e si siede sul pozzo, assetato; Gesù è sulla croce, riarso dalla sete, come spasimo di un corpo ormai distrutto. Eppure, l’annotazione dell’evangelista non ha un valore cronachistico, ma simbolico, teologico. Ciò che aveva colto madre Teresa, tanto da far scrivere sull’abside di tutte le cappelle delle sue comunità: Ho sete!

Non so se un dettaglio del racconto evangelico abbia anch’esso un valore simbolico, insieme a tanti altri dettagli. Ho notato che il testo, parlando del pozzo di Giacobbe, quando riferisce l’annotazione delle Scritture e quando parla Gesù, il termine che viene usato è ‘sorgente’, quando parla la samaritana è ‘pozzo’. Sorgente si riferisce all’acqua corrente, all’acqua viva; pozzo al deposito di acqua. Davanti all’acqua che Gesù promette di dare, ogni altra acqua non è che acqua stagnante.

Il brano dell’incontro di Gesù con la samaritana è uno di quei brani di cui ci sfuggono continuamente le allusioni dandoci netta l’impressione di sentirci davvero stranieri in casa nostra. Il brano acquista ben altre risonanze se teniamo presenti le reminiscenze legate al luogo, Sichem (cfr. Gen 12,6; 34; 37; Gs 24; 1Re 12) e soprattutto al pozzo, carico di una simbolica nuziale. Nota era la leggenda targumica legata al pozzo di Giacobbe raccontata a commento del passo di Gen 29,10, quando Giacobbe leva la pietra dal bordo del pozzo per dare da bere al gregge di Labano: “Quando il nostro padre Giacobbe levò la pietra da sopra la bocca del pozzo, la fonte zampillò su e venne alla sua bocca e zampillava e veniva alla bocca per vent’anni – tutti i giorni che abitò ad Haran”. Nel sogno popolare il pozzo di Giacobbe trasbordava spontaneamente, senza bisogno di attingere e irrigava, con i suoi quattro bracci, tutto il campo di Israele come il fiume del paradiso terrestre in Gen 2,10-14. Quando la samaritana si rivolge a Gesù come a uno che si vorrebbe più grande di Giacobbe, allude esattamente a quel ‘sogno’ e rivela indirettamente che Gesù è proprio colui che quel sogno realizza per l’uomo. Dire che la samaritana ha avuto cinque mariti e che quello che aveva non era suo marito vuol dire alludere al trasferimento di cinque popolazioni pagane in Samaria per opera del re di Assiria (cfr. 2Re 17,24) e al traviamento rispetto all’alleanza con il Signore non più servito in santità.

È anche possibile leggere il brano con le allusioni alla passione del Signore: l’ora sesta è l’ora in cui ha luogo la crocifissione; la sete di Gesù allude alla sua sete degli uomini, che manifesta sulla croce; l’acqua che zampilla fa riferimento al costato, aperto dalla lancia del soldato, da dove fuoriescono sangue e acqua; la proclamazione finale dei samaritani che Gesù è il salvatore del mondo allude al riconoscimento sotto la croce che Gesù è davvero Figlio di Dio.

Il brano poi è suddiviso in due scene: il colloquio con la samaritana incentrato sull’immagine dell’acqua e il colloquio con i discepoli incentrato sull’immagine del cibo. Ci sono due tipi di acquietamento della sete e della fame che non soddisfano l’uomo alla ricerca di relazione, di senso, di vita, di felicità. Voler praticare la Legge come un assolvimento di obblighi e una esibizione di innocenza provoca delusione e tristezza. Non è questa l’adorazione in spirito e verità che cerca il Signore. Il punto nevralgico del racconto dei due colloqui è dato dal fatto che l’uomo, desideroso di acqua viva e cibo vero, si trovi aperto alla rivelazione donata da Dio: lì davanti c’è colui che, unico, ha il potere di dare la vita, di fornire la fonte dell’acqua, di dare il cibo di vita eterna, il suo stesso corpo. “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito…”: cogliere questa rivelazione in quell’uomo che ti parla, che ti ha voluto incontrare, che ti segue nei meandri del tuo cuore e che, facendoti emergere il desiderio di verità e di vita che vi sta sepolto, lo può soddisfare, è il mistero della conversione. Conversione che si riassume nell’espressione della Scrittura: ‘guarderanno a colui che hanno trafitto’, vale a dire: incontro rigenerante con colui che ti disseta e sfama con l’amore che quella ferita ha mostrato al mondo. Quando, rimirando quell’innocente appeso sulla croce, ci si rende conto del mistero dell’amore di Dio che è arrivato agli uomini, allora la parola di verità ascoltata si fa parola vera del mio cuore, la promessa di vita diventa vita mia, la sua sete e fame di noi si fa acqua e cibo per la vita del nostro cuore, dono di Dio e volontà di bene di Dio per noi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(26 marzo 2017)

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1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a;  Sal 22;  Ef 5, 8-14;  Gv 9, 1-41

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I tratti che avevano definito la venuta del Cristo nel prologo del vangelo di Giovanni (“in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini […] Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”), con il vangelo del cieco nato si impongono alla coscienza dei fedeli. Ciò che la colletta della prima domenica di quaresima aveva invitato a chiedere: “concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo”, viene ripreso dalla colletta di oggi: “… perché vediamo colui che hai mandato a illuminare il mondo e crediamo in lui solo”.

Il brano di oggi, nella prospettiva battesimale nella quale la chiesa lo proclama, può essere accostato da vari punti di vista. Consideriamo la persona del cieco nella sua progressiva apertura alla fede. Non è lui a chiedere la guarigione: l’iniziativa è di Gesù. Lui ha fiducia e va a lavarsi alla piscina di Siloe (quella dalla quale veniva attinta l’acqua portata solennemente verso il tempio e versata attorno all’altare nella solennità della festa delle capanne, cfr. Gv 7,37-39. Siloe significa piuttosto ‘chi invia [le acque]’e Giovanni, rendendolo al passivo, ‘Inviato’, indica che la nostra guarigione si trova in Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’ dal Padre, v. 4). Nelle parole del cieco guarito Gesù è indicato prima come ‘quell’uomo che si chiama Gesù’, poi ‘un profeta’, poi ‘che è da Dio’ e infine, davanti alla domanda di Gesù che lo va a cercare dopo che è stato cacciato dai farisei: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”, risponde: “Io credo, Signore!”.

La progressione segnala la dinamica spirituale del credente. Da un singolo evento (la guarigione dalla cecità) si arriva al coinvolgimento di tutta la propria vita (la fede nel Figlio dell’uomo). Oppure, per esprimerla con altra immagine, dalle cose si passa a scoprire un Volto e da questo Volto si torna, nuovi, alla propria vita, alla propria storia. Gli eventi ci sono dati per scoprire il Volto di colui che il nostro cuore cerca e la scoperta di questo Volto ci rimanda agli eventi perché siano vissuti nella luce e nella vita che da lui promanano.

Altro aspetto di tale dinamica è quello che chiamerei la responsabilità della storia personale. È vano voler trovare il senso delle cose per assumerle (l’atteggiamento dei farisei lo dimostra); piuttosto, le assumo e scopro il senso (è la via della fede e dei comandamenti evangelici). A tale riguardo è estremamente significativa l’introduzione al brano del cieco nato. I discepoli interrogano Gesù: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”. La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo alludere al fatto che Gesù si appresta a fare il miracolo? No, certamente. Gesù indica la prospettiva per vivere la vita segnata dal male, nella fede in lui. Cercare la causa del male ‘indietro’ ci inchioda al non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata ‘in avanti’, rispetto a un qualcosa che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. Ma non si tratta più semplicemente di cose, di eventi, bensì di incontri, di volti. È il mistero stesso della fede. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere ricevendola dalle mani di colui che ci è venuto incontro ed ha mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell’amore umano trova qui le radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così spesso ci condanna.

L’unico modo per riscattare il male è quello di aprirsi allo spazio futuro, nella consapevolezza però di non stupirsi che il male ci venga a cercare. Ma se il male ci viene a cercare, è perché si manifestino in noi le opere di Dio. È l’insegnamento della Tradizione sulle tentazioni: “quando sopraggiunge una tentazione, non cercare perché o a causa di chi è venuta: ma in che modo sostenerla con rendimento di grazie, senza tristezza e senza rancori” ; “Prega perché non venga su di te la tentazione. Ma se poi viene, accettala non come cosa estranea, ma tua” (Marco Asceta, A quelli che si credono giustificati, 198; La legge spirituale, 164). E per quale scopo se non per rinunciare definitivamente alla rivendicazione dei nostri diritti e fidarsi invece del Bene di Colui che ci viene incontro? Non stare inchiodati al passato significa percepire che Qualcuno si è mosso per venirci incontro.

I vari personaggi che entrano in gioco nella scena del racconto tendono a inchiodare il cieco alla sua storia. I discepoli di Gesù lo vedono sotto il peso del castigo di Dio; i farisei si tengono a distanza per paura di dover trarre le conseguenze dall’evidenza di un miracolo del genere e gli rinfacciano perciò la sua ‘nascita nei peccati’ (in questo, dimostrandosi ‘veri ciechi’, come dirà Gesù alla fine); i suoi genitori se ne stanno da parte per timore. Lui, invece, forte della gioia della sua guarigione, sa tener testa a tutti e proprio perché nessuno gli sta attorno amichevolmente, quando Gesù si fa vedere da lui, è pronto a riconoscerlo non semplicemente come il suo guaritore, ma come colui che gli ha aperto la visione della vita: “Io sono la luce del mondo; chi segue me avrà la luce della vita” (Gv 8,12), ripreso nel canto al vangelo.

Quando Gesù dice “Io sono la luce del mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3, quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità amorevole di Dio che attraversa il mondo, luce che è stata nascosta. È la luce che fa intuire il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi del serpente che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo], perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(2 aprile 2017)

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Ez 37, 12-14;  Sal 129;  Rm 8,8-11;  Gv 11,1-45

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Gesù, che ha appena saputo della malattia mortale del suo amico Lazzaro, non si muove subito: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Sembra che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio ritarda? Perché Dio non impedisce la morte? Gli amici della famiglia di Lazzaro così pensano. Per noi invece la domanda che rimbalza può essere formulata così: sarà mai possibile vedere la gloria di Dio nella nostra vita?

È la stessa domanda della fede di Marta, che inaspettatamente risponde a Gesù, non di credere a quello che gli ha detto, ma: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a morire per manifestare in tutta la sua potenza l’amore del Padre, da cui scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.

La fede apre ad una vita che consiste nel vedere la gloria di Dio. Ma di quale gloria si tratta? È sempre questo il punto misterioso del discorso e dell’agire di Gesù. Quando il seguito del vangelo confermerà che effettivamente Gesù viene condannato alla morte di croce, l’evangelista parla proprio di glorificazione. E non allude semplicemente alla glorificazione che seguirà la morte in croce quando risorgerà, ma al mistero di quella gloria che consiste nella rivelazione di quanto Dio ami gli uomini. È nell’amore di Dio che arriva agli uomini che va cercato il senso della gloria di Gesù. Gloria che si fa rivelazione e dono di una vita ormai definitivamente segnata da quell’amore, di cui lo Spirito ci fa partecipi. Di questo è segno il miracolo della risurrezione di Lazzaro.

La colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.

Il nostro gridare, nel salmo responsoriale, a commento del passo di Ezechiele che riporta la promessa di Dio di aprire le nostre tombe in riferimento alla liberazione del popolo da Babilonia: “Dal profondo [secondo la versione greca: Dalle profondità] a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince. È interessante osservare che l’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘va’, la tua fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.

Un’ultima annotazione. Con il miracolo della risurrezione di Lazzaro Gesù scatena la sua ora, come la finale del capitolo sottolinea espressamente: “Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,49-52). Lo scopo e la ragione del suo agire, sottolineato dal potere di fare miracoli, di cui questo della risurrezione di Lazzaro è il settimo nel racconto di Giovanni, si manifesteranno chiaramente con la sua stessa morte e risurrezione.

Se Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si espone alla sua prova, anzi la provoca con l’arresto e la morte imminenti. Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l’attraversa, la porta fino in fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Quaresima

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

(9 aprile 2017)

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Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, Mt 21,1-11

Is 50,4-7;  Sal 21;  Fil 2,6-11;  Mt 26,14-27,66

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La liturgia della domenica delle Palme introduce alla settimana cruciale per la storia del mondo, quella che permette una visione d’insieme della creazione e della storia dell’umanità: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito … per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 3,16 e 11,52). Le celebrazioni di questa settimana mostrano fino a che punto Dio ha amato il mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto l’uomo è prezioso agli occhi di Dio.

Per tutta la settimana santa si leggerà il libro del profeta Isaia nei quattro canti del Servo del Signore (cap. 42, 49, 50 e 53) che, insieme al salmo 21, costituiscono le testimonianze profetiche per eccellenza della passione di Gesù. Sono quei versetti a costituire la cornice di riferimento per lo svolgimento dei riti santi e sono quei versetti a esprimere la profondità e la tenacia dell’amore di Dio per l’uomo, così prezioso ai suoi occhi. Le espressioni drammatiche del salmo 21: “Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente … hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa…” (sal 21,7.17-18) sono piene degli echi del profeta Isaia che descrive il Servo del Signore così: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire … per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,3.5). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi contempliamo nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che per noi ha patito, è morto e risorto, in obbedienza in tutto all’amore del Padre per noi.

La liturgia della domenica delle palme si suddivide in due momenti distinti: un primo momento di gloria con la commemorazione del trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme e un secondo momento, una volta che la processione delle palme ha raggiunto la chiesa, con il racconto della passione di Gesù. Ciò che comunque colpisce nei due momenti è la solitudine di Gesù. Il prodigio della risurrezione di Lazzaro aveva suscitato l’entusiasmo della gente e l’illusione di vedere finalmente realizzati i propri sogni messianici. Nessuno si accorge però di quello che in realtà sta avvenendo. L’evangelista lo fa rimarcare, ma come da fuori campo: la risurrezione di Lazzaro ha scatenato gli eventi della passione di Gesù, alla quale volontariamente si consegna. Di ciò Gesù è consapevole, ma Lui solo. E la liturgia, mentre commemora gli eventi della passione del Signore, ci invita ad accompagnarlo, suggerendoci le porte di accesso per la loro comprensione. Così, per la domenica delle Palme, la celebrazione passa repentinamente dal tripudio dell’ingresso in Gerusalemme al dramma del racconto della passione.

È singolare che nel rito ambrosiano la liturgia della domenica delle Palme comporti due celebrazioni distinte: la messa dell’ingresso trionfale e la messa del giorno con il brano del servo sofferente di Isaia ed il vangelo dell’unzione a Betania di Maria. A Betania l’ammirazione per Gesù domina la scena; nessuno si avvede ancora di ciò che si va preparando. Soltanto una donna, nella tenerezza del suo amore, intuisce il mistero di Gesù. Spezzare quel vasetto di unguento assai prezioso, ungere i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto in quella casa senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l’amore che quella morte significa ed esprime, tutto l’amore che quel corpo ‘dato per noi’ significa ed esprime. I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna tutto perché l’amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore.

Secondo la profezia messianica di Zaccaria 9,9-10, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.

Nel particolare delle fronde tagliate riecheggia il Sal 117,27: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell’altare” allorquando i sacerdoti dal tempio benedicevano i pellegrini che vi salivano dicendo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [= Osanna]”. La citazione risulta ancor più misteriosa se si tiene conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima per la festa con rami frondosi fino agli angoli dell’altare”. A Gesù si fa festa perché è la vittima prescelta, ma nessuno ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’Osanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte.

Il fatto che Matteo sottolinei, come senza accorgersi dell’incongruenza, che Gesù si ponga sopra due animali, l’asina e il suo puledro, rivela l’urgenza per lui di simboleggiare il rapporto tra l’antica e la nuova alleanza, riassunte tutte e due nel gesto messianico di Gesù, il Messia pacifico nel senso che fa la pace tra ebrei e gentili, tra i vicini e i lontani. Anche la folla è descritta in due gruppi: c’è quella, più numerosa, che l’accompagna nel suo salire a Gerusalemme e c’è quella che esce da Gerusalemme incontro a lui, sebbene la città nel suo insieme resti sotto choc, come ai tempi di Erode e della visita dei Magi.

La seconda lettura riprende l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “ .. svuotò se stesso assumendo una condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7.8). L’aspetto straordinario di rivelazione di questo testo paolino è dato dal fatto che il movimento di svuotarsi (non ritenere un privilegio l’essere come Dio) continua anche nel suo essere uomo perché vive la sua umanità nel farsi servo, nel farsi schiavo fino a essere calpestato e ucciso. Però Gesù vive la sua umanità nell’obbedienza, vale a dire nella condivisione più intima dell’amore del Padre per i suoi figli, di cui Gesù è il Testimone per eccellenza. Così il suo svuotarsi diventa un inno d’amore, il dono di accessibilità per tutti a godere di questo grande amore: è tutto il mistero della redenzione.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

Pasqua di Resurrezione del Signore

(16 aprile 2017)

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At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9

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IL SIGNORE È RISORTO! È VERAMENTE RISORTO!

Questo è l’annuncio che oggi risuona in tutto il mondo dalle chiese cristiane. L’annuncio è tanto più evocativo quanto più gli occhi hanno contemplato nei giorni precedenti l’Uomo dei dolori, colui che Pilato aveva presentato: ‘Ecco l’uomo’! È l’Uomo che aveva dato inizio al suo cammino di passione celebrando con i discepoli la sua ultima cena pasquale, diventata per noi ‘la cena del Signore’, l’eucaristia, memoriale perenne della sua passione, morte e risurrezione. In quella celebrazione, con la lavanda dei piedi, l’amore viene definito nel suo mistero di dono (“questo è il mio corpo, che è per voi”) e di servizio (“Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”). La posta in gioco sarà oramai ‘aver parte con lui’. Si ha parte con lui sia celebrando l’eucaristia sia lavandosi i piedi a vicenda, perché unico è il segreto che viene svelato al mondo: la grandezza dell’amore di Dio per i suoi figli.

Nel venerdì santo la liturgia aveva illustrato fino a che punto l’amore di Gesù ha prevalso nella sua passione, sigillata dalla profezia di Isaia: “Si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” (Is 53,10). Non tanto nel senso che la volontà del Signore era di condurlo alla passione, ma piuttosto nel senso che la volontà di bene e di salvezza da parte di Dio per gli uomini potesse risplendere in tutta la sua forza e il suo splendore proprio per mezzo della sua passione. Lì possiamo comprendere la potenza dell’amore di Dio che sopravanza l’ingiustizia e la durezza di cuore degli uomini con la sua mansuetudine. Giovanni interpreta con il profeta Zaccaria 12,10: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (da leggere, secondo il testo ebraico e greco della LXX: “Guarderanno verso di me che hanno trafitto”). È quello che succederà dopo Pasqua, quando Pietro annuncerà il mistero della morte e risurrezione di Gesù in modo che gli ascoltatori si sentiranno trafiggere il cuore ripensando alla morte di Gesù. In quel ‘si compirà per mezzo suo la volontà del Signore’ sta anche l’esempio per i suoi discepoli che non potranno far risplendere l’amore di Dio in questo mondo se non come Gesù, se non seguendo la via di Gesù. Non esiste altro modo di vivere l’amore se non quello di ‘amare sino alla fine’, vale a dire di amare fino a che il mistero che richiama si sveli in tutta la sua potenza di mansuetudine e porti vita.

Senza però il sigillo della risurrezione, quel mistero non sarebbe stato colto e non avrebbe potuto essere immesso nel mondo. Le donne, i discepoli, la domenica di Pasqua, attendono o corrono al sepolcro per trovare un morto; l’unico orizzonte possibile è avere il corpo del loro amato Signore! Ma con la risurrezione, che avviene nel giorno uno della settimana, si dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino a quel momento si rivela in tutta la sua novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa all’angoscia dello smarrimento. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro.

L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione di questa intelligenza riprende tutto ciò che era stato compiuto e detto da Gesù in precedenza e si apre sul tempo futuro che non potrà essere vissuto se non nella luce di quella intelligenza.

Tanto che nell’inno pasquale la chiesa canta l’esultanza che la muove, incrollabile, nella sua supplica: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della vita. Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

II Domenica di Pasqua

(23 aprile 2017)

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At 2,42-47;  Sal 117;  1 Pt 1, 3-9;  Gv 20, 19-31

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Se la risurrezione di Gesù inaugura il giorno fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere all’orizzonte mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma allora qual è il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei sinottici, i racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore apologetico; non mirano semplicemente a comprovare la realtà del corpo risorto di Gesù. La risurrezione di Gesù non è il miracolo che può convincere della sua divinità. La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno, quindi anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste evidenza costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.

Il mondo non può vedere, il discepolo sì. Ciò significa che in gioco non è un vedere semplicemente con gli occhi, ma un vedere nella fede, un vedere nella luce della compiacenza di Dio per noi. Tommaso è riconosciuto beato non per aver toccato, ma per aver veduto. L’aveva già preannunciato Gesù a proposito della missione degli apostoli allorquando, esultando nello Spirito, aveva innalzato la sua solenne benedizione al Padre: “In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10,21-23).

Quando gli apostoli ‘vedono’ Gesù risorto non significa che hanno ‘visioni’, ma più concretamente che ‘il Signore si fece vedere’, cioè sperimentano degli incontri. Ma come un cuore può aprirsi all’incontro se già non tende a colui che desidera vedere? Per questo, nella proclamazione di fede della chiesa nella risurrezione sempre si aggiunge ‘secondo le Scritture’. Gesù è risorto, secondo le Scritture; Gesù risorto apre la mente all’intelligenza delle Scritture. Non è semplicemente il suo ‘essere ritornato in vita’ che costituisce il mistero della risurrezione. Non per nulla, nella narrazione di Giovanni, quando Lazzaro è risuscitato appare avvolto con bende, impedito di muoversi, mentre quando risorge Gesù le bende (i ‘lenzuoli’ funerari) diventano segno di qualcosa d’altro.

Teniamo presente che non si tratta tanto di riconoscere che Gesù è davvero risorto, quanto piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che porta vita e cambia tutto perché Lui ormai è sempre con noi. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria consolazione. Vuole Gesù e basta. Non vuole essere semplicemente informato della verità dell’evento, vuole la presenza di Colui di cui si certifica che è vivo. Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo e si rivolge a lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha bisogno di alcuna comprova (di mettere cioè il dito e la mano nelle ferite), riesce solo a sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”, che è la professione di fede più solenne e più intima di tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

Perché però Gesù proclama beati quelli che non hanno visto e hanno creduto? La narrazione evangelica ha presente non semplicemente la cronaca degli eventi pasquali, ma la storia dei credenti. Finirà il tempo di una certa ‘visione’, come finirà il tempo dei testimoni oculari sulla cui autorevolezza coloro che verranno dopo continueranno a credere al Signore Gesù. Quello che non finisce, perché continua eterno il giorno fatto dal Signore, è la possibilità reale dell’incontro, è la percezione della Presenza in mezzo al suo popolo, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.

La prima lettera di Pietro lo dice chiaro riferendosi a coloro che sono venuti alla fede dopo gli apostoli: “voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa” (1Pt 1,8). Per cogliere a fondo il senso si dovrebbe però tradurre: ‘senza averlo visto, voi l’amate; senza vederlo ancora, ma credendo in lui, voi trasalite di gioia’. L’espressione si riferisce a noi, che siamo venuti dopo l’epoca apostolica. L’accento non è più posto tanto sul ‘vedere’ ma sulla ‘fede’ che permette il vedere in modo da avere la vita, la stessa vita che scorre nel Figlio di Dio, morto e risorto. Si passa dalla gioia della presenza ‘vista’ (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. A questo si riferisce la confessione di Tommaso e della chiesa a proposito di Gesù risorto: “Mio Signore e mio Dio!”. E di qui scaturisce la missione nel mondo. Come Gesù è stato inviato dal Padre, così invia gli apostoli. Ciò significa che i credenti in Cristo sono resi partecipi dello stesso amore con cui il Padre ama il Figlio. Gregorio Magno commenta: “Come il Padre mi ha inviato, così anch’io mando voi, vale a dire: quando io vi invio in mezzo agli scandali e alle persecuzioni, io vi amo di quella carità con cui il Padre mi ama, Lui che mi ha inviato alla Passione”. I segni della passione restano nel corpo glorioso del Cristo, a memoria del Suo amore per noi e a ricordare a noi di custodire quell’amore nella passione che ci sarà richiesta.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

III Domenica di Pasqua

(30 aprile 2017)

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At 2,14a.22-33;  Sal 15;  1 Pt 1,17-21;  Lc 24,13-35

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Quando le donne si recano al sepolcro il mattino di Pasqua e non trovano il corpo di Gesù, di loro leggiamo: “mentre si domandavano che senso avesse tutto questo …”. In greco il loro stato d’animo è espresso con un verbo solo, che può essere reso con ‘mentre si trovavano senza via di uscita’. È esattamente il medesimo stato d’animo che alberga nei due discepoli di Emmaus, quando di loro stessi dicono al pellegrino che si è accompagnato a loro lungo il cammino: “speravamo” (“noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”). Vale a dire: sono venute meno le nostre speranze, siamo interiormente senza via di uscita. Il loro camminare non è per andare a cercare da qualche parte, ma è un tornare indietro, un tornare a casa, tutto come prima! Anzi, peggio, perché prima almeno si poteva avere speranza di qualcosa, ora si è persa anche quella! E l’evangelista li descrive: ‘col volto triste’.

La vita è spesso una sequenza di delusioni, anche se il cuore non dimentica ciò che lo aveva acceso. Non è scontato e non sembra facile ritornare ad ardere, ma diventa sempre possibile quando non acconsentiamo a chiuderci del tutto su noi stessi. Ciò appunto che ottiene la compagnia del pellegrino, prima misterioso e poi riconosciuto, che si serve delle stesse Scritture, nelle quali anche gli altri credevano, per aprirle alla rivelazione di Dio.

Vorrei soffermarmi solo su alcuni particolari del testo. Prima di tutto sui due discepoli. Sono tristi e abbattuti. Conoscevano le Scritture, ma restavano loro chiuse. La loro vicenda potrebbe essere riassunta in questo modo: proprio a partire dalla loro fede nel Dio di Israele erano stati affascinati dalla figura di Gesù e avevano creduto in lui; l’avevano seguito, ma forse in funzione delle loro attese secondo la storia di Israele, perché avevano, sì, sentito Gesù predire la sua passione, ma a passione avvenuta non si raccapezzavano più e cedettero alla delusione. S. Agostino spiega: “Nel tempo trascorso con loro prima della passione, infatti, egli aveva predetto ogni cosa: che avrebbe patito, che sarebbe morto, che il terzo giorno sarebbe risorto. Aveva predetto tutto, ma la sua morte fu per loro come una perdita di memoria. Quando lo videro sospeso al patibolo furono così turbati che dimenticarono i suoi insegnamenti, non attesero più la sua risurrezione, non rimasero saldi nelle promesse”. I due discepoli non avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù e quando il viandante che si accompagna loro ritorna alle Scritture, che loro stessi conoscevano, pur senza essere capaci di aprirle, il loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando vogliono con loro quel pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa riconoscere, la loro storia si riaccende, tutto si collega e prende vita; devono tornare a Gerusalemme dai compagni che a loro volta hanno fatto la stessa esperienza e nella gioia che tutti insieme provano vivranno ormai la loro storia aperta sul mondo, che ha diritto anch’esso a quella letizia.

‘Aprire’ e ‘ardere’ sono le due facce della stessa medaglia. Singolari i due passi scritturistici con cui i Padri illustrano il movimento del cuore: l’episodio di 2Re 6,17, quando il profeta Eliseo prega che si aprano gli occhi del servo in modo che possa vedere i carri e i cavalli di fuoco mandati a difesa del profeta e il passo di Lc 12,49 con la dichiarazione di Gesù che lui è venuto a gettare il fuoco sulla terra. E s. Ambrogio commenta: “Ali di fuoco sono, dunque, le fiamme della Scrittura divina”. E Origene: “… ascoltando le parole divine, si infiammino di fede, brucino di carità, si consumino di misericordia”.

Il salmo responsoriale, il salmo 15/16, racconta proprio la letizia della scoperta della presenza del Signore che si accompagna a noi. Siccome però il dono di Dio risponde direttamente al desiderio dell’uomo, al cuore dell’uomo sembra che le attese che lo muovono corrispondano al dono di Dio. Il dramma della vita e la vicenda dei discepoli, come dello stesso Signore Gesù, parlano invece diversamente. Ci attende un lungo cammino perché le nostre attese si convertano al dono di Dio, ma quando questo avviene scatta quella letizia che tutto riempie.

Particolare determinante del racconto è il fatto che i discepoli non riconoscono Gesù quando spiega loro le Scritture, ma quando si dona loro con l’eucaristia (a questa allude, secondo l’esperienza della chiesa, il benedire e lo spezzare il pane del racconto). Senza quel ‘dono’ la Scrittura rimane ancora muta. Per noi, ora, la ‘visione’ non c’è più, ma lo ‘spezzare il pane’, questo, sì, continua nella chiesa e continua la percezione della Presenza di Gesù, morto e risorto, che si dà a noi tramite la parola e il corpo, tramite le Scritture e l’eucaristia. Quello che non è detto, ma fa da sfondo vitale, è che parola e corpo si possono ‘vedere’ solo nella chiesa, dentro la storia comune che ci ingloba. Non si può assumere il corpo di Gesù se non accogliendolo ‘secondo le Scritture’. Quel ‘secondo le Scritture’ allude al mistero di Gesù come apertura al mistero di Dio, al mistero e al senso del mondo, al mistero del Regno che ci lambisce fino a inglobare tutti nella sua luce di letizia. Gesù rimanda alla storia di Dio con Israele, nella quale accogliere la storia di Dio con l’umanità e la nostra, personale, singola storia, perché il suo Spirito di vita faccia esplodere le nostre attese secondo il dono di Dio.

Come per i discepoli di Emmaus, una volta che gli occhi si sono schiusi e la fede si è fatta ‘visione’ per la parola e per il corpo del Signore Gesù, il cuore mette fretta ai piedi in due direzioni: una, verso la chiesa, nel senso di vedere confermata e condivisa la propria visione; l’altra, verso il mondo, perché nessuno possa restare privo di questa visione, tanto racconta la verità di Dio e la verità del cuore dell’uomo. In questa comunione condivisa, testimoniata, cercata, donata, accolta, il cuore può riposarsi perché gode lo stesso riposo di Dio: si faccia una sola famiglia, nel regno di Dio. Ma il riposo che si godrà è assai diverso da quello che ci si immagina … sicuri però che comunque sarà il vero riposo.

E non per nulla il corpo glorioso di Gesù reca i segni della sua passione d’amore, che soltanto in questo mondo poteva ricevere. Ciò significa che tutto può essere riscattato e attraversato dallo splendore di Dio e il luogo da cui questo si esprime è proprio il nostro cuore, che alimenta il suo ardore lasciando bruciare le sue delusioni.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

IV Domenica di Pasqua

(7 maggio 2017)

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At 2,14a.36-41;  Sal 22;  1 Pt 2,20b-25;  Gv 10,1-10

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La liturgia di questa domenica è intessuta sull’immagine del buon pastore (cfr. Sal 22; 1Pt 2,25; canto al vangelo e colletta), tipica del cap. 10 del vangelo di Giovanni, proclamato la quarta domenica di Pasqua in tutti e tre i cicli A, B e C, suddividendolo in tre parti. Nel ciclo A il brano si incentra più semplicemente sulla figura della porta: “in verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”.

Le parole di Gesù seguono la vicenda della guarigione del cieco nato con l’allontanamento di questi da parte dei farisei e del suo incontro con Gesù. È in questo contesto che Gesù applica a sé l’immagine del pastore, in contrapposizione a coloro che si ritengono pastori. Solo Dio però è il pastore di Israele; solo lui guida il suo popolo perché se l’è scelto, l’ha posto in essere, gli testimonia il suo amore di predilezione e ne esige la santità corrispondente. Ogni altro che ambisce a pascere Israele a titolo proprio è ladro e brigante. E Gesù, prima di definirsi pastore, si definisce porta. In che senso? Forse nelle parole di Gesù c’è l’allusione alla ‘porta delle pecore’ che introduceva nell’atrio del tempio di Gerusalemme. Come a dire: io sono il nuovo tempio, il luogo dove poter adorare Dio in spirito e verità. Probabilmente, però, l’allusione principale è all’episodio del battesimo di Gesù al Giordano richiamato in tutta la sua valenza rivelativa: si aprono i cieli, discende lo Spirito, si ode la voce del Padre che lo dichiara luogo della sua compiacenza. Gesù è la porta per vedere il Padre, per essere introdotti nell’intimità di vita con lui: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18); “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45). Gesù è porta tanto da parte di Dio (lui solo, che ha visto il Padre, lo può rivelare) quanto da parte dell’uomo (lui solo costituisce la chiave di senso che manca all’agire dell’uomo perché lui solo lo apre in verità al compimento della sua vocazione all’umanità come rivelazione di Dio nel mondo).

Proprio in rapporto al fatto che è la porta per il Padre Gesù dice di sé che è venuto a dare la vita in abbondanza, quella vita che costituisce il supremo desiderio dell’uomo e che solo da Dio può essere donata. Non semplicemente la vita, ma la vita in abbondanza, ad indicare quella certa qualità di vita che sola colma i desideri dei cuori. Attraverso di lui si entra per godere l’intimità del Padre e attraverso di lui si esce per riversare sul mondo l’amore del Padre. E non c’è timore che valga davanti a tale rivelazione perché Pietro, nella prima lettura, lo dichiara solennemente: “Per voi infatti è la promessa”. Quel Figlio, morto e risorto, è per voi; in lui si compiono e le promesse di Dio e i desideri del cuore dell’uomo. Il salmo responsoriale che ripete: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”, allude prima di tutto al sentimento che si era impadronito del cuore degli ascoltatori di Pietro nel suo discorso di Pentecoste: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore. E dissero a Pietro e agli altri apostoli: ‘che cosa dobbiamo fare, fratelli?’” (At 2,37). Dobbiamo guardare a quel Figlio, trafitto, e entrare nella sua vita a noi offerta, senza condizioni.

Il brano evangelico di oggi termina con l’annotazione: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” per continuare subito dopo: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”. A dire il vero il testo greco usa il termine ‘bello’: “Io sono il pastore bello”. Quella ‘bellezza’ allude al fatto di dare la vita per le pecore, motivo della sua discesa dal cielo per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. In quel ‘bello’ c’è l’indicazione del ‘modello’, non tanto nel senso di imitarlo, ma nel senso di indicare l’unica via anche per noi di vedere il volto di Dio. La particolarità dell’immagine di Gesù, pastore bello, sta nel fatto che Gesù non dà semplicemente la vita per noi; fa sì che la sua vita diventi vita nostra.

È il mistero dell’eucaristia, tipica scoperta del tempo pasquale. La sua vita è vita nostra, non solo vita per noi donata. Siamo cioè invitati a vivere della stessa dinamica di vita che caratterizza lui, vita che compie la vocazione all’umanità come rivelazione dello splendore di Dio. Come ricordava Annalena Tonelli nel decifrare il messaggio rivoluzionario dell’eucaristia: “Questo è il mio Corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, mangi la tua condanna… Se non amo, Dio muore sulla terra, che Dio sia Dio io ne sono causa, (dice Silesio), se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della sua presenza e lo rendiamo vivo in questo inferno di mondo dove pare che lui non ci sia…”.

Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della sua vita, che è vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille – in ebraico, le acque di ‘menuchot’- richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Gli antichi rabbini intravedono un atto di creazione anche nel settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (cfr. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.

A quel dono anelano gli ascoltatori di Pietro a Pentecoste, come del resto noi tutti quando ci sentiamo trafiggere il cuore di fronte al Crocifisso. “Convertitevi”: tornate alla promessa di Dio che si è compiuta in quel Trafitto, morto e risorto; tornate a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere in quel trafitto lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore – i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che per mezzo di quel Trafitto ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore. Proprio come chiediamo nella colletta: “O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita”. ‘Infondi in noi la sapienza del tuo Spirito’ allude alla possibilità di accogliere la comunione con Gesù perché il suo amore sia reso noto in questo mondo.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

V Domenica di Pasqua

(14 maggio 2017)

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At 6, 1-7;  Sal 32;  1 Pt 2,4-9;  Gv 14,1-12

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A quale promessa allude Gesù con le solenni parole con le quali si rivolge ai suoi discepoli nell’ultima cena, dopo aver loro lavato i piedi: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3)? Cosa significa ‘vi prenderò con me’ e ‘dove sono io siate anche voi’?

Dopo che Gesù ebbe lavato i piedi ai discepoli, Giuda se ne va. Solo dopo l’uscita di scena di Giuda, Gesù parla del comandamento nuovo e rivela: “dove vado io, voi non potete venire” (Gv 13,33). A cosa allude quel ‘dove’? I discepoli non comprendono. Intervengono allora con domande puntuali. Il primo a esporsi è Pietro: “Signore dove vai? … Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la vita per te!” (Gv 13,36-37). Rispondendogli, Gesù non gli preannuncia semplicemente il tradimento, ma dice anche altro. Gesù non può accettare che Pietro dia la vita per lui. Sarà Gesù a dare la vita perché l’amore del Padre per gli uomini sia noto a tutti gli uomini. Quando segue Gesù, il discepolo non è invitato a sacrificare la sua vita a Dio, ma viene trasformato in dono di Dio sempre più pieno all’umanità, come Gesù. Così l’uomo finisce di percorrere il suo cammino quando giunge a essere dono totale di Dio ai suoi fratelli. Gesù non chiede la vita del discepolo per lui, ma chiede che il discepolo, in lui, dia la sua vita a tutti perché l’amore di Dio splenda nel cuore di tutti e si faccia una sola famiglia.

È interessante osservare che in questo contesto Gesù non chiami la ‘casa’ del Padre come l’aveva chiamata quando aveva scacciato i venditori dal tempio (cfr. Gv 2,16; in greco, casa si può dire al maschile e al femminile; al maschile indica l’edificio, al femminile l’intimità della famiglia). Oramai, Gesù non si riferisce più al tempio per indicare la casa di Dio, ma all’intimità della famiglia, alla comunanza di vita e sentimenti tra Dio e i suoi figli. E quando Gesù spiega il suo ritorno al Padre e il suo venire ai discepoli (un venire che non allude semplicemente al suo ‘farsi vedere’ dopo la risurrezione o al suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, ma al suo ‘dimorare’ nei discepoli, alla sua ‘presenza’ potente tra i discepoli, al divenire uno spirito solo con il Signore da parte dei discepoli) usa l’espressione: “perché dove sono io siate anche voi”. L’espressione significa: io sono nell’amore del Padre per voi, e anche voi, se rimanete in me, sarete nello stesso amore del Padre per i suoi figli. È l’amore ‘glorificato’ di cui parla Gesù perché Gesù lava i piedi anche a colui che lo tradisce e i discepoli dovranno fare lo stesso. Di questo amore deve parlare il loro amarsi vicendevole e il loro amore per tutti. Viene data la risposta definitiva all’antica domanda di Andrea e Giovanni all’inizio del vangelo: “Rabbi, dove dimori?” (Gv 1,38). Dimoro nell’amore del Padre per voi, perché io e il Padre siamo una cosa sola.

Ma Tommaso insiste: “Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Tommaso era quello che aveva voluto seguire Gesù fino a morire con lui (cfr. Gv 11,16); sarà quello che non vorrà illudersi sulla risurrezione di Gesù e vorrà tastare il corpo del Risorto per sincerarsene e alla fine riassumerà la fede dei discepoli e dei futuri credenti con la sua solenne e intima professione: ‘mio Signore e mio Dio!’. Gli era ancora impossibile cogliere che ‘luogo’ e ‘via’ indicavano la stessa cosa. Ragionava in termini spaziali: non poteva sapere ancora che luogo e via a cui alludeva Gesù si riferivano al nostro essere in lui, partecipi dello stesso suo amore per il Padre e dell’amore del Padre per i suoi figli. Gesù gli risponde: “Io sono la via, la verità e la vita”. Da intendere: io sono la via, perché sono la verità e dunque la vita. Gesù è la via nel senso che conduce al Padre (implica il bisogno di orientare gli sforzi del vivere); perché è la verità nel senso che fa conoscere il vero volto del Padre (implica il bisogno di relazione assoluta, il bisogno di intimità, così essenziale al vivere dell’uomo); e dunque è la vita nel senso che ci ottiene di condividere la stessa vita divina di cui il Padre ci fa dono nello Spirito (implica il bisogno di pienezza, di una qualità di vita non soggetta a diminuzioni e che si traduca in gioia piena, condivisa, duratura). L’esito del percorrere quella via, del conoscere e riconoscere il vero volto di Dio, del condividerne la vita in pienezza di amore, non può che essere, come ripete diverse volte l’apostolo Paolo: essere uno con Cristo e in Cristo essere uno con tutti perché Dio sia tutto in tutti. Così il Cristo diventa l’ubi consistam, il dove trovarsi, il dove permanere, il dove essere rigenerati.

Con una sottolineatura però tutta speciale. Se Gesù è via-verità-vita, lo è in quanto Figlio, che è nel seno del Padre e di cui svela il Volto d’amore per gli uomini prendendo la sua dimora in mezzo a noi. Solo accogliendo quel dinamismo di rivelazione esteso a tutti gli uomini si può conoscere il Padre ed essere ritrovati figli in quell’unico Figlio. È la tensione ‘apostolica’ della fede nel Cristo: per credere al Cristo occorre ritrovarsi nel suo stesso ‘essere inviati’ perché il mondo conosca che amiamo il Padre e facciamo quello che il Padre ha comandato, cioè di amare tutti. Solo a mistero pasquale compiuto gli apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il Signore e della grazia concessa al mondo. Tanto che possiamo dire: noi siamo il luogo della gloria di Dio (cfr. Gv 1,14)! Grazia e responsabilità tremenda per i discepoli.

Filippo allora incalza: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. E Gesù risponde: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”. La sua richiesta riformula la domanda di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18); contiene l’ardente desiderio del cuore dell’uomo per il Dio di cui porta così intima traccia da averne una nostalgia acuta: “L’ anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 43,3). Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che salva e il Regno di Dio venire con potenza; significa cioè voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce.

Alla fine interviene Giuda, non l’Iscariota: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). La rivelazione di Dio non atterra nessuno, non si impone a nessuno, non costringe nessuno. Dio si svela nell’amore per lui, scoperto in Gesù e quello che è avvenuto per i suoi discepoli, così avverrà per tutti e i discepoli si presenteranno a tutti come l’invito a entrare nella stessa via, per vedere la stessa verità e avere la stessa vita. Il luogo del Padre, nel Figlio e grazie al Figlio, sono i credenti!

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

VI Domenica di Pasqua

(21 maggio 2017)

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At 8,5-8.14-17;  Sal 65;  1 Pt 3,15-18;  Gv 14,15-21

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La promessa dello Spirito Santo, che Gesù rivolge agli apostoli prima della sua passione, si vede realizzata nell’invito di Pietro nella sua lettera: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Gesù in effetti aveva promesso ‘un altro Paraclito’ (che non vuol dire Consolatore, ma Avvocato, Intercessore, Patrono) “perché rimanga con voi sempre, lo Spirito della verità” (Gv 14,16-17).

Quello che è importante cogliere, in questa promessa, è l’urgenza del dono dello Spirito nel senso che Gesù ha ben presente la situazione nella quale i suoi discepoli si troveranno nel testimoniare la loro fede in lui (sono inviati al mondo e subiranno persecuzioni). Dovranno vivere quel “rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4) nel contesto di una lotta perché l’amore di Dio prevalga e redima il mondo. Come è stato per il Maestro, così per i discepoli. Tanto che la traduzione italiana della lettera di Pietro ‘adorate il Signore nei vostri cuori’ non rende la drammaticità di quello che quell’adorazione comporta. Il termine greco è ‘santificate il Signore’, alludendo al profeta Isaia quando dice: “Non chiamate congiura ciò che questo popolo chiama congiura, non temete ciò che esso teme e non abbiate paura. Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura” (Is 8,12-13). Il contesto è quello della persecuzione, quando il principe di questo mondo si scatena e il profeta invita a restare fermi nella fede in Dio: solo lui è il Santo, nessun altro va temuto. Proprio come un vecchio detto chassidico spiega: “Rabbi Michal diceva: “Questa è la nostra vergogna, che noi temiamo qualcun altro fuori di Dio”.

E qual è l’unica condizione perché l’azione dello Spirito inviato da Gesù risulti efficace? Lo veniamo a sapere dalla finale del capitolo di Giovanni: “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla” (Gv 14,30). Ma anche qui la traduzione letterale sarebbe: ‘in me non ha nulla’. In Gesù il diavolo trova solo il comandamento di Dio, quello di amare i suoi figli come testimonianza della grandezza dell’amore del Padre per loro; in lui il diavolo non può rivendicare nulla di suo e quindi non lo può distogliere dal suo scopo. Vale anche per i discepoli, come dice Gesù poco prima agli apostoli: “Chi accoglie [= chi ha] i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (Gv 14,21). Qui allora si comprende come parola e comandamento evochino la verità di un legame, di un’alleanza. Il comandamento non ha a che fare con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio non può rapirgli quell’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.

La conferma deriva dalla conseguente promessa. Se uno ama Gesù, se tende a lui, quello che avviene nell’anima è esattamente quello che Gesù promette: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21 e ancora: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23, proclamato oggi come canto al vangelo). Ecco, lo Spirito ci è inviato perché i nostri cuori godano del ‘manifestarsi’ di Gesù nel suo essere Signore e Salvatore e dell’intimità di quel ‘dimorare’ della Trinità nel cuore perché ogni tipo di prova che si subisce nella vita del mondo non ci svii né dall’amore di Dio né dall’amore dei fratelli, mai. Avviene ancora quello che Gesù dice: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). Questa è la distinzione tra il discepolo e il mondano: il discepolo vede con gli occhi del cuore, percepisce quello che l’altro non vede né può vedere. È lo sguardo aperto della fede. A questa fede, alla potenza di questo sguardo, nemmeno gli apostoli erano pronti. Si immaginavano una specie di rivelazione costringente tanto che tutti avrebbero dovuto riconoscere la potenza di Dio, come atterrati.

È l’apostolo Giuda, non l’Iscariota, quello che aveva colto come la manifestazione di Gesù non corrispondesse a quanto si sarebbero aspettati secondo la loro attesa messianica e domanda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). Tra mondo e Spirito c’è opposizione perché il primo vorrebbe piegare il secondo ai suoi scopi di potere e di gloria, perseguiti ai fini del dominio su tutto e su tutti, mentre per lo Spirito potere e gloria derivano solo dall’amore misericordioso per tutti, che in Gesù risplende come la rivelazione di Dio nel mondo. Se lo Spirito è chiamato lo Spirito della verità è perché la sua azione è tutta tesa a far gustare l’amore di Gesù e a inglobarci nell’amore che lui ha testimoniato al mondo da parte del Padre. Non per nulla l’osservanza dei comandamenti ha sempre a che fare con l’amore, non solo nel senso che si possono osservare se si ama Gesù, ma anche nel senso che i comandamenti sono le possibilità concrete per vivere l’amore di Gesù verso tutti e quindi gustare l’intimità col proprio Dio, che è amore per tutti. In effetti, man mano che accogliamo lo Spirito, il mondo in noi si ritira o, meglio, si fa Chiesa, cioè sempre più e sempre più estesamente tutto di noi asseconda l’opera di Gesù, che è quella di mostrare quanto è grande l’amore del Padre per noi e quella di riunire alla stessa mensa i figli dispersi, facendoci luogo di trasparenza dell’amore di Dio per tutti, in Cristo.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

Ascensione del Signore

(28 maggio 2017)

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At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 1,17-23;  Mt 28,16-20

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Non ci sono parole più pertinenti ad illustrare il mistero dell’ascensione di Gesù, contemplato oggi dalla liturgia, delle parole di Paolo agli Efesini, ascoltate come rivolte a noi direttamente: “Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore” (Ef 1,17-19).

Se guardiamo al mistero dell’ascensione come rimirando un quadro, vediamo Gesù in alto e immaginiamo, oranti e fiduciosi, di poter partecipare un giorno alla sua gloria. Se guardiamo da dentro la scena, la vista cambia. Dov’è il cielo o che cosa è cielo? Il cielo non è un luogo ma una dimensione e non per nulla quando Gesù dice che va al Padre dice anche che viene a noi. Cielo è il cuore dove Dio è adorato in tutta la sua gloria e la sua gloria è l’amore per gli uomini che in Gesù, morto e risorto, risplende e che il suo Spirito ci partecipa perché possiamo conoscere il Padre nel suo immenso amore per noi. Così, vedere Gesù asceso al cielo significa vedere compiersi l’umanità nella gloria dell’amore, amore che è la vita di Gesù che viene a noi e agisce dal di dentro dei nostri cuori, riempiendo ogni spazio in modo da far risplendere la presenza di Dio.

Dopo l’ascensione lo Spirito verrà inviato proprio per farci vivere la compagnia del Signore Gesù: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, versetto con cui si chiude il vangelo di Matteo e che giustifica la gioia dei discepoli alla sottrazione di Gesù ai loro sguardi. Ciò significa che nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Anche perché il contesto in cui è vissuta quell’emozione è chiaramente missionario: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”. Se potessi allora riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Resta sottolineata sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la missione alle genti, sia una dimensione di essere, in rapporto all’esperienza della presenza potente di Gesù in loro e con loro. La citazione del passo riportato sopra di Paolo agli Efesini è caratterizzato dall’insistenza sull’idea della ‘potenza’ dell’azione dello Spirito con la sottolineatura dei termini ‘potenza, efficacia, forza, vigore’.

In effetti, le parole di Gesù non esprimono semplicemente che lui resta con noi, ma che resta con noi efficacemente, potentemente. Non semplicemente, come discepoli suoi, ci riferiremo o faremo ricorso a lui nella vita, ma ne godremo la presenza con l’assicurazione che potremo restare nella dinamica del suo amore sempre e comunque, perché prevalga in noi l’amore di Dio per tutti. Con l’ascensione noi intravediamo l’itinerario completo della vita del Figlio di Dio fatto uomo per noi, morto e risorto per noi, dato a noi, in un’intimità di vita con lui, garantita dal fatto che la sua ascensione mostra la nostra umanità che sta nello splendore di Dio. Come è in cielo, così nei cuori: questa è la radice della gioia. Gioia ecclesiale, perché è il tesoro della propria umanità come dell’umanità di tutti, come sottolineano le ultime parole di Gesù agli apostoli. Ed è proprio in questa gioia che sta il superamento più radicale di ogni forma di gelosia, che tanto affligge i rapporti umani.

Il testo evangelico comporta una sottolineatura speciale per la nostra umanità. Per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere … tutti i popoli … tutto ciò che vi ho comandato … tutti i giorni”. Viene sottolineata la compiutezza, l’universalità, la totalità del mistero che si compie.

Potremmo comprendere così: il tempo della missione mira a rendere evidenti per i cuori gli effetti del saper riconoscere che a Gesù è stato dato ogni potere. Perché il nostro cuore rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire, resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di consegnarsi alla promessa di Gesù? Non è scontato per noi arrivare a dire: riconosco, Signore, che ogni momento del mio vivere e ogni punto del mio cuore si può aprire allo splendore della tua presenza; riconosco che non c’è nulla in me che non possa essere liberato dalla paura e dalla vergogna perché tu sei in noi e con noi!

La menzione del monte dove Gesù ascende al cielo richiama l’altro monte, quello della tentazione, da dove si potevano vedere tutti i regni di questo mondo. Ora, il potere che Gesù dichiara di avere è quello che il Padre gli ha concesso, il potere cioè di mostrare in verità il volto di Dio e il potere di soddisfare appieno il cuore dell’uomo. Se non troviamo scontato il potere di Gesù è perché la gloria del mondo affascina comunque. L’unico antidoto al suo fascino è la gioia di una presenza custodita, come Luca annota per i discepoli: “tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,52). Non possiamo non notare che sarà proprio questa gioia a trasformarsi presto nella potenza dell’annuncio. Senza questa gioia l’annuncio risulterebbe insignificante.

D’altra parte, il monte può alludere anche al monte della trasfigurazione, come ricorda un avorio paleocristiano del IV secolo, dove Gesù è rappresentato mentre sale al Padre su un colle alle cui pendici dormono Pietro, Giacomo e Giovanni. Come a dire: quella gloria appena intravista dagli apostoli al momento della trasfigurazione si compie con la risurrezione-ascensione di Gesù e ce ne viene partecipata la potenza con il dono dello Spirito che farà risplendere nel mondo l’amore del Padre a partire dai discepoli, ormai aperti alla rivelazione e alla compagnia del loro Gesù, Signore, che ha vinto la morte.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo di Pasqua

Pentecoste

(4 giugno 2017)

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At 2,1-11;  Sal 103;  1 Cor 12,3b-7.12-13;  Gv 20,19-23

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Il canto al vangelo riassume il senso della festa di Pentecoste: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”. Proprio collegando l’invocazione agli eventi che hanno caratterizzato la Pentecoste e nel racconto degli Atti e nel vangelo di Giovanni possiamo coglierne tutto il senso.

Il racconto degli Atti parla dell’apparizione di “lingue come di fuoco” che si posavano sul capo dei discepoli dando loro il potere di esprimersi in altre lingue. Tutti gli uomini si trovano accomunati nella stessa lode del Signore rispettando le loro diversità. È il prodigio del dono dello Spirito: ritrovando la comunione con Dio, ritroviamo la comunione tra di noi. L’immagine delle lingue si riferisce al fatto di parlare la lingua del cuore, la lingua della comunione, che corrisponde all’azione dello Spirito Santo nella chiesa: fare di tutti un cuor solo e un’anima sola, come del resto domandiamo in ogni liturgia eucaristica con l’invocazione dello Spirito. Ciò corrisponde al volere di Dio, quel volere che Gesù ha onorato fino in fondo nella sua umanità, custodendo l’intimità di unione con il Padre e la solidarietà con gli uomini nel suo amore per loro proprio accettando di custodire l’amore nella sua passione e morte. L’immagine del fuoco si riferisce invece al fatto che la lingua della comunione può provenire solo dall’amore che divora il cuore, amore che rivela la passione di misericordia di Dio per i suoi figli, amore che Dio ha effuso nei nostri cuori stabilendo in noi la sua dimora (cfr. Rm 5,5 e 8,11).

È proprio quell’amore, con la lingua di comunione che parla, che costituisce la ‘potenza’ dello Spirito che Gesù aveva promesso ai suoi discepoli. Nulla resiste a quella potenza né i nostri peccati, che vengono sciolti purificando e illuminando il cuore né il male o la cattiveria degli uomini che non riusciranno a smuoverci da quell’amore. Avviene quello che domandiamo nella preghiera del Padre Nostro: ‘venga il tuo regno’, venga cioè il tuo Spirito rendendoci luminosi e obbedienti alla potenza dell’amore. In questo contesto farei valere l’indicazione di Paolo alla comunità dei Corinzi: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (1Cor 12,7), vale a dire che ogni dono dello Spirito lavora a stabilire comunione tra gli uomini perché l’amore di Dio sia esaltato.

Il racconto di Giovanni nel suo vangelo dice le stesse cose in altra maniera. La sera del giorno di risurrezione Gesù viene tra i suoi discepoli e fa tre cose. Prima di tutto li riempie di pace: “Pace a voi!”. È il perdono di Dio riversato al di là di ogni attesa, oltre ogni possibile aspettativa. Il salmo 85, 9-11, l’aveva anticipato: “Ascolterò che cosa dice [in me] Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con fiducia. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra. Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Quel perdono costituisce come una seconda creazione, che Gesù indica con il suo ‘soffiare’ sui discepoli. Quel soffio non allude semplicemente ad una nuova creazione, ma alla creazione secondo il modello di umanità che è Gesù. Possiamo rifarci ai passi di Gn 2,7, Sap 15,11 e Ez 37,7-10, per intuire che la grazia di quell’evento percorre tutta intera la Scrittura, costituendo la promessa di Dio per noi. E la terza cosa che Gesù fa è di dare lo Spirito in funzione della remissione dei peccati. Non si tratta però semplicemente del carisma sacramentale della remissione dei peccati, ma della natura della testimonianza dei credenti nel mondo. I discepoli sono inviati al mondo come responsabili in misericordia, vale a dire come testimoni della potenza dello Spirito che vuole tutti unire nella comunione con Dio. Il dono dello Spirito è essenzialmente funzionale alla chiesa, nel senso che ogni discepolo è in missione di riconciliazione nel mondo. Quando il discepolo trattiene il peccato del suo fratello (vale a dire non lo perdona) fa un doppio male: mantiene nel mondo viva la potenza del peccato, che quindi si estenderà e impedisce a se stesso di godere dell’amore salvatore del Signore, che è amore di misericordia.

Acquistano così tutto il loro senso le preghiere della chiesa che hanno preceduto questa festa: “Venga su di noi, o Padre, la potenza dello Spirito Santo, perché aderiamo pienamente alla tua volontà, per testimoniarla con amore di figli” (colletta del lunedì); “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo, perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta del giovedì). E così si realizza la promessa di Gesù: “Riceverete la forza dello Spirito Santo, che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni sino agli estremi confini della terra” (At 1,8), intendendo terra non solo in senso geografico ma spirituale, vale a dire in ogni circostanza, in ogni situazione, in ogni prova, in ogni afflizione interiore ed esteriore. E come fare, se non riempiti e accesi del fuoco del suo amore, come il canto al vangelo proclamava?

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Solennità e feste

Santissima Trinità

(11 giugno 2017)

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Es 34, 4b-6. 8-9;  Dn 3,52.56;  2 Cor 13, 11-13;  Gv 3, 16-18

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All’ingresso la chiesa canta: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Benedizione, che viene ripresa nell’antica colletta con la supplica: “fa’ che nella professione della vera fede riconosciamo la gloria della Trinità”. È la sintesi della lunga benedizione di Paolo all’inizio della lettera agli Efesini: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo …” (Ef 1,3 sgg). Non si dà benedizione senza essere inglobati nella rivelazione della ‘gloria’ di Dio che è amore per noi.

Proclamare Dio come Trinità di Persone significa riconoscere che di Dio null’altro possiamo conoscere che il suo amore per noi. E colui che di quell’amore è il Testimone per eccellenza è quel Figlio inviato a patire, morire e risorgere perché quella conoscenza diventi la radice di vita che alimenta i nostri cuori. Perché questo è il mistero: proclamare l’amore di Dio per noi significa attingere alle radici della vita.

Scopriamo tutta la drammaticità che comporta la rivelazione dell’amore dalla lettura dell’Esodo nei capitoli 32-34. Dio, che aveva svelato a Mosè il tradimento del popolo a causa del vitello d’oro, era pronto a distruggerlo e a formarsene uno nuovo. Mosè ricorda al suo Dio le sue promesse e intercede per il popolo. Quando scende dal Sinai con le tavole della Legge tagliate e scritte da Dio, le spezza contro la montagna, distrugge il vitello e fa perire di spada gli apostati. Ma il Signore perdonerà? L’angoscia è totale. Anche Mosè sa che se il Signore venisse in mezzo al popolo lo sterminerebbe. Allora, nella sua intercessione angosciosa, aggiunge: se non vuoi loro, cancella anche me! E insiste presso il Signore: indicami la tua via, cammina con noi. E a garanzia chiede a Dio di mostrargli la sua gloria. Quando risale sul Sinai, dopo che il Signore ha accettato le sue richieste, Mosè ode il Nome di Dio: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”. E l’angoscia si scioglie: Dio perdona!

La ‘gloria’ di Dio non è che lo splendore del suo amore per i suoi figli. E solo dalla consapevolezza della propria indegnità risalta tutta la qualità dell’amore di Dio per l’uomo: un amore perdonante, un amore ricco in misericordia. Tanto che in tutto l’Antico Testamento, di nessun uomo si riporta che sia ‘misericordioso’, ma solo di Dio.

Quando il popolo sente, prima che Mosè interceda,  che Dio non verrà più in mezzo a loro, fa lutto. Sul Sinai, come sul Calvario, per noi l’amore di benevolenza di Dio per i suoi figli diventa esperibile solo ‘facendo lutto’, solo riconoscendo la nostra insensata idolatria e consegnandoci di nuovo interamente nelle mani del Dio Vivente. Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad accogliere nel suo cuore la grazia di verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre e donandoci il suo Spirito.

Così il credere in Gesù (“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”), comporta sempre:

1) la speranza in una promessa, indefinita forse, ma chiaramente avvertita. La vita, quella che riempie, non è mai immediata; se pure è alla nostra portata, non è facilmente coglibile. Il vangelo ce lo ricorda spesso: se il chicco di grano caduto in terra non muore, non porta frutto; se vuoi la vita, sii disposto a perderla …

2) l’accettazione di un rapporto, da dentro il quale scaturisce la vita e più si ha il coraggio di impegnare tutto il proprio cuore in esso, più la vita scorre abbondante

3) un consegnarsi in fiducia e quando nulla del nostro cuore si sottrarrà a questo consegnarsi, la vita sarà stabilmente goduta, immancabilmente piena.

Il nome che Dio proclama: “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà” si riassume nell’esperienza che ‘il Signore è per noi’, esperienza che Gesù fa splendere in tutta la sua bellezza. Chi ci apre a quella esperienza è proprio lo Spirito Santo il quale ci mette in comunione con l’amore del Padre, di cui il Figlio è la grazia di verità per noi. Lo Spirito ritorna a scrivere direttamente sul nostro cuore le parole di Dio di modo che noi non le professiamo semplicemente ricordando che sono parole di Dio, ma vivendole direttamente come mozione di Dio in noi. Si torna alle primitive tavole della legge che aveva scritto direttamente il dito di Dio, tavole che Mosè aveva poi infranto dopo il peccato del vitello d’oro.

È caratteristico che il cristiano, tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la confessione trinitaria: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona partecipando alla stessa comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti comportano nella sua provvidenza per noi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Solennità e feste

Corpus Domini

(18 giugno 2017)

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Dt 8,2-3.14b-16a;  Sal 147;  1 Cor 10,16-17;  Gv 6,51-58

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L’origine della festa, propria dell’Occidente latino, è legata al possente risveglio della devozione eucaristica che si sviluppò dal secolo XII in poi, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

Quando s. Agostino si domanda quale sia la virtù specifica dell’Eucarestia, non può che rispondere: “La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo”. In effetti, quando ci accostiamo alla comunione eucaristica, l’amen che il fedele risponde non significa: sì, credo che quel pezzo di pane è il corpo di Cristo, ma, più in verità: sì, so che faccio parte di quel corpo e accetto di vivere come un corpo solo! Lo rimarca anche la preghiera sui doni: “Concedi benigno alla tua Chiesa, o Padre, i doni dell’unità e della pace, misticamente significati nelle offerte che ti presentiamo”.

Un corpo solo con il Signore Gesù, che si è consegnato agli uomini perché gli uomini conoscessero la grandezza dell’amore di Dio per loro! La liturgia oggi sottolinea fortemente la realtà di quell’essere un corpo solo, nella consegna al mondo. Il brano di Giovanni, con un realismo perfino provocatorio, lo rivela chiaramente. Gesù, che si presenta come il pane vero disceso dal cielo, raffigurato nella manna che gli ebrei ebbero in dono nella loro traversata del deserto, non dice semplicemente che chi ‘mangia’ di lui avrà la vita. Dice più specificamente: chi lo ‘mastica rompendo con i denti’, azione tipica del mangiare a livello corporale. Ebbene, nello spirito, l’azione del ‘mangiare’ il corpo del Signore, è ancora più reale del mangiare fisico. Tra l’altro, Giovanni sottolinea come il primo effetto del mangiare la carne del Signore immolato non sia quello di avere il Signore in noi, ma di dimorare noi in lui, di essere noi presi in lui. E proprio questo effetto primario, tipicamente spirituale e assolutamente reale, fonte di energia e di vita, induce a collegare l’essere un corpo solo con il Signore con l’essere un corpo solo anche tra di noi, come ricorda la lettera di Paolo ai Corinzi. Essere nel Signore significa essere assunti nella dinamica di rivelazione dell’amore di Dio al mondo (questo significa l’essere inviati da Dio) per cui la vita stessa non può essere vissuta che a servizio dello splendore di quell’amore.

Nel lungo discorso/discussione, riportato da Giovanni, tra Gesù e la folla a proposito del pane di vita, dopo la miracolosa moltiplicazione dei pani, la folla comincia a dubitare quando Gesù si presenta come colui che è disceso dal cielo. Loro lo conoscono, è figlio di Giuseppe, conoscono la sua famiglia: come fa a dire che viene dal cielo? La fonte però della perplessità non sta tanto nella provenienza di Gesù, ma nella dinamica di rivelazione che lo contraddistingue: rivela il dono di Dio abbassandosi, comunica la vita di Dio abbassandosi. Quando Gesù parla di dare la sua carne da mangiare è a quel movimento di rivelazione che allude. Ma senza accettare che lui sia l’Inviato, che lui sia il Testimone dell’amore di Dio per gli uomini, il discorso è incomprensibile, troppo duro alle loro orecchie e se ne vanno via. Non potranno gustare il pane della vita, che è il pane vero (rispetto alla manna) e che è il pane vivo.

Ora, è proprio l’Eucaristia la rivelazione del mistero delle cose. Nell’inno ai vespri della festa si canta: “Frumento di Cristo noi siamo […] In pane trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace: un Pane, uno Spirito, un Corpo, la Chiesa una-santa, o Signore”. E Francesco d’Assisi, nel suo commento al Padre Nostro, annuncia: “Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì”.

Un uomo non si rivela in tutta la sua totalità se non dentro un mistero più grande di lui, che gli offre uno spazio di movimento, infinito quanto il suo desiderio. Il chicco di frumento non conosce la sua vera natura se non viene trasformato in farina, impastata, cotta in pane e poi assunto in sacramento di pace. L’uomo non coglie la sua verità se non nel suo porsi con gli altri uomini ed accogliersi ed offrirsi e farsi punto di comunione, luogo in cui crescere in comunione, assunto nel corpo di Cristo. Cosa diventa il nostro cuore compreso nella logica eucaristica? Un amore donato che si fa dimora per tutti nella gioia. E da dove si pesca la potenza e la freschezza di quell’amore se non nell’essere un corpo solo con il Signore Gesù, che di quell’amore è il testimone per eccellenza?

È l’Eucarestia, come dice s. Francesco, a comunicare al cuore dell’uomo credente, che fa affidamento alla logica che viene dall’alto, la potenza di una memoria, di una intelligenza e di un sentimento per un amore grande che ci ha toccati, per Colui che si è rivelato al nostro cuore come capace di amore per noi. Sperimentando questo, allora le sue parole, il suo agire ed il suo soffrire, si impastano con il nostro, lo lievitano e, mossi ormai dalla sua stessa dinamica di vita, impariamo a stare solidali con tutti, in quell’umanità che si fa un unico corpo, un corpo solo con il nostro Dio.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Solennità e feste

Ss. Cuore di Gesù

(23 giugno 2017)

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Dt 7, 6-11;  Sal 102;  1 Gv 4,7-16;  Mt 11,25-30

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Molti testi della liturgia di oggi possono illustrare emblematicamente l’immagine del cuore di Gesù, spalancato sul mondo, che la ferita del colpo di lancia del soldato al calvario lascia intravedere. “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo cuore”, canta l’antifona di ingresso, riprendendo il salmo 32: “Ma il disegno [consiglio] del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni” (Sal 32,11). L’antica versione greca fa pensare ad una decisione condivisa, ad una volontà condivisa nella Trinità in rapporto all’amore per gli uomini a cui Dio non rinuncia mai. I nostri pensieri invece sono mutevoli, i nostri progetti pure, ancor più i nostri desideri. Ma sperimentare che quelli del Signore sussistono per sempre, sono sempre i medesimi, significa cogliere e accogliere il segreto di amore che regge il mondo. Il fatto stesso che tale segreto possa essere svelato in tutto il suo splendore solo nel momento più drammatico della vita di Gesù, sulla croce, la dice lunga sul fatto che quell’amore non sia scontato coglierlo e viverlo, per quanto desiderabile.

L’affermazione del Deuteronomio: “Il Signore si è legato a voi … perché vi ama” resta il fondamento dell’esperienza dei credenti. E quando il salmo 102, v. 8, proclama: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” non fa che sottolineare la verità di quell’affermazione, colta nel dramma del peccato dell’uomo che non allontana Dio dall’uomo. L’espressione fa parte della rivelazione del Nome di Dio a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro, quando l’angoscia del possibile rifiuto di Dio tormentava i cuori (cfr. Es 32-34).

Proprio come dice s. Paolo: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?” (Rm 8,32). Il nostro guaio è che restiamo così insensibili alle vicende di quel ‘Figlio dato per noi’, così poco toccati nell’intimo dalla testimonianza della sua vita per noi da vivere la nostra vita più nella lamentela che nel rendimento di grazie, più nell’affanno che nella consolazione, più nel tormento e nel disprezzo che nella pace.

Gesù nel vangelo di Matteo proclama: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio …”. Vale a dire: tutta la verità a cui anela il cuore dell’uomo, tutto il bene di cui è capace il cuore dell’uomo, tutto il contenuto dei pensieri e dei desideri dell’uomo, tutta la gloria che un uomo può portare, tutti gli aneliti del cuore degli uomini nella loro immensità e profondità, tutto trova in lui il compimento, ha in lui il suo sigillo. Per questo, continua: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro“. In quel ‘venite’ risuona il grido di Dio (“Venite a me, ascoltate e vivrete”) di Is 55,3; l’invito della Sapienza ad appressarsi alla sua mensa di Prov 9,5; il grido dello Spirito e della Sposa che si dicono: ‘vieni’ di Apoc 22,17. Come Gesù dicesse: Quello che cercate; quello che, non trovandolo, vi procura oppressione; quello per cui vanamente vi affaticate, tutto potrete avere in me! La parola di Gesù è una parola di vita non solo nel senso che procura la vita a chi l’accoglie, ma anche che rivela come sussiste la vita, come si esprime la vita, come la vita si regge e si sviluppa. È il principio della fede come radice di umanità, umanità piena. Ed è per questo che ancora aggiunge: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero“. La struttura della sua umanità è commisurata alla nostra e ci raggiunge là dove più misterioso è il segreto delle sue origini: siamo nel mondo, ma non del mondo.

Due particolari sono da rilevare nel passo evangelico: la beatitudine dei piccoli e l’invito a imparare. Per amare è necessario farsi piccoli: l’amore è rivelazione, non conquista. Vediamo l’amore di Dio in Gesù perché lui si è fatto ‘piccolo’, così piccolo da dimenticare totalmente la sua gloria e poter far arrivare agli uomini l’amore di Dio. Ora, la sua piccolezza ha a che fare con la situazione degli uomini, incapaci di vedere Dio perché non più capaci di amare (“Chi non ama non ha conosciuto Dio”), non più aperti alla rivelazione dell’amore (potrebbe essere spiegata così la situazione di peccato in cui versano gli uomini che tanto li inasprisce!). Quando gli uomini si accorgono, guardando Gesù morire sulla croce, dell’amore di Dio per loro e chiedono perdono (chiedono cioè di uscire dal peccato che corrode la loro umanità), con ciò non vogliono semplicemente mettersi a posto, ma vogliono tornare a godere dell’amore di Dio, in umiltà. Più l’umiltà sarà sincera e profonda, più faranno esperienza della tenerezza di quell’amore e più saranno disposti a condividerlo con tutti.

E se Gesù invita: “Imparate da me”, che cosa dobbiamo imparare? Nel fatto di ‘imparare’ va letta la sfumatura di significato di ‘essere attratti’, come si può arguire dal discorso di Gesù alla folla dei giudei riportato in Gv 6,45 (“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”). Imparare e essere attratti comportano lo stesso movimento, alludono alla condivisione di una intimità di vita e di sentire che diventa potenza di azione. Imparare da Gesù significa perciò essere attratti a lui, per vivere della sua stessa vita. Significa imparare da lui a conoscere Dio e imparare ancora da lui a conoscere noi stessi, la nostra umanità. Se rispetto al male che devasta la nostra umanità noi ci giustifichiamo con l’attrattiva e la propensione che ci agita subendo la tristezza del diavolo, rispetto al bene noi ci muoviamo secondo la forza di una nostalgia che ci abita, nostalgia che l’umanità del Signore ci accende.

La proclamazione del salmista: “Benedici il Signore anima mia …” (Sal 102) risuona in tutta la sua potenza sulle nostre labbra appena ci apriamo al mistero del cuore di Gesù, lui che è mite e umile di cuore. Avremo modo di comprendere meno confusamente come le due definizioni di Dio dell’apostolo Giovanni (“Dio è amore”, 1Gv 4,8.16; “Dio è luce”, 1Gv 1,5) siano un tutt’uno. La luce allude alla santità di Dio nel suo splendore di amore per l’uomo, come l’amore è la dimensione della santità di Dio che accomuna a sé l’uomo. Il cuore di Gesù mostra sia l’amore di Dio che la sua santità. Non siamo attratti allo stesso titolo dall’amore e dalla santità e forse per questo l’amore, che è così desiderabile, ci riesce così irraggiungibile. Eppure, il cuore di Gesù è lì a ricordarci il contrario: possiamo entrare anche noi nella santità dell’amore di Dio e avere la vita.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XII Domenica

(25 giugno 2017)

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Ger 20, 10-13;  Sal 68;  Rm 5,12-15;  Mt 10,26-33

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Gesù ha appena avvertito i discepoli che subiranno persecuzioni ma li invita a non aver paura. Tutto il brano si fonda sul principio: “Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone” (Mt 10,24-25). La paura che prendesse il discepolo nella tribolazione non equivarrebbe semplicemente alla mancanza di coraggio, ma alla mancata intimità con il suo maestro. Tale è l’ottica di lettura per i brani di oggi.

Come a dire: la verità che lo Spirito farà risplendere è la verità, accolta, del mistero della persona di Gesù, di cui si è condiviso la vita e l’insegnamento, imparando a conoscerne l’amore e a viverne la dinamica di rivelazione che comporta. Davanti alla tribolazione che sorprende il discepolo, quando subirà persecuzione dagli uomini, quando subirà ingiustizie e oppressione, quando si sentirà ingiustamente accusato, egli potrà ‘mostrare’ che cosa il suo cuore cerca, di che cosa è pieno, che cosa costituisce il suo tesoro. Di qui deriva la sua non paura.  In effetti, il contrario della paura non è il coraggio, ma la confidenza, la fiducia. L’uomo che ha rinunciato alla sua pretesa di innocenza di fronte all’amore di Dio che lo accoglie e lo perdona, gli fa godere la sua intimità, è un uomo che non ha più paura, che non ha più paura di essere calpestato dagli uomini, di essere da loro discreditato o umiliato. Il segreto che porta, di cui è testimone, è più potente. E sarà proprio quel segreto che dovrà essere manifestato, gridato a tutti e in tutto il mondo. Proprio quello che nella più personale intimità di incontro col Signore costituisce la verità del proprio cuore, proprio quello andrà gridato in tutti modi, perché tutto sarà svelato a suo tempo, a tutti apparirà chiara la verità di quel segreto a suo tempo. Forse Gesù allude a un proverbio popolare: tutto finisce per arrivare al grande giorno. Ciò che ora è ancora un segreto, sarà la verità più limpida e convincente per tutti a suo tempo. Non temete dunque, conclude Gesù: fate risuonare quel segreto, fate risplendere davanti a tutti quella verità.

Il passo di Giovanni del canto al vangelo richiama il salmo 68, da molti interpretato come salmo della passione di Gesù. La preghiera che Gesù innalza al Padre per essere liberato dalla prova è quella di cui parla la lettera agli Ebrei: “nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Gesù però non fu sottratto alla morte, ma nella morte ottiene la vita. Una cosa simile ricorda Pietro nella sua prima lettera: “E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro, e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,13-15).

Così, nella terribile esperienza del profeta Geremia, insidiato da ogni parte e abbandonato da tutti, la sua preghiera è esaudita nel senso che i suoi nemici non ottengono la sua anima, cioè non lo piegano ai loro voleri e non lo distolgono dal perseguire la verità della parola di Dio, che continua a proclamare imperterrito. Ma da dove deriva la sua forza, la forza di non avere paura nonostante le angosce e i terrori che lo tormentano? “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso… Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7.9). La sua vita scaturiva dal legame con il suo Signore che gli aveva rapito il cuore. Così la sua supplica: “possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa” significa: che il povero, per paura del malvagio, non venga meno alla sua dignità, non desista dal fare il bene e non ceda al male.

Da dove i discepoli traggono la forza per non avere paura, per non sgomentarsi? Se il brano evangelico di oggi richiama al principio della fedeltà nella persecuzione – cosa che di per sé supporrebbe un coraggio incredibile! – ricorda però che la testimonianza si alimenta nella prospettiva di una confidenza goduta: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza che il volere del Padre vostro”. Come a dire: il Padre vostro è sempre con voi; voi siete cari al Padre vostro. Tutto quello che vi capita non è un incidente, ma ha lo scopo di mostrare il suo desiderio di comunione con gli uomini, desiderio che in voi è diventato il vostro segreto di vita. Se il male che ci viene dagli altri uccide la nostra anima nel senso che ci distoglie dalla comunione con Dio e soffoca il suo amore, come potrà il mondo ancora risplendere della presenza di Dio? Come la salvezza di Dio potrà ancora lambire i cuori?

Da notare la corrispondenza tra il riconoscimento di Gesù davanti agli uomini e il riconoscimento suo davanti al Padre. A dire il vero, il testo evangelico suona: ‘Chi confesserà in me davanti agli uomini, anch’io confesserò in lui davanti al Padre mio’. Il che significa: non si può confessare il Signore Gesù se non a partire da un’intimità di vita con lui, per cui riconoscerlo significa godere dell’intimità che ci offre. E la cosa avviene davanti agli uomini nel senso che quell’intimità si svela nell’amore verso gli uomini, alla comunione coi quali tende il desiderio di Dio, proprio quando gli uomini, rifiutando di rispondere a quel desiderio, contestano e opprimono coloro che vivono secondo quel desiderio che è diventato il loro segreto. Il riconoscere di Gesù davanti al Padre significa mostrare al cuore la verità dell’amore salvatore di Dio per gli uomini che prevale in ogni circostanza, anche la più drammatica o la più affliggente.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

(2 luglio 2017)

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2 Re 4,8-11.14-16a;  Sal 88;  Rm 6,3-4,8-11;  Mt 10,37-42

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In due occasioni Gesù invita a prendere la propria croce e a seguirlo. La prima, che viene proclamata oggi, allorquando Gesù istruisce i discepoli che manda in missione. Dopo aver ricordato loro che saranno perseguitati, che lui non è venuto a portare pace sulla terra ma spada e che la fede in lui sopravanza l’amore per i propri cari (l’amore per i propri cari non può essere ragione sufficiente per separarsi da lui), Gesù invita: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 10,38). La seconda, in occasione della confessione di Pietro a Cesarea, quando Gesù decide di rivelare la sua prossima passione e redarguisce l’apostolo per aver pensato in termini mondani: “Va’ dietro a me, Satana!” e allarga a tutti l’ammonizione: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,23-24). L’evangelista Luca, invece, nel capitolo 14, ricorda l’ingiunzione di Gesù a portare la croce come la firma alla parabola del saper calcolare se si hanno i mezzi sufficienti a costruire una torre (la sequela di Gesù comporta una prospettiva di vita, non semplicemente un’emozione o un entusiasmo del momento) e alla ricerca dell’ultimo posto come espressione di sapienza evangelica. In ogni caso, il prendere la croce ha a che fare con il voler essere discepolo di Gesù, con il voler stare dove lui sta, con l’andare dove lui va. Non si tratta di pazientare con la propria croce, ma di cogliere il segreto che regge questo invito: cosa cerchi? Dove vuoi arrivare? Per quale tesoro ti angosci? Si tratta di cogliere la promessa che sta racchiusa in ogni parola di Gesù: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34). Il prendere la croce vuol dire portare ogni cosa in vista di godere di quel regno, non nell’attesa del regno che verrà, ma del regno che è davanti a noi, che è alla nostra portata, perché Gesù ce lo apre. Così il discepolo rinuncia a tutti i beni, non nel senso che non ne gode, ma nel senso che non li preferisce all’amore di Gesù, nel senso che non ne fa motivo di ira e tristezza se gli vengono tolti pur di custodire la sequela di Gesù. Senza percepire però la verità e l’emozione interiore della promessa del regno non sarà possibile prendere la propria croce e andar dietro Gesù.

Proprio per questo risulta particolarmente consolante l’applicazione che Gesù fa delle sue parole: “Chi accoglie voi accoglie me …. Chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto … chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua … non perderà la propria ricompensa” (Mt 10,40-42). La prima applicazione è per coloro che non credono ancora a lui e ricevono con benevolenza chi parla loro bene di lui. Avranno la stessa ricompensa dei credenti in lui, tanto lui ritiene fatto a sé ogni gesto in favore dei suoi inviati. Ma c’è un significato ancora più misterioso e consolante, che si potrebbe spiegare così. Se si guarda a un uomo come a un giusto (vale a dire, non lo si giudica mai a partire da un’accusa o da un sospetto) si ha la possibilità di avere la ricompensa del giusto. Anche in questo caso Gesù si identifica con ogni uomo, suo fratello. Ogni benevolenza usata nei confronti di quell’uomo egli la ritiene fatta a sé. E la ricompensa del giusto è quella di godere dell’intimità col proprio Signore. Così, quando un uomo si pone con benevolenza verso un altro uomo, si trattasse pure di un semplice bicchier d’acqua offerto gentilmente, si ottengono due effetti straordinari: primo, io sarò trattato da giusto dal Signore (i miei peccati saranno perdonati); due, quell’uomo, fosse cattivo, nel tempo del giudizio, avrà una voce in suo favore e Dio ne terrà conto. È il principio di solidarietà con l’umanità che i santi hanno sempre insegnato. Non ci si salva da soli né ci si salva sulla base di propri exploit, ma sulla base della benevolenza usata ai nostri fratelli, perché quella benevolenza onora la paternità di Dio.

San Paolo, per riassumere questa sapienza evangelica, non troverà di meglio che definirla così: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio … Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,18.25). Di modo che: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Da intendere: nel mondo non c’è nulla da preferire all’amore di Gesù e in me non c’è nulla che può essere portato a compimento se non con Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XIV Domenica

(9 luglio 2017)

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Zc 9, 9-10;  Sal 144;  Rm 8, 9. 11-13;  Mt 11, 25-30

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La liturgia di oggi può essere letta come una rivelazione del Nome di Dio. L’antica richiesta di Mosè: “Mostrami la tua gloria” (Es 33,18), esigita a conferma della promessa di Dio di non ripudiare il popolo dopo il peccato del vitello d’oro, di stare ancora in mezzo al popolo, di guidarlo verso la terra promessa, trova un’ulteriore soddisfazione. Sul Sinai, non potendo vedere il volto di Dio, Mosè ascolta la proclamazione del Nome di Dio: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6). Il profeta Zaccaria lo mostra come incarnato nel re-messia che entra in Gerusalemme, umile, portando pace e che il salmo responsoriale, il salmo 144, proprio rifacendosi alla rivelazione del Sinai, commenta come Dio misericordioso e pietoso, buono verso tutti.

Nel brano di vangelo che proclamiamo oggi Gesù si rifà a quella rivelazione e la mostra realizzata in lui: l’uomo ora può anche vedere il volto di Dio! Gesù è il volto di Dio “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco nell’amore”. Il definirsi come ‘mite e umile’ introduce a vedere la gloria di Dio, gloria che è splendore di amore per i suoi figli. Il vangelo di Matteo non rivela la circostanza della proclamazione di Gesù, ma il passo parallelo di Lc 10,17-22 lo dice chiaramente. Tornano dalla missione di predicazione i 72 discepoli che Gesù aveva inviato davanti a sé, tutti contenti per il successo registrato tanto che Gesù prorompe in un grido di esultanza: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché hai deciso nella tua benevolenza”. È l’esultanza di fronte all’accondiscendenza di benevolenza del Padre per gli uomini, che possono godere del suo amore senza averne alcun titolo. L’uomo può godere del fatto che Dio si approssimi a lui in Gesù e tutto si risolve in una questione di sguardo. L’uomo non deve conquistare Dio, ma aprirsi alla sua rivelazione. Dio è già dalla sua parte. L’unica conquista è quella di acquisire quell’atteggiamento del cuore che consente di ricevere la rivelazione del suo amore. Questo caratterizza i ‘piccoli’, la cui qualità è definita in rapporto ai ‘sapienti e dotti’ che si affannano invece come a cercare le condizioni possibili per una presenza accettabile di Dio. I pensieri degli uomini non corrispondono ai pensieri di Dio e chi preferisce quelli di Dio ai propri appartiene al numero dei ‘piccoli’. La condivisione da parte di Gesù del compiacimento di Dio non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù come del credente deriva da qui.

Gesù traduce poi la sua esultanza nell’invito: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro … [io] sono mite e umile di cuore”. In quel ‘venite’ si sente l’eco dell’invito del Re che dirà a quelli che sono alla sua destra: “Venite, benedetti del padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25,34). Quel ‘venite’ si fonda sulla volontà di benevolenza di Dio: “così hai deciso nella tua benevolenza”, così è piaciuto a lui e quel ‘piacere’ si è riversato totale su Gesù, come ne fa testimonianza la voce che risuona al battesimo nel fiume Giordano e alla trasfigurazione sul monte Tabor. Quel ‘venite’ risuona fin dalla creazione del mondo perché è la potenza d’amore di quella voce che ci ha portati all’esistenza, anche se le fatiche e i guai della vita ci assordano a tal punto da non sentire nemmeno più l’eco di quell’invito. E l’antico “Io sono” della rivelazione di Dio a Mosé davanti al roveto ardente, proferito in assoluto, con Gesù diventa “Io sono mite e umile”. Il nome di Dio è amore di misericordia.

Sono proprio mitezza e umiltà a contraddistinguere Gesù nell’offrire il suo ristoro/riposo a coloro che sono stanchi e oppressi per le prove della vita. Se non esiste via d’uscita alla fatica del vivere, è però possibile aprirsi alla grazia che la feconda. In effetti, se consideriamo il racconto della creazione nel libro della Genesi, scopriamo che Dio: “cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto” (Gn 2,2). L’espressione ‘cessare da ogni lavoro’ corrisponde a ‘riposare’. Ora, ‘riposare’, ‘riposo’, non sono concetti negativi, ma intrinsecamente positivi. Ciò che rende completa la creazione è quel ‘riposo’, sinonimo di pace, armonia, felicità, pienezza, vita eterna. Il termine greco usato nella Bibbia dei LXX per rendere ‘riposo’ è lo stesso che viene usato per le parole di Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita”. Il ‘ristoro’ che dà Gesù è quel ‘riposo’ che caratterizza la completezza della creazione. Ciò significa che Gesù costituisce davvero il compimento della nostra umanità; che in lui la nostra umanità si compie, si realizza e si ‘riposa’ (cfr. Mt 5,5). Non solo, ma che le caratteristiche del cuore di Gesù, mitezza e umiltà, costituiscono le coordinate di ogni possesso in pienezza, la cifra dello splendore dell’amore che ‘soddisfa’ il cuore dell’uomo. La dolcezza e leggerezza della legge evangelica derivano da qui, sebbene all’inizio e ad uno sguardo superficiale la legge evangelica appaia esigente e pesante, come del resto altri passi del vangelo dichiarano senza reticenze.

La colletta riassume in tre caratteristiche l’andar dietro a Gesù: ‘rendici poveri, liberi ed esultanti’. Poveri di tutto ciò che ci allontana dalla rivelazione del volto di misericordia di Dio per noi, liberi da tutto ciò che si oppone a quella rivelazione ed esultanti per tutto ciò che la consente. Ma giustamente ‘a imitazione del Cristo tuo Figlio’ perché, per quanto si sia desiderosi dei segreti di Dio, non si è disposti a riconoscerli dove si trovano, ad accettarli per quello che sono, a goderli per quello che comportano. Stare con il Signore Gesù è il modo migliore per riconoscere le vie di Dio, accogliere i suoi segreti e non illudere il nostro cuore. Per questo, per quanto strana suoni l’espressione, viene aggiunto ‘per portare con lui il giogo soave della croce’. Nulla di più contrastante tra ‘soavità’ e ‘croce’. Ma quel ‘con lui’ cambia tutto.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XV Domenica

(16 luglio 2017)

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Is 55,10-11;  Sal 64;  Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23

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Per tre domeniche successive la Chiesa farà proclamare la lettura del cap. 13 di Matteo, il capitolo delle sette parabole del Regno. Oggi viene proclamata la prima parabola, quella del seminatore, non semplicemente la prima delle sette, ma la parabola che fa da sfondo a tutte le parabole.

Possiamo introdurci al mistero svelato da questa parabola con la prima lettura tratta dal profeta Isaia. La parola è paragonata all’acqua, che sembra scomparire nella terra, in realtà la feconda. Il cap. 55 conclude il libro del secondo Isaia, il libro della consolazione (capp. 40-55). Il contesto riguarda il popolo esiliato a Babilonia che riceve la promessa di liberazione imminente: “Voi dunque partirete con gioia, sarete ricondotti in pace” (Is 55,12). È la fiducia nel perdono rigenerante di Dio, che resta fedele alle sue promesse.

La chiesa accosta questo brano alla parabola evangelica per approfondirne l’intelligenza. È quella parola, che ha l’efficacia dell’acqua che feconda la terra, ad essere seminata nei cuori degli uomini; è la parola che rivela i misteri del Regno in chi l’accoglie. Da notare che la parabola del seminatore è preceduta dalla solenne dichiarazione di Gesù: “Poi tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,48-50). E subito segue la parabola del seminatore. Possiamo comprendere: accogliere la parola significa diventare familiari di Dio, condividere i suoi segreti, diventare eredi del Regno del Padre. Proprio quello che Gesù dirà alla fine di tante parabole: “prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21). Come anche san Paolo sottolinea nella sua lettera ai Romani: “… avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15).

Come riferito dal profeta Isaia: tutto è fondato sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E come la parabola rivela sottolineando l’azione del seminatore che esce: “Quel giorno Gesù uscì di casa … Ecco, il seminatore uscì a seminare”. Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la Sua parola nei cuori, ma seminando Sé, Sua Parola Vivente, nei cuori. Quello che Giovanni riassume in due espressioni paradigmatiche del segreto di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito …” (Gv 3,16) e “Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 12,51-52). Il seminatore esce per svelare il volto del Padre che è misericordia per noi e per riunirci alla mensa del suo amore. Così c’è identità tra il seminatore e il seme, perché Colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. E questo è il significato profondo della parabola. L’eredità del Regno è proprio Lui, quel Figlio dell’uomo che riunisce la famiglia degli uomini nella gioia del Padre che vuole la comunione con i suoi figli.

Siccome si tratta di seminagione, l’elemento tempo è essenziale. Lo ricorda il passo parallelo di Luca: “Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza”. Da intendere: nella pazienza. La perseveranza dice il tempo necessario perché la magnanimità e la tenacia con cui si pazienta sveli il frutto agognato.

La comprensione della parabola comporta però un aspetto angosciante, come intollerabile: “Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”. E qui Gesù cita Is 6,9-10. Quel passo di Isaia, che conferma angosciosamente la possibilità del rifiuto da parte del popolo, come tutta la storia sacra dimostra, è citato da tutti i vangeli e anche dagli Atti degli apostoli. In Giovanni 12,40 il passo si riferisce allo scandalo della passione che impedisce a molti di riconoscere il Messia.

Credo sia da vedere in questa drammaticità della rivelazione la dimensione dell’amore del Padre che si svela nello scandalo della passione di Gesù. Tutto ciò che si riferisce al Regno (il che significa: tutto ciò che ha attinenza con il compimento dei desideri profondi del cuore nella vita) passa per l’accettazione della debolezza di Dio che è più forte della forza degli uomini. Forse non riusciamo più a cogliere il mistero di Bene che il Signore ci squaderna. Possiamo ancora sentire la verità di quel “beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”, eco della preghiera di lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) e della comunanza di vita che Gesù ci offre: “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50)? Con le parabole del Regno Gesù ci invita appunto alla sua comunanza di vita con il Padre, che è amore per noi.

Ogni dono dell’Amato è sempre presenza dell’Amato; dietro ogni Parola annunciata, ascoltata, sta sempre il desiderio di Dio di essere accolto e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità costituisce il quadro di riferimento della parabola del seminatore. Lo proclama anche il passo di Isaia che precede il brano letto oggi: “O voi tutti assetati venite all’acqua…Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò con voi un’alleanza eterna” (Is 55,1.3). In quel contesto prende significato la prodigalità del seminatore (non si stanca mai di seminare, non teme di buttar via il seme, si rivolge a ogni tipo di terreno, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del cuore dell’uomo che da un tipo di terreno può passare a un altro) e la potenza di crescita del seme (che può sempre produrre fino a 100 volte tanto), mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo (“Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).

Quanto ai vari tipi di terreno, che possiamo intendere come le possibili condizioni di una conversione sempre più coinvolgente e radicale, sono presentati come la strada, i sassi, le spine, la terra buona. Dobbiamo operare tre passaggi per arrivare a produrre qualche frutto.

Dobbiamo prima lasciare l’essere come la strada, terreno calpestato, quando diamo diritto d’accesso al cuore a qualsiasi pensiero, senza imparare a distinguere e a lottare per non andar dietro ad ognuno che passa e subire vessazioni di ogni tipo.

Poi dobbiamo lasciare l’essere come i sassi, il terreno con poca terra, quando il cuore teme di soffrire per seguire il Signore, quando non ha fiducia nella sua promessa e cedendo a questa paura non conoscerà mai l’amore e la vita!

Poi dobbiamo lasciare il terreno con le spine, il terreno infestato, quando nel cuore si fa sentire la resistenza al distacco da tutto ciò che momentaneamente ci alletta. Troppi beni finiscono per nascondere il vero Bene; le pretese impediscono al cuore di godere. Lavorando per non compromettere il cuore in cose che ritardano o addirittura soffocano i suoi aneliti più genuini, la terra diventa buona.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XVI Domenica

(23 luglio 2017)

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Sap 12,13.16-19;  Sal 85;  Rm 8,26-27;  Mt 13,24-43

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La parabola della zizzania risponde alla domanda che tutti angoscia: perché il bene è mescolato al male? Gesù, quando racconta le parabole, spesso conclude con l’avvertimento: chi ha orecchi intenda! Ma qui, l’avvertimento non è dato alla fine del racconto della parabola, ma dopo la spiegazione stessa della parabola che avrebbe dovuto chiarirne adeguatamente i significati nascosti. Il passaggio dal nascosto al chiaro è continuo, non è mai dato una volta per tutte e segue l’evoluzione del rapporto di intimità con Gesù, il Figlio di Dio, ‘potenza e sapienza’ di Dio. La spiegazione della parabola in effetti non racconta semplicemente l’evento che succederà alla fine della storia, ma illustra la prospettiva nella quale vivere il presente della storia, segnata dalla presenza dei malvagi e dall’imperversare del male. Come convivere con i malvagi è domanda più pertinente del perché ci sono i malvagi (i servi della parabola chiedono al padrone da dove viene la zizzania). L’unico buon atteggiamento possibile resta quello del padrone: “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”.

In effetti, per noi non è importante sapere quello che avverrà alla fine, ma è importante cogliere cosa sta dietro alla volontà del padrone di lasciar crescere insieme grano e zizzania. Sarà su quella ‘volontà’ che i buoni potranno misurare la loro bontà condividendo la pazienza del padrone verso tutti. Il regno dei cieli, come la parabola illustra, sta esattamente nello splendore di quella pazienza condivisa con Dio. E per mostrare come la pazienza abbia un impatto straordinario nella vita dei cuori Gesù racconta le parabole della senape e del lievito: da una realtà minuscola deriva una potenza straordinaria. Il regno dei cieli è una questione di fede: la fiducia nei sentimenti di Dio! Quando Gesù dice: ‘il regno dei cieli è simile a’, vuole squadernarci l’orizzonte della fede.

La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, ha un modo singolare di presentare la questione che angoscia i giusti: “Perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio lascia spazio al male?”. Dopo aver ricordato che Dio ha compassione di tutti perché tutto può e che chiude gli occhi sui peccati degli uomini aspettando il loro pentimento (Sap 11,23) il testo dichiara: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento”. ‘Tale modo di agire’ fa riferimento all’indulgenza e alla mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe, letteralmente, ‘è necessario che il giusto sia amante degli uomini’ o, ancora meglio, ‘il giusto deve essere ricco di umanità’. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana.

Il salmo responsoriale 85 riprende, a commento del brano della Sapienza, la lode di Dio compassionevole, pieno di amore, fedele e misericordioso, espressioni che sono tratte dalla rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai, dopo il peccato del vitello d’oro, raccontata nel cap. 34 dell’Esodo.  Se il salmo ricorda la misericordia di Dio, lo fa in un contesto preciso, che è il seguente: “O Dio, gli arroganti contro di me sono insorti e una banda di prepotenti insidia la mia vita, non pongono te davanti ai loro occhi” (Sal 85,14). L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della ‘forza’, tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza …’. È esattamente il contesto della parabola della zizzania. Dio non toglie di mezzo i malvagi perché sono oggetto della sua pazienza, perché i giusti possano rivelare ai malvagi la forza di Dio che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere la potenza di amore paziente di Dio.

Il Signore vuol fare degli uomini i figli del Regno, ma insieme, di nascosto, è all’opera anche il Maligno che invece vuole renderli suoi figli. L’esito della contesa tra l’uno e l’altro è scontato: prevarrà il Regno di Dio. Il problema nasce dal fatto che, se il Regno di Dio è reale per noi e dentro di noi, non è ancora però manifesto, per cui l’uomo si sperimenta come un campo di tensioni contrapposte, che la venuta di Gesù rende ancora più evidenti.

All’uomo giusto il malvagio non interessa per il giudizio, ma per la segreta provvidenza che comporta. Là dove il male imperversa si acuisce la sofferenza, ma chi accoglie la sofferenza degli altri permette alla propria umanità di splendere. Solo così il mondo è passibile della rivelazione del Regno e se il malvagio non viene meno è solo perché, nella pazienza di Dio, il bene risplenda nella scoperta di nuove dimensioni di umanità, cosa che fa presagire la presenza accompagnatrice di Dio nel mondo.

Le altre due parabole rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno? La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. La parabola del lievito mostra come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del ‘regno’ non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza e la comprensione delle Scritture, la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi e dice che la potenza del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità delle potenze dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della famiglia umana. È la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo è sempre storia sacra.

Così, davanti al dramma del male che non ci abbandona, resta la fiducia ancora più grande nella potenza di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui. Solo coloro che preferiscono i pensieri di Dio ai propri (“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”, Mt 11, 25) possono confidare sulla forza paziente di Dio, resi partecipi dei segreti di amore per gli uomini nel Signore Gesù. Lo preghiamo con l’orazione sui doni: “.… ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. Come a dire: sono graditi a Dio solo i doni che procedono da quella ‘forte pazienza’ nel rispondere con il bene al male perché a tutti sia reso noto il mistero di amore di Dio per gli uomini.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XVII Domenica

(30 luglio 2017)

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1 Re 3,5.7-12;  Sal 118;  Rm 8,28-30;  Mt 13,44-52

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Nelle parabole sul tesoro nascosto nel campo e sulla perla di gran valore l’accento non è posto sul fatto che l’uomo è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli, ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli riempie il cuore. Il Regno non si contrappone a nulla di per sé. Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente, la perla di ‘grande valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso degli altri beni. Saper cogliere questo è frutto di sapienza e la colletta fa pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo Regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono”.

Credo sia inusuale nelle nostre richieste chiedere la sapienza. Non sappiamo nemmeno bene a cosa allude la sapienza. Veniamo però istruiti dal racconto del libro dei Re dove si narra di Salomone, che è salito al trono come successore di Davide. Dio è disposto a concedergli quello che vuole e lui chiede la sapienza, cioè la capacità di ben guidare il popolo con l’amministrare la giustizia in modo equo. Non chiede né gloria né ricchezza né lunga vita. Salomone è cosciente della scelta di Dio: non è salito al trono per le sue qualità, ma perché Dio lo ha scelto. Quella scelta caratterizzerà tutta la sua vita. Allora lui chiede il dono di svolgere al meglio il suo compito e non sfrutta l’onore della scelta per trarne vantaggi o per la sua grandezza. La sapienza sta appunto nel riconoscere la grandezza del dono e nel vivere la vita in rapporto a quel dono. Chiedere sapienza per il cuore per ben discernere significa predisporsi a vivere la vita per il verso giusto, per il verso santo, nel disegno di vita che Dio ha tessuto per noi. E la sapienza va impetrata dall’alto perché il tesoro e la perla di gran valore sono come nascosti; realmente si possono trovare, ma solo dentro una rivelazione che fa aprire gli occhi. Quello che Paolo ricorda ai Romani: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio” (Rm 8,28). Solo se gli occhi sono aperti sull’amore di Dio si registra che questo è vero.

Il salmo responsoriale commenta la domanda della sapienza con il salmo 118/119, un inno alla sapienza di Dio che si manifesta nei suoi comandamenti. Il versetto 130 recita: “La rivelazione delle tue parole illumina, dona intelligenza ai sapienti”. Quella illuminazione, che è ripresa da Gesù quando chiede ai discepoli: “Avete compreso tutte queste cose?”, concerne l’intima struttura del nostro cuore, modellato, come dice san Paolo, conforme al Figlio dell’uomo: “Poiché quelli che egli ha da sempre conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo…” (Rm 8,29). Domandando la sapienza si domanda di riuscire a cogliere quei desideri del cuore che il Signore ha impastato con la terra quando ci ha creati, prima di soffiarci il suo alito di vita. Sì, perché quei desideri hanno a che fare con l’umanità di quel Figlio inviato a mostrarci la grandezza dell’amore del Padre e a riunirci tutti insieme in un’unica famiglia. La traccia di quei desideri, secondo quella conformità al Figlio, precede il nostro volere, viene prima di ogni nostro merito o demerito, cercato o patito.

Potremmo anche spiegare la nostra condizione umana in questo modo. Conoscere il bene e il male significa conoscere le vie della vita. Ma chi può illudersi di conoscerle? Se l’uomo non si fa piccolo, non si dispone cioè alla confidenza nel suo Dio, come potrà godere dei segreti della vita per cui è fatto? Il dramma dell’uomo sta appunto nel volere la vita senza fidarsi del suo Dio che gliel’ha preparata. Chi non vede in Gesù la promessa di vita che si compie per l’uomo da parte di Dio, non sarà disposto ad accoglierlo e non vedrà il tesoro che costituisce per la sua umanità. L’ha ricordato poco prima Gesù nello spiegare la parabola del seminatore: “Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13,12). Da intendere: all’uomo che ha fede in lui, all’uomo che l’accoglie in benevolenza intuendo il segreto che porta da parte di Dio, tutto il desiderio di bene che si trova in lui sarà portato a pienezza. Ma l’uomo che non ha fede in lui, che non lo riconosce come il Testimone dell’amore di Dio, rischia di ripiegarsi su se stesso e di difendere una cattiva immagine di Dio.

Quando si chiede la sapienza dall’alto si attiva il principio del discernimento proprio in vista del tesoro del Regno dei cieli, godibile per il nostro cuore. Non per nulla, s. Antonio il Grande, padre del monachesimo egiziano, diceva che il discernimento è la virtù essenziale, la più fondamentale. E quando Gesù domanda se i discepoli hanno compreso, allude a questa operazione del cuore: avete afferrato che cosa le mie parole abbiano a che fare con la vostra vita? Allora unirete la comprensione all’ubbidienza e all’azione, nella fiducia in me che vi parlo e consegno a voi i miei segreti, che diventeranno i vostri stessi segreti.

Rispetto alla formulazione delle parabole, va detto che il Regno dei cieli non è paragonato a un tesoro o a un mercante. Il paragone si gioca sulla situazione che si è invitati a vivere, come a dire: il Regno dei cieli è simile a ciò che succede quando si scopre un tesoro o quando un mercante trova una perla di grande valore. Il punto nevralgico per la comprensione è dato appunto dalla gioia della scoperta. Tutta l’azione successiva scaturisce dalla gioia prorompente della scoperta. Senza quella gioia non è possibile concepire nessuna azione significativa a livello dell’orientamento della propria vita, sebbene le parabole alludano anche ad altre dinamiche, più nascoste ma non meno vere.

Alla dinamica di ricerca, anzitutto. Non si scopre a caso. Ci deve essere, di fondo, una passione per ciò che è prezioso, una inquietudine che non ti lascia vaneggiare o istupidire. Non sono sufficienti, al cuore dell’uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare il suo desiderio.

Alla dinamica di compravendita. Ciò che è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno, insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si deve disfare di una cosa per comprare l’altra. È inevitabile.

Alla dinamica di rischio. Più grosso è l’affare, più alto il rischio. E quando il tesoro o la perla trovata sono incomparabilmente più preziosi di tutto quello che ci si sarebbe potuti immaginare di trovare, allora ci si disfa di tutto. Il tutto di cui ci si disfa è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia, percepita così profonda e piena da cacciare ogni timore.

Un’ultima annotazione. La scena delle parabole è presentata come avvenisse in un momento determinato. Invece interessa tutto il corso della vita. Sempre troviamo averi che occorrerà vendere per godere appieno del nostro tesoro dove far riposare il cuore in tutta pace. E sarà sempre la stessa dinamica in gioco: una nuova gioia ci farà accettare il rischio, fino a che tutto di noi risplenderà della luce di quel tesoro e via via scopriamo come il cuore si possa costantemente rinnovare e aprire alla rivelazione del suo Signore, mai sazio di Lui come mai sazio di vita e di amore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Solennità e feste

Trasfigurazione del Signore

(6 agosto 2017)

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Dn 7,9-10.13-14;  Sal 96;  2 Pt 1,16-19;  Mt 17,1-9

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Possiamo avvicinarci all’evento della trasfigurazione da due punti di vista, che corrispondono a due domande. La prima: come è stata vista la trasfigurazione di Gesù sul Tabor in rapporto alle Scritture? La seconda: qual è l’importanza dell’evento all’interno della narrazione evangelica di Matteo?

Agli antichi lettori del vangelo non poteva sfuggire la densità simbolica dell’evento, raccontato sulla falsariga della grande rivelazione di Dio a Mosé sul Sinai. Il Tabor rispecchia il Sinai. Il punto cruciale della narrazione non consiste nella visione, ma nell’ascolto della voce, proprio come al Sinai. Non solo, ma la voce, una replica a quella già udita al battesimo di Gesù nel Giordano, proclama la compiacenza su Gesù come facendo una sintesi di tutte le Scritture. La dichiarazione: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” unisce la profezia messianica di Sal 2,7, il riferimento a Isacco, il figlio amato, di Gn 22,2, la proclamazione del Servo di Is 42,1 e la profezia di Mosé che annuncia la venuta di un nuovo profeta che dovrà essere ascoltato di Dt 18,15. Se guardiamo all’evento con gli occhi dei discepoli vediamo che in Gesù si riassumono e si compiono tutte le Scritture, il che significa che la volontà di salvezza di Dio per il suo popolo si esprime compiutamente oramai in Gesù.

Nel contesto della narrazione evangelica l’evento della trasfigurazione si presenta come la firma all’intero vangelo, che si concluderà con la confessione di fede del centurione sotto la croce e con la glorificazione di Gesù, il Crocifisso. Quel Gesù, di cui è detto alla fine dell’evento della trasfigurazione: “Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo”, è proprio il Figlio di Dio che annuncia agli uomini la volontà del Padre e l’evangelo del Regno. Non è un caso che la trasfigurazione è collocata tra due annunci della passione, a sottolineare che il Figlio di Dio risorto e il Figlio dell’uomo che soffre devono stare insieme nella fede dei discepoli. La consegna del silenzio riguarda proprio la natura della gloria di Gesù. Non si tratta di parlare di Gesù in termini di divinità gloriosa e potente, ma in termini pasquali: colui che ha sofferto la passione è colui che viene esaltato con la risurrezione. E questo non poteva essere colto che alla conclusione della storia di Gesù. La cosa ha un risvolto potente, che non è mai assimilato una volta per tutte dai credenti. La profezia di Daniele sul figlio dell’uomo: “Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14) risponde all’essenza di quel silenzio perché l’unico potere di vittoria che Gesù si arroga è quello dell’amore crocifisso. Tanto da far dire al papa Leone Magno: “è più importante pregare per la pazienza che per la gloria”.

In effetti ciò che è decisivo per i discepoli non accade sul monte, ma dopo, quando si ritrovano davanti Gesù solo, senza gloria e senza la compagnia celeste di Mosé ed Elia e devono ridiscendere per annunciare a tutti la verità di Gesù. Mi ricorda la rivelazione di Dio ad Elia che si sente come rimproverare del fatto di attardarsi sul monte e viene invitato a scendere per compiere la sua missione, obbedendo alla voce del suo Dio. Matteo, a differenza di Marco e Luca che senza mezzi termini riferiscono della sua ‘incoscienza’, non infierisce su Pietro che si perde come in un vaneggiamento: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne …”. Origene ha un commento meraviglioso. Come pretende di tenere separati Gesù dalla Legge e dai Profeti? Proprio in quell’occasione Mosé ed Elia vengono illuminati da Gesù sul significato della loro opera e sul segreto di Dio che la loro opera voleva manifestare. Tanto che quando Gesù resta solo, viene come sottolineato che oramai tutto prende luce solo in Gesù. E se Pietro si perde in vaneggiamenti, non fa che riesprimere quello che gli era stato difficile comprendere una settimana prima a Cesarea, quando non riusciva ad accogliere il destino di passione di Gesù.

Nel cammino degli apostoli l’evento della trasfigurazione, riservato ai tre discepoli che presenzieranno al dramma del Getsemani, ha un valore di conferma nella loro fede in Gesù, fede che sarà duramente messa alla prova nel tempo della passione. Non che l’evento risparmi agli apostoli la prova, ma farà in modo che i loro cuori, quando saranno smarriti e confusi, non si separeranno dal loro maestro, anche se momentaneamente lo abbandoneranno. È anche lo scopo segreto della preghiera. Non si tratta di godere di una visione, ma di essere confermati nel cuore per poter sostenere la prova e seguire il Signore fino a gustarne la compagnia nelle afflizioni sopportate per amore di lui. Quella ‘sopportazione’ non riguarda la propria fedeltà, ma la solidarietà con i nostri fratelli fino a far splendere davanti a loro la bontà del Signore che non vuole che nessuno si perda, ma che tutti abbiano la vita. Lì conduce la visione della ‘gloria’ di Gesù, il Testimone per eccellenza dell’amore del Padre per gli uomini.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XIX Domenica

(13 agosto 2017)

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1Re 19,9a.11-13a;  Sal 84;  Rm 9,1-5;  Mt 14,22-33

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Potremmo interpretare sinteticamente i brani proposti oggi dalla liturgia, per l’esperienza di fede dei discepoli, in questo modo: la protezione di Dio non elimina le tempeste, ma è nelle tempeste che la si sperimenta! La sperimenta chi corre il rischio dell’obbedienza e rinuncia alle proprie sicurezze. Probabilmente, l’evangelista Matteo vuole sottolineare una caratteristica fondamentale dell’esistenza cristiana: la fede dei discepoli è sempre ‘poca fede’, cioè una miscela di coraggio e paura, di ascolto del Signore e angoscia per il vento contrario, di fiducia e di dubbio. Tra l’altro, è singolare che la scena di Pietro che vuole camminare sulle acque e che poi grida al Signore di salvarlo sia descritta con le espressioni del salmo 68/69, che è il salmo della passione.

Fin dall’antifona di ingresso la liturgia esprime la supplica del credente tormentato dalle afflizioni e dalle prove: “Sii fedele, Signore, alla tua alleanza, non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri” (Sal 73/74,20.19). La prima lettura presenta forse il compimento più alto dell’esperienza di un credente: l’incontro ravvicinato con Dio. Il racconto si premura di precisare due situazioni, una esteriore e una interiore. Il profeta Elia è sfuggito per un soffio alle grinfie della regina Gezabele che lo vuole morto. È impaurito e depresso, non regge più. Riceve però misteriosamente il cibo che gli consente di attraversare il deserto e arrivare al Sinai, al luogo fondativo dell’alleanza di Dio con il popolo di Israele. Il popolo ora ha abbandonato l’alleanza e il profeta si sente l’unico combattente in grado di restare fedele all’alleanza e farla durare nel tempo. Il profeta è invitato a uscire, sul monte, alla presenza di Dio, che passa nella voce di un silenzio sottile, come si dovrebbe rendere letteralmente l’espressione tradotta come ‘il sussurro di una brezza leggera’. Stranamente però il racconto non indugia sulla sublimità di quell’esperienza, ma insiste come sul rimprovero di Dio al profeta: “Che cosa fai qui, Elia?”, svelandogli l’inconsistenza del suo pensiero interiore. No, lui non è l’unico testimone dell’alleanza. Il Signore si è riservato i suoi testimoni senza l’aiuto del profeta. E viene rimandato al popolo: sarà questa obbedienza a sottolineare la verità della ‘visione’.

Medesima situazione nel brano evangelico. Gesù ha appena sfamato la folla e, almeno secondo il racconto parallelo di Giovanni, temendo che la gente venisse per farlo re e intuendo il pericolo dell’esaltazione messianica prima del tempo, costringe i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva. Lui si ritira solo a pregare sul monte e vi resta fino a notte inoltrata. Nel vangelo di Matteo è molto rara l’indicazione che Gesù si ritiri a pregare e qui dunque è sottolineata l’estrema importanza della situazione. Così, quando torna dai discepoli camminando sulle acque, vedendoli alle prese con un forte vento contrario che impediva loro di arrivare alla meta, il racconto allude a una rivelazione speciale. La descrizione dell’episodio ricalca le apparizioni del Risorto quando Gesù si rivolge ai discepoli impauriti: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Per un ascoltatore antico del vangelo l’espressione ‘sono io’ faceva risuonare nelle orecchie la voce di Dio al roveto ardente che parla a Mosè svelandogli il suo nome: Io-sono!

Ma la rivelazione speciale non consiste nella sottolineatura della divinità di Gesù, come poi i discepoli confessano: “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”. La sottolineatura sta nel modo di rapportarsi di Gesù a Pietro e di Pietro a Gesù. Quando Pietro, focoso come sempre, vuole ricevere da Gesù il comando di camminare anche lui sulle acque, Gesù glielo permette ma nell’eseguire il comando Pietro si impaurisce per il vento e affonda. Allora grida: “Signore, salvami!”. E subito Gesù stende la mano, lo afferra e lo riporta sulla barca. Quando sono tutti sulla barca, il vento cessa e la barca torna a navigare sicura e veloce. La rivelazione speciale sta nel presentare la divinità di Gesù nella sua premura di salvatore, nel salvare dall’abisso il suo discepolo e nell’accompagnare i suoi nella traversata. Questi è il Figlio di Dio e contemporaneamente il Figlio dell’uomo, che si premura di condurre i suoi alla conoscenza del Dio vero rendendoli servi per tutti di quell’amore di cui hanno fatto esperienza. L’esperienza è vivissima, ma mai compiuta, tanto che alla prossima tempesta si rinnoveranno la paura e il dubbio, ma per sperimentare sempre più profondamente l’intervento salvatore del proprio Signore, conosciuto sempre più intimamente.

Un antico inno, tramandato nelle Odi di Salomone, un’opera cristiana di stampo gnostico della fine del primo secolo, commenta così l’episodio della camminata sulle acque: “Rivestite dunque il nome dell’Altissimo e conoscetelo; voi passerete senza pericolo, mentre i fiumi saranno a voi ubbidienti. Il Signore con la sua parola ha gettato un ponte su essi; camminò e li attraversò a piedi. Le sue impronte rimanevano nell’acqua e non si guastarono; eran come legno, fissato per bene. Di qua e di là si alzavano le onde, le orme però di Cristo, Signor nostro, rimanevan e non erano cancellate né guastate. Un sentiero fu posto per chi dietro a lui attraversa, per chi col passo della sua fede conviene e il suo nome adora” (Ode 39).

La denominazione del ‘Dio che passa’, come Gesù fa mostra di assumere, rivela il fatto che Dio può essere conosciuto solo stando dietro, solo seguendolo, solo camminando dietro a Lui, solo osservando la sua parola. Ed è quello che fa la Chiesa nel mondo: seguire Cristo, che rivela al mondo lo splendore dell’amore di Dio. E sarà solo seguendo Gesù che l’amore agli uomini comporterà lo splendore della presenza di Dio in questo mondo.

Noi tutti siamo invitati a identificarci con Pietro, con le sue generosità e debolezze. Ci si può appoggiare sul Cristo più e meglio che su qualsiasi realtà fluida di questo mondo. È nella fiducia di quel ‘se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque’ che si intraprende il cammino spirituale di una vita. Ma c’è da vincere la paura che agita, paralizza, chiude, affonda. E allora non si parla più semplicemente, come se si trattasse di una provocazione, di una sfida, di una competizione; si comincia a gridare: è il tono della preghiera quando è sincera. Non c’è più ombra di sfida, di pretesa, di vanità. È il momento della verità ed invece di affondare, sentiamo una mano tesa che ci sottrae ai gorghi. Quante stupide pretese ci condannano a restare nei gorghi! Ed è allora che capiremo qualcosa di più di quel Signore che abbiamo accolto venirci incontro e sentiremo il suo nome che si rivela al nostro cuore come si è rivelato a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro: “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà …” (Es 34,6).

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Solennità e feste

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2017)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1 Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte”. Cosa proclamiamo nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. È tradizione comune però pensare alla sua morte in questi termini: “Se l’ineffabile suo frutto, per il quale essa è divenuta cielo, ha volontariamente accettato la tomba come un mortale, potrà forse ricusarla colei che senza nozze lo ha generato?”. E ancora: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora” (dalla liturgia bizantina).

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo fa coincidere il regno di Cristo con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, siccome tutto questo processo è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell’assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia visibile da tutti! E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione irresistibile. Guardando alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, i fedeli non possono non considerarla, come canta il prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza”, e ripetere con il poeta: “Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).

In lei possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi, possiamo pregarla come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Se però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l’uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa maternità spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata: ‘si compia il tuo amore  finché la terra diventi tutta cielo’; nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio. Per questo la chiesa prega oggi la Vergine gloriosa dicendo con l’orazione alle offerte: “… per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo amore, aspirino continuamente a te”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XX Domenica

(20 agosto 2017)

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Is 56, 1.6-7;  Sal 66;  Rm 11, 13-15.29-32;  Mt 15, 21-28

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Il tema della liturgia di oggi è l’ingresso dei pagani nell’alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza operata dal Signore. Come l’annuncia il profeta Isaia: “[…] il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”. Con il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani e eunuchi (categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le nazioni’.

A dire il vero, siamo abituati a considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione personale. Il che significa: se io ho accolto l’alleanza del Signore, non tutto di me l’ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato evangelizzato e poco a poco l’insieme di me deve poter godere dei beni di questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui attraverso il pentimento. Se un pensiero buono mi svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al Signore, e così un mio peccato, una mia debolezza. “Tutti i confini della terra” del salmo 66 alludono proprio alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.

Il brano del vangelo lo mostra splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell’Alleanza non con la predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L’ora però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di Israele. Ma allora perché Gesù cede all’insistenza della donna, come se lui fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con la richiesta del centurione (cfr. Mt 8) che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una inopportunità che tende a suonare ai nostri occhi, oltre che sgradevole, dura e irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non si fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo cuore a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della salvezza che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto messianico il pane sarà così in sovrabbondanza che lei si può accontentare delle briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli.

La particolarità dell’atteggiamento della cananea sta in quel grido ‘Signore figlio di Davide’ dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei, pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani erano chiamati ‘cani’ dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo era priva di qualsiasi pretesa.

La fede della cananea proveniva poi dall’urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l’amore per sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel ‘profeta’ di cui sentiva dire cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare soddisfazione?

L’aspetto misterioso che va colto è il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l’una è custode dell’altra, l’una dice la sincerità dell’altra. Davanti al Signore il nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della propria indegnità e l’urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L’insincerità del nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l’annacqua, è la pretesa di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell’israelita ‘fariseo’ che crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà nulla e il miracolo non avverrà.

Ci si avvicina a Dio più si ha coscienza di essere peccatori e meno scusanti si adducono ai propri guai. Quando finiremo di giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore. Secondo l’invocazione dell’antica colletta: “O Dio, che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio”. La chiesa insegna a pregare di insistere presso il Signore di provare nel cuore la dolcezza del suo amore perché sa che non è agevole credere che i beni del Signore, non solo rispondono ai nostri desideri, ma li precedono e li sopravanzano!

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXI Domenica

(27 agosto 2017)

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Is 22,19-23;  Sal 137;  Rm 11,33-36;  Mt 16,13-20

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Possiamo accostarci al brano evangelico di oggi con l’affermazione di Paolo ai Romani: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33). Non però perché sono incomprensibili o oscuri, ma perché rispondono alla grandezza di un amore così impensabile che il cuore dell’uomo stenta a riconoscere. Nel brano di oggi risuona l’eco della lode di Gesù al Padre: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). In primo piano non sta l’opera dell’uomo, ma l’azione di Dio che si manifesta nel suo amore per l’uomo. Gesù testimonia proprio questa azione della manifestazione di Dio agli uomini. Solo coloro che non alzano barriere di pretese o rivendicazioni, solo i piccoli, coloro che sono disposti ad accogliere con fiducia e stupore, solo questi possono partecipare alla gioia di quella manifestazione.

Nel colloquio a Cesarea con i discepoli, quando chiede loro che cosa pensa la gente di lui e che cosa loro pensino di lui, Gesù usa per l’ultima volta il titolo di ‘figlio dell’uomo’. Pubblicamente non lo userà più, fino a riprenderlo davanti al Sommo Sacerdote in occasione del suo processo davanti al Sinedrio (cfr. Mt 26,64), a significare il contenuto messianico di quel titolo. Ma nessuno è ancora pronto a cogliere il contenuto di rivelazione di quel titolo e per evitare malintesi Gesù non lo usa più.

Matteo colloca l’episodio a Cesarea di Filippo, città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona rocciosa, alle pendici del monte Hermon; Marco nel viaggio di Gesù a Gerusalemme, Luca è il solo ad annotare: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui…”. Come a sottolineare: è da dentro la preghiera che scaturiscono domanda e risposta, perché le domande e le risposte vere non sono curiosità intellettuali ma riguardano la verità di cui ha bisogno il cuore per vivere e solo nella preghiera il cuore può lambire quella verità. Per Gesù, le domande nascono dalla volontà di fedeltà al Padre e nascono nella preghiera perché qui si esprime tutto il contenuto di intimità che quella volontà di fedeltà comporta. Così è per i discepoli, con la differenza che per loro, che non conoscono ancora quella intimità con il Padre, c’è bisogno prima di vedere come prega Gesù, di restare affascinati dalla intensità della sua preghiera, per desiderare a loro volta la stessa cosa. E anche per loro, la risposta scaturisce da quel contesto di preghiera partecipato: tu sei “il Cristo di Dio”, come a dire: tu sei Colui che viene da Dio, che ci sveli il volto di Dio, tu sei il Messia. Ma Gesù sa fin troppo bene che dietro allo slancio del cuore, non c’è ancora tutta la loro mente, non ci sono ancora tutte le loro energie interiori perché i misteri di Dio hanno bisogno di tempo per conquistare l’uomo, che non si rassegna mai a perdere le sue ‘idee’ di Dio.

 Quando i discepoli rispondono a nome della gente alludono alla grande attesa che abita i cuori: verrà il messia e ci libererà. Non era importante definire la persona del messia, era sufficiente che fosse definito il ruolo del messia. La gente si ferma qui. Ma a Gesù preme altro e insiste con i discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?”. La risposta di Pietro, portavoce dei suoi compagni, fa un passo avanti rispetto alla gente; cerca di cogliere la persona del messia senza fermarsi semplicemente al ruolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nella sua professione di fede c’è la confessione di Gesù come l’Eletto, l’Unico, il Figlio Unico, l’Unigenito, nella sua unicità di relazione con Dio; ma anche nella sua unicità di relazione con gli uomini, per i quali è l’Inviato, il Figlio prediletto che rivela l’amore del Padre, l’Unico che può rivelare il vero volto di Dio. Tutto questo esprime la sua confessione di fede ed è per questo che Gesù lo proclama beato in quanto quella percezione non può derivare dalla carne e dal sangue, dalla sua esperienza umana, ma deriva dall’iniziativa stessa di Dio che al suo cuore si è mostrato.

Gesù fa una promessa a Pietro: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Pietro è la traduzione greca del nome aramaico Kepha (roccia). Nell’ambiente di allora non veniva usato come nome proprio di persona. L’attribuzione a Simone, figlio di Giovanni, del nome ‘Kepha’, ‘Roccia’, Pietro, indica il fondamento sul quale si regge la fede: la persona del Figlio del Dio vivente, sul quale l’apostolo e tutti i discepoli con lui possono giocare la loro vita, perché Dio non viene meno alla sua alleanza con gli uomini e perché Gesù costituisce il sigillo ultimativo e definitivo della volontà di salvezza di Dio per l’uomo. Dio in effetti è la Roccia, colui che non viene mai meno, che non manca di adempiere le sue promesse, che è sufficientemente potente per adempierle; se l’uomo lo accoglie, lo riconosce, ne avverte il Bene e gli fa spazio, partecipa anche lui di quella ‘saldezza di fondamento’ e può gustarne la dolcezza incorruttibile.

Il potere delle chiavi, nel giudaismo, si riferisce all’esercizio di un’autorità fondata sull’interpretazione della Legge. Qui invece si riferisce al potere della confessione di fede nel Signore Gesù che apre al perdono dei peccati e dà l’accesso al regno di Dio. Con la conseguenza che la disposizione di legare/sciogliere riguarda il movimento profondo del cuore davanti al prossimo. Come a dire: se sciolgo il fratello dal suo peccato verso di me, anche il mio peccato sarà sciolto davanti a Dio. Se lego il peccato del mio prossimo, anche il mio resterà legato davanti a Dio. È il mistero della dinamica del perdono, forse la dimensione evangelica più marcata nell’insegnamento di Gesù.

È però anche il mistero della ‘conversione’ che ci ottiene la riconciliazione con Dio, nel Signore Gesù, garantita dalla Chiesa. Come se la Chiesa ci ripetesse sempre: il regno dei cieli è davanti a voi; Colui che Dio ha designato per mostrarvelo, per aprirvelo, per introdurvici, è qui davanti a voi. Lo potete toccare, è finalmente alla vostra portata. Niente e nessuno può rapirci al Signore: questo significa che le porte degli inferi non prevarranno contro la chiesa. Se siamo suoi, di lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte. Quella promessa è da raccordare con l’altra, alla fine del vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il vangelo di Matteo (Mt 28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa che non mancheranno mai uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi quella Presenza.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXII Domenica

(3 settembre 2017)

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Ger 20, 7-9;  Sal 62;  Rm 12,1-2;  Mt 16,21-27

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Il brano di vangelo di oggi, unito a quello della domenica precedente, costituisce un punto nevralgico della narrazione evangelica. Gesù svela il suo mistero e insieme quello dei discepoli. È assolutamente significativo che l’annuncio della passione avvenga dopo la proclamazione della beatitudine a Pietro: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”, eco dell’altra: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). In effetti, quando Gesù si rivela come il Messia che dovrà molto soffrire, indica la direzione nella quale poter vivere quella beatitudine. Ed è per questo che Gesù subito dopo parla ai discepoli che lo vogliono seguire di ‘rinnegamento di sé’ e di ‘portare la croce’. Ma cosa intende in pratica?

Guardiamo a Pietro. È proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “… vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (Es 33,23)]. Eco anche della disponibilità del popolo a seguire Dio prima che a capirlo: “Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7).

Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, confessato come il Messia, avesse dovuto patire e morire ignominiosamente, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore, tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana, come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia ad ogni prospettiva mondana corrisponde al fatto di seguire il Signore o, nel linguaggio dell’AT, al fatto di servirlo. La sottolineatura di senso è la seguente: imparare a custodire il cuore nella sua promessa e a godere della sua rivelazione perché la vita torni bella e desiderabile sempre.

Quando Gesù spiega ai discepoli il suo dover soffrire, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo; intende collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’ indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.

Il rinnegamento di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale ‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). La difesa porta sempre sulla vita che temiamo venga oppressa o mortificata; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio.

L’anelito del salmo lo esprime a meraviglia: ‘il tuo amore vale più della vita’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. È quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che rende capaci di lasciare se stessi per avere la vita.

Nella reazione di Pietro vediamo la nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo “tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne” (Sal 62). Ma è vero anche che, nel concreto delle situazioni, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio, finiamo sempre per riscegliere noi stessi misconoscendo il Signore. Con accenti drammatici, lo esperimenta anche il profeta Geremia: “Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre”, ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome”. A differenza però del profeta Geremia il quale continua dicendo: “Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”, noi fin troppo bene riusciamo a contenere quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di ‘godere’ la vita e impedendolo in qualche modo anche agli altri.

In questa prospettiva, la frase finale del brano (“e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni”) acquista una valenza insospettata. La fede entra in gioco là dove la carne e il sangue non possono comprendere. Marco Asceta commenta: “Quando si ascolta la Scrittura dire di ‘rendere a ciascuno secondo le sue opere’, non si riferisce alle opere meritevoli della geenna o del paradiso, ma alle opere rispetto alla mancanza di fede o alla fede in Lui. Cristo renderà a ciascuno non come esecutore di un contratto che riguarda gli atti, ma come Dio creatore e redentore delle nostre persone”. Vale a dire: saremo giudicati in rapporto alla fiducia che avremo dato all’amore del Signore. A ciò allude l’invito a prendere la croce e seguire Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

(10 settembre 2017)

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Ez 33,7-9;  Sal 94;  Rm 13,8-10;  Mt 18,15-20

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La liturgia celebra oggi la chiesa come mistero di riconciliazione. L’annuncio gioioso, misterioso, significativo per il mondo non è che questo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, testimone dell’amore che ridà dignità e fa vivere il cuore dell’uomo!

Una delle espressioni più belle che definiscono la comunità dei credenti la ravviso nell’ultima strofa dell’inno delle Lodi del Comune degli Apostoli, inno che così canta: “L’annuncio che udiste nell’ombra gridatelo alto nel sole: è questa l’estrema consegna del Dio crocifisso e risorto. E voi dite, ridite sui tetti la voce che parla nel cuore: apostoli siate alle genti di Cristo, salvezza e vittoria. Il nuovo messaggio di vita vi ha spinti ai confini del mondo, su lunghi sentieri di croce, araldi del giorno che viene. Su voi, resi saldi in eterno, s’edifica e innalza la Chiesa che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”. La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela la verità di questa espressione: “che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”? Chi ci avvicina, chi vive con noi, sente anzitutto questo? Perché questo è il segno dell’apertura di credito al vangelo nella nostra vita.

A livello della nostra storia quotidiana, la pace significa essenzialmente riconciliazione: riconciliazione con Dio, con noi stessi, con il mondo, con gli uomini. Quando s. Paolo afferma che noi siamo collaboratori di Dio, intende proprio che siamo collaboratori all’opera della riconciliazione in atto nella storia.

Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le ferite che vengono assunte e curate. Tutto il capitolo 18 del vangelo di Matteo, il capitolo della fraternità, lo mostra. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori.

Il brano evangelico di oggi segue la domanda degli apostoli: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1) con la risposta di Gesù a farsi (letteralmente: umiliarsi) piccoli. Come dicesse: non sapete nemmeno se potete entrare e vi sognate di essere grandi? La domanda vera suona: come si fa a entrare? Stando piccoli, cioè godendo della benevolenza di Dio e fidandosi dei suoi segreti. Sarebbe il senso della parabola del pastore che va in cerca della pecorella smarrita. Da dentro l’esperienza vissuta di quella premura amorosa le parole di Gesù diventano fonte di beatitudine e di moralità per i discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …”. È l’invito al perdono vicendevole, a vivere da riconciliati, a gustare il segreto di Dio che in questo comandamento si nasconde. Tanto che il progresso nella fede è concepito come un crescere nella condizione di vivere il perdono come segno di quella vita immortale condivisa con il Cristo.

Così, al di là del suo valore ecclesiale e sacramentale, l’espressione ‘Quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo’ assume il senso: se tu leghi, sarai legato; se tu sciogli, sarai sciolto. Proprio come preghiamo nel Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere che ci ha accordato. Perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo un’ingiustizia? Anche Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il male di nessuno.

E l’altra espressione ‘dove sono due o tre riuniti nel mio nome’ non allude principalmente alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l’evento della riconciliazione parla direttamente al mondo della presenza di Dio. La pace tra fratelli, data e accolta, costituisce l’unica condizione di sincerità della preghiera e quindi del suo esaudimento.

Il canto al vangelo lo proclama solenne: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature.

Noi tutti siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa ‘opera’. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio.

Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione.

È la parola come forza d’attrazione, come rivelazione del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il mistero della carità condiviso.

Paolo lo vive come l’unico debito di cui i fratelli portano credito sempre nei nostri confronti. Assolto ogni altro dovere di lealtà, di onestà, di onore, verso tutti, nella società e nella chiesa, per i discepoli di Gesù rimane insolvibile sempre questo: la carità. Ma questo debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che vuole gli uomini suoi figli alla tavola della vita. Se Paolo dice: “pienezza della Legge infatti è la carità”, non allude alla punta di una virtù umana, costituita dall’osservanza della legge, ma all’ispirazione divina, alla potenza divina che opera in noi nell’obbedienza alla legge allargando i confini della nostra umanità sulla misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo dice appunto: ‘chi ama l’altro’, dove altro sta per straniero e non semplicemente ‘chi ama il prossimo’ entro l’appartenenza ad uno stesso popolo.

Non che la cosa sia così naturale per gli uomini. Lo dice il profeta Ezechiele riportando la critica del popolo al suo Dio: “Non è retta la via del Signore”. L’uomo non è garantito dal bene che ha compiuto come non è condannato dal male che ha fatto. Quello che lo salva è la conversione al suo Dio: “convertitevi e vivrete”. Al centro c’è sempre il mistero dell’amore perdonante di Dio, che ridà gioia e dignità alla creatura liberandola dalle sue rivendicazioni. La carità parla di quella gioia e di quella dignità custodita per sé come per tutti.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

(17 settembre 2017)

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Sir 27,30-28,9;  Sal 102;  Rm 14,7-9;  Mt 18,21-35

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L’immagine di fondo che emerge è la stessa delle domeniche precedenti: la chiesa come comunità di riconciliati, di uomini e donne che hanno fatto esperienza della grande misericordia di Dio e che non possono non condividerla tra di loro. L’accento del brano di oggi però non verte su una norma di comportamento all’interno della comunità, come nel caso della correzione fraterna che era stato proclamato domenica scorsa. Qui viene mostrata la ragione di fondo, il mistero su cui può far leva l’invito al perdono. Pietro, oltrepassando le tre volte di perdonare al fratello che la legge rabbinica ingiungeva al credente, avanza il numero di sette volte, già abbondantemente oltre le norme consuete. Ma Gesù, facendo riferimento alla selvaggia decisione di Lamec che rivelava come la violenza dilagava nell’umanità (“Lamec disse alle mogli: «Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette»”, Gn 4,23-24), gli risponde: settanta volte sette, cioè infinite volte, sempre, senza se e senza ma.

Questo mistero è richiamato dalla bellissima preghiera dopo la comunione, la quale ci introduce nella dinamica divina che attraversa il cuore dei credenti: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito”. E qual è l’azione dello Spirito nella storia? La riconciliazione del mondo in Cristo. Quel mistero è l’unico argomento di interesse per il cuore, se vuol vivere in pace. Lo ricorda anche il libro del Siracide: “Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui” (il testo non allude tanto al dimenticare, ma al sorvolare, al passar sopra, al non tener conto. Non allude tanto all’odiare, ma al serbare memoria dell’offesa, al rancore, all’arrabbiarsi per l’offesa ricevuta). In gioco è proprio l’esperienza dell’alleanza dell’Altissimo, che in Gesù mostra tutto il suo splendore.

Gesù racconta la parabola del debitore spietato in risposta alla domanda stupita di Pietro sulla nostra capacità reale di offrire il perdono ai fratelli. Il passo parallelo di Luca rivela il sottofondo che fa da contesto: “Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe” (Lc 17,5-6). Il perdono è questione di fede, non di generosità. Il perdono è in funzione dell’esperienza di Dio, non della nostra generosità. Il perdono parla di Dio, non di noi.

Il primo servo della parabola, quello che deve al padrone diecimila talenti, allude a ciascuno di noi in rapporto a Dio. Diecimila talenti sono una cifra spropositata, a sottolineare l’assoluta impossibilità della restituzione. Davanti a Dio ognuno si trova in questa condizione, sebbene non sia così evidente la cosa per la nostra coscienza. È così forte la paura di Dio che, pur avendo coscienza dei propri peccati, si confida più nella propria giustizia che nel perdono umilmente chiesto e ricevuto e quindi non si è disposti a perdonare al proprio fratello, dal quale si esige la giustizia a tutti i costi. Non ci si rende conto che l’operazione è impossibile e che risponde solo alle proprie paure nascoste e quindi alla grettezza del proprio cuore.

Il secondo servo, quello che deve al suo compagno cento denari (nel confronto tra i diecimila talenti e i cento denari si è calcolato che la differenza è di uno a seicentomila! Cento denari corrisponde alla paga di tre mesi di un salariato), indica ciascuno di noi in rapporto agli altri. In gioco non è la disistima della giustizia, ma la grettezza di cuore, la giustizia perpetrata in nome di sentimenti ignobili. Di più ancora, in gioco non è semplicemente una questione tra compagni, ma la stessa dignità della conoscenza di Dio. Il primo servo è cattivo nei confronti del compagno perché non solo non ricorda quello che lui per primo ha ricevuto, ma soprattutto perché ferisce i sentimenti del padrone ed agisce infischiandosi di lui, rinnegando i legami che ha con lui. Se i doni di Dio non sono percepiti dentro l’offerta di una storia di alleanza, di comunione e di vita per noi, dimentichiamo Dio e ci chiudiamo nei doni ricevuti rivendicandoli come di diritto. Ciò ci impedisce di vivere l’alleanza con i nostri fratelli e facciamo pagare a loro le conseguenze di quello spirito di rivendicazione che ci attanaglia.

Ecco perché il sottofondo di comprensione della parabola è la fede. L’esempio del granellino di senapa non vuol suggerire che basta avere una fede tanto piccola quanto un granellino, ma che la fede racchiude la stessa potenza di crescita di un granellino. La fede non è che la coscienza dell’alleanza con Dio che ci viene rivelata proprio nel perdono del nostro peccato e nella capacità a vivere in comunione con Lui ed il miracolo che si impone al nostro cuore è proprio quello di vivere il perdono al fratello come un segno di quella vita divina di cui siamo diventati partecipi. Il tutto è descritto dall’invocazione del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, in modo così vero che, una volta capaci di risplendere della luce del perdono perfetto, senza più accusare nessuno, non si subisce più la tentazione e non si è più preda del male, come la successione delle invocazioni della preghiera suggeriscono: ‘non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male’. Come sottolinea la preghiera sulle offerte: “Accogli con bontà, o Signore, i doni e le preghiere del tuo popolo e ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. L’offerta a Dio sarà accolta a patto che si risolva in splendore di fraternità, di cui il perdono vicendevole è il segno più eloquente.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXV Domenica

(24 settembre 2017)

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Is 55,6-9;  Sal 144;  Fil 1,20c-27a;  Mt 20,1-16a

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L’antifona di ingresso canta: “Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque prova mi invocheranno, li esaudirò, e sarò il loro Signore per sempre”. Evidentemente una dichiarazione del genere non ci convince troppo se, di fronte agli eventi che caratterizzano la nostra storia esteriore e interiore e che sono retti dalla Provvidenza di Dio, abbiamo spesso da ridire. Cosa impedisce ai nostri cuori di fidarci di Dio? Perché guardiamo a Gesù con il filtro della nostra idea preconcetta di Dio senza accogliere la rivelazione di Dio che da lui proviene? Cosa andiamo cercando da Dio, dalla vita?

La domanda di fondo la presenta il profeta Isaia: perché i pensieri di Dio non corrispondono ai nostri? Perché i nostri pensieri sono sempre così diversi e distanti da quelli di Dio? “Cercate il Signore …l’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore ...”. Ecco, noi non cerchiamo il Signore, ma piuttosto i suoi doni; non ritorniamo a lui, ma semplicemente domandiamo per noi. Non ci interessa molto il suo desiderio di stare con noi, non ci tocca la sua voglia di attirarci a lui. E non percependo questo, siamo troppo intenti a guardarci l’un l’altro, a vivere di confronti, a temere di avere di meno.

Ora questo atteggiamento verso i nostri fratelli rivela la povertà del nostro legame con lui, l’insensibilità del nostro cuore al suo desiderio. E come allora non cadere nella ‘gelosia’, proprio secondo il rimprovero del padrone della parabola agli operai della prima ora: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?“. Perché vorremmo limitare la misericordia e la benevolenza di Dio se non perché in realtà non l’abbiamo mai sperimentata, non ce ne siamo mai lasciati toccare? Ritorna alla mente il lamento del fratello maggiore della parabola del figlio prodigo: ma come? Io ti ho sempre servito e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici? (cfr. Lc 15,11-32). Che tipo di intimità aveva con il proprio padre un figlio siffatto? Eppure la sua è la nostra condizione, spesso. Rivelatrice di essa è l’incapacità per il nostro cuore di condividere la gioia, la gioia dei fratelli che possono avere quanto e più di noi, ma soprattutto la gioia del Padre che può dare a tanti quello che di per sé sarebbe riservato a pochi. Noi sicuramente non siamo nel numero di quei pochi e chi, come l’apostolo Paolo, si trova tra quei pochi, lo si riconosce dal fatto che gode più per la partecipazione del bene a tutti che non a se stesso. Non per nulla ritiene la sua vita di nessun conto, e la concepisce solo ‘per il progresso e la gioia della fede’ (Fil 1,25) di tutti. Non semplicemente per il progresso e la gioia dei fratelli, ma per il progresso e la gioia che i fratelli potranno godere nella loro relazione di intimità con il Padre che è venuto in loro soccorso, che ha inviato loro il suo Salvatore, che hanno conosciuto la misericordia del Signore. L’occhio allora non potrà più essere geloso o invidioso ed il cuore non avrà più pensieri propri, ma solo quelli di Dio e potrà godere con Dio del fatto che la Sua bontà è celebrata sopra ogni giustizia.

Un antico testo giudaico può riassumere bene la parabola di Gesù. Dio mostrò a rabbi Jose ben Halafta i tesori delle ricompense per i giusti custoditi in cielo. Ma lì c’era anche un grande tesoro per i ‘nullatenenti’ e Dio lo spiegò così: “A chi possiede, io do attingendo alla sua ricompensa; ma a chi non possiede, do gratuitamente attingendo a questo tesoro”. Nella vita di Gesù si rivela la bontà di Dio: nel nome di Dio Gesù rivolge la sua attenzione amorevole ai peccatori che non osservano la torà, alle donne e ai poveri, che per varie ragioni non possono osservarla totalmente, ai malati, che vengono esclusi dalla comunità del popolo e all’incolto, che non conosce bene la torà. La parabola parla dell’esperienza della bontà divina che gli uomini fanno con Gesù.

La parabola non intende sostituire il consueto sistema di valori, quello della giustizia che assegna a ciascuno ciò che ha meritato, con un altro sistema di valori, quello della bontà comunque immeritata. Vuole disturbare il nostro sistema di valori con la manifestazione dell’amore di Dio, che scardina i nostri pensieri, li rivela a partire dall’esperienza della sua bontà. In effetti, la parabola suggerisce un altro atteggiamento verso il prossimo, quello della solidarietà con coloro che sono più sfortunati, verso i quali Dio è sollecito, come Gesù mostra nel suo agire.

La parabola di Gesù è costruita proprio per sorprendere gli operai della prima ora nei loro pensieri segreti. Se il fattore avesse cominciato a pagare gli operai dai primi, non sarebbero stati svelati quei pensieri. Ma la parabola insiste proprio sui primi; il che significa che in quei ‘primi’ siamo compresi tutti noi, per un verso o per l’altro. Dal punto di vista ecclesiale, si può interpretare la parabola come un avvertimento agli israeliti (gli operai della prima ora) rispetto ai pagani (gli operai dell’ultima ora), ai giudeo-cristiani rispetto agli ellenisti, ai pastori rispetto ai fedeli, ecc. La parabola però ha un’estensione molto più larga e allude agli atteggiamenti dei cuori nei confronti di Dio. Tutti vengono pagati nella stessa misura: è proprio questo che urta la nostra sensibilità. Notiamo subito che il padrone della parabola non manca di giustizia perché ai primi dà esattamente quello che avevano pattuito. Semplicemente, non si attiene solo a quella giustizia e dà anche agli altri la stessa paga. Dove sta allora la malizia dei pensieri dei primi? Tutto dipende da come leggiamo l’agire di Dio nei nostri confronti. Le vite degli uomini sono effettivamente diseguali, la sua provvidenza è misteriosa, la conoscenza di lui è misteriosa, le nostre sorti sono diverse, le gioie e le sofferenze sono amministrate nella nostra vita in modo così diverso gli uni dagli altri! Perché tutto questo? Porci questa domanda significa rapportarci agli altri e non a Dio. Non è certamente una domanda maliziosa, ma rivela la difficoltà di cogliere la bontà di Dio e per ciò stesso rivela la natura del nostro rapportarci a Dio in rivendicazione. La rivendicazione esprime gelosia, come dice il padrone della parabola ai primi operai. Il segno della purità di cuore è proprio la mancanza di gelosia, vale a dire la gioia della felicità altrui. La punta segreta di questa gioia sta nella confidenza nel proprio Dio di cui si spera il godimento della promessa fatta a noi. Così, nonostante le diseguaglianze delle nostre vite, nulla ci manca se Dio è con noi.

Potremmo anche domandarci: quando i primi restano i primi? Pensiamo agli apostoli. Sono tra i primi e primi sono restati. Essere primi significa rallegrarsi del fatto che gli ultimi sono preferiti, godere con Dio della sua misericordia per gli ultimi. Anche perché l’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici, senza distinzione.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

(1 ottobre 2017)

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Ez 18,25-28;  Sal 24;  Fil 2,1-11;  Mt 21,28-32

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La parabola che viene proclamata oggi va ascoltata insieme alle altre due, quella dei fittavoli malvagi e quella del banchetto nuziale per il figlio del re, che saranno proclamate nelle prossime due domeniche. Dopo l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme si consuma il rifiuto dei capi della nazione. Gesù aveva scacciato venditori e cambiavalute dal tempio e soprattutto aveva guarito ciechi e zoppi, persone che, secondo l’indicazione del re Davide (cfr. 2Sam 5,8), non potevano accedere al tempio. Come a dire: qui c’è uno più grande di Davide, cosa che i capi intendono bene. Non solo, ma Gesù, dopo aver ammaestrato il popolo nelle sinagoghe delle varie città e villaggi, ora insegna nel tempio, senza alcun ‘permesso’ ufficiale. È chiaro che dimostra una ‘autorità’ assolutamente insolita. Per questo i capi gli si fanno intorno e gli domandano con che autorità si permette di agire in quel modo. Nella perfetta logica rabbinica, condiziona la sua risposta a una domanda che porge loro a proposito di Giovanni Battista: “Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?” (Mt 21,25). Rispondono di non sapere, ma non perché non sanno, soltanto non si vogliono esporre. Proprio l’atteggiamento che Gesù bolla con la sua parabola dei due figli, come a continuare la discussione con loro in vista di un possibile, anche se prevedibilmente impossibile, ravvedimento.

Di per sé la questione è molto semplice: conta di più dire o fare? Tutti sanno che non basta dire a parole, ma occorre convalidare con i fatti. Già in precedenza Gesù aveva detto: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Nella parabola però viene sottolineata un’altra cosa, perché la parabola è direttamente applicata a coloro che nel battesimo di Giovanni avevano visto qualcosa di straordinario e non se ne sono curati: “Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. La cosa straordinaria che avevano visto era la conversione di pubblicani e prostitute in seguito alla predicazione del Battista, cosa che avrebbe dovuto far riflettere e indurre il loro cuore al pentimento per disporsi a cambiare vita. Invece non se ne sono curati; invece hanno continuato a stare alla finestra, non hanno cambiato parere, non sono stati toccati nell’intimo e quindi sono rimasti nell’idea di sempre, chiusi nei loro giudizi. Questo Gesù rimprovera e questo riguarda anche noi.

La liturgia oggi si premura di creare le condizioni perché noi non si stia alla finestra, perché non restiamo chiusi nelle nostre rivendicazioni fasulle e nelle nostre vane attese nei confronti di Dio e della vita. Con la proclamazione del profeta Ezechiele veniamo tolti dall’illusione che ci sia un qualche destino precostituito, che suona come una giustificazione previa dei nostri comportamenti: “Io non godo della morte di chi muore. Oracolo del Signore Dio. Convertitevi e vivrete” (Ez 18,32). Vivrete: non semplicemente non morirete, ma otterrete una qualità di vita abbondante, una pienezza, una fioritura di umanità, se seguirete le vie di Dio, cosa affatto scontata per il cuore dell’uomo. Tanto che il salmo responsoriale fa supplicare: “Fammi conoscere le tue vie” (Sal 24/25,4). Non si conoscono facilmente, è facile illudersi, è facile voler tirare Dio nella nostra testa piuttosto che aprire la nostra testa a Dio! Il salmo allora ci istruisce: “Chi è l’uomo che teme il Signore? Gli indicherà la via che deve scegliere” (v.12). E più avanti: “Il segreto del Signore è per quanti lo temono e la sua alleanza per farla loro conoscere” (v.14, testo ebraico).

S. Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, ci fa fissare lo sguardo su colui che mostra le vie di Dio dicendo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso …” (Fil 2,5-7). E giustifica il riferimento a Gesù in rapporto alla vita fraterna dove si giocano le relazioni e quindi la propria umanità: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4). Forse che i capi della nazione che affrontano Gesù hanno mai avuto pensieri del genere in cuor loro? E se non hanno questi pensieri, si può dire che temono il Signore? E se non temono il Signore, come possono conoscere i suoi segreti?

Ecco perché risulta così essenziale l’avvertimento di Gesù: ‘non vi siete nemmeno pentiti’. Cosa significa pentirsi? Il verbo usato, lo stesso che ricorre nell’episodio di Giuda che riporta ai sacerdoti le monete del tradimento, significa ‘ricredersi’, ‘rivedere le cose sotto altra prospettiva’, ‘cambiare giudizio’; si riferisce non tanto alle azioni, ma al senso di quello che sta avvenendo tanto da vedere la vita sotto altra angolatura. Pentirsi significa aprire il cuore al momento di Dio. Per gli ascoltatori di Gesù, pentirsi significava riconoscere che in Giovanni Battista Dio voleva parlare al suo popolo, riconoscere che Giovanni aveva indicato colui che veniva da Dio per riscattare l’uomo dal peccato e portargli la sua salvezza, riconoscere che in lui veniva manifestata la venuta del Regno di Dio.

Dal punto di vista di Dio non ha alcuna importanza che l’uomo riconosca questo partendo da una sua presunta giustizia o da una sua situazione di peccato: l’unica cosa importante è quel riconoscimento, perché da lì scaturiscono i beni di Dio per l’uomo. E la giustizia dell’uomo per Dio non può provenire che da quel pentimento che induce l’uomo ad accogliere prima di tutto la volontà di Dio su di lui, volontà che esprime il desiderio di Dio di stare con gli uomini, indipendentemente da come o dove si trovano. Tutto ciò che si pone al di fuori o contro o a lato di questo pentimento significa dare più importanza all’uomo che a Dio e in definitiva corrisponde a costruirsi un’immagine di Dio che non è veritiera. E se ci si fida di un’immagine di Dio non veritiera si finisce per costruire anche un’umanità che non ha consistenza di verità e perciò fasulla, quando non distorta.

Avviene per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di servo’, lo può fare perché gode di un amore. Quello ‘svuotamento’ è la condizione perché l’amore si compia e trascini tutti nello stesso movimento. Ci si può svuotare dei propri peccati come delle proprie sicurezze; ciò che conta è svuotarsi perché quell’amore torni a splendere, perché Dio possa essere adorato come il Salvatore, ricco di misericordia per tutti. Quello che i capi del popolo e i farisei, interlocutori di Gesù, non avevano potuto capire. E lo svuotarsi attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto e che Dio vive in se stesso.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

(8 ottobre 2017)

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Is 5,1-7;  Sal 79;  Fil 4,6-9;  Mt 21,33-43

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La parabola di oggi, da leggere insieme a quella di domenica scorsa e di domenica prossima, ha un sapore profetico preciso: allude alla imminente passione di Gesù che incontra l’ostilità ormai dichiarata dei capi religiosi. Il contesto narrativo è altamente drammatico, come la conclusione, tirata dagli stessi ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e assassinio, allorquando si condanna con le sue stesse parole rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2 Sam 12,1-13). L’intensità emotiva dello scontro però non deriva dall’ira, ma da una passione d’amore.

Se leggiamo il testo di Matteo insieme al corrispondente di Luca 20,9-19 possiamo cogliere tutta l’intensità di quella passione d’amore. Nel testo di Luca, i contadini percuotono, insultano, feriscono i servi (= i profeti) mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che, dopo averlo cacciato fuori della vigna, lo uccidono. Il figlio è presentato come l’amato. Come non cogliere il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio amato, come viene testimoniato dalla voce del Padre al battesimo e alla trasfigurazione?

Se la liturgia di oggi fa proclamare nel canto d’ingresso: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, parole pronunciate dalla regina Ester nel momento più drammatico della sua vita (cfr Est 13,9), lo fa riferendosi alla fedeltà di Dio nel suo amore per il popolo, amore che viene descritto dal passo del profeta Isaia della prima lettura. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature coniugali ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.

Non per nulla, il canto al vangelo introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). In quel scegliere occorre ravvisare tutta la passione d’amore di Dio per l’uomo. Dio sceglie (= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella vigna, offre la stessa paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per raccogliere il frutto, che è la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane nel senso che quella conoscenza è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà con tutti, finché tutti possano riconoscere e vivere dell’amore di Dio per l’uomo.

Così, quando Gesù, applicandosi il Sal 118,22 (“La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo”), esprime il suo giudizio: “Perciò vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, non intende certo escludere gli israeliti dal suo regno (che passione d’amore sarebbe per il suo popolo!) e darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili, ma intende far prevalere la logica della rivelazione di tutte le Scritture: l’elezione è in vista del portare la conoscenza di Dio nel mondo perché tutti godano dello stesso amore. Gesù è colui che questa elezione vive nella sua carne al massimo grado possibile e perciò costituisce, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo, colui che ne mostra lo splendore di amore che l’ha originata e di cui ne sostiene la dinamica.

Dinamica che Paolo, scrivendo ai Filippesi, dichiara rivelarsi nel fatto di essere lieti nel Signore, lui che ci ha manifestato così grande amore. Letizia, che si trasforma in amabilità nei rapporti con tutti e nel fatto di non angustiarsi per nulla, poiché, come dice Pietro nella sua lettera: “… riversando su di lui tutte le vostre preoccupazioni, poiché gli state a cuore” (1Pt 5,7).  Per questo l’apostolo invita a elevare preghiere, suppliche e ringraziamenti, interessandosi di ogni cosa buona per esprimere nella vita quello splendore che ha illuminato il cuore. Nel suo testo però Paolo dice una cosa misteriosa, non immediatamente accessibile alla nostra psicologia interiore. Invita a stare nella supplica della preghiera con rendimento di grazie. Se non si fa riferimento alla rivelazione di Gesù come pietra d’angolo, non solo in rapporto a ebrei e gentili, ma rispetto a tutte le tensioni che accompagnano la nostra vita e che in lui trovano modo di saldarsi in ricchezza di umanità, come poter rendere grazie nella supplica originata dalla ferita della prova? A questo si ricollega anche la parola di Gesù: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,25).

Nella parabola poi si leggono tra le righe aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei contadini alla vista del figlio mandato dal padrone (‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’) ne è un esempio. Se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare al Figlio non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo, senza poter mai aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei contadini, la nostra malvagità di uomini peccatori!

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

(15 ottobre 2017)

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Is 25,6-10a;  Sal 22;  Fil 4,12-14.19-20;  Mt 22,1-14

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Ascoltando la parabola di oggi insieme alle altre due delle domeniche precedenti, ci accorgiamo che Gesù, nel contrasto che si sta consumando tra lui e i capi del popolo, nel suo tentativo di svegliare le coscienze, aggiunge due particolari nuovi. Se prima aveva parlato del padrone di una vigna e dell’invio del figlio che sarà ucciso, ora parla del padrone che ha preparato le nozze per il figlio e degli invitati che non ne vogliono sapere di intervenire. L’accento ora è solo sugli invitati. È a loro che dobbiamo guardare per cogliere il senso della parabola. I primi invitati rifiutano. Il padrone manda i suoi servi a raccogliere sulle strade quanta più gente possono perché la sala del banchetto sia piena. Ecco il primo particolare nuovo: “andate ora ai crocicchi delle strade”. Non si tratta dei crocicchi all’interno della città, ma dei punti di confluenza delle strade fuori della città. Il significato evidente risulta: non solo gli israeliti sono invitati, ma tutti i popoli.

Il passo del profeta Isaia della prima lettura lo proclama apertamente: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli …”. Si tratta del sontuoso banchetto che inaugura il Regno messianico. Il profeta descrive il lauto banchetto imbandito sul monte Sion per tutte le genti. Nella visione del profeta tre sono gli aspetti che caratterizzeranno la gioia della vita: la conoscenza del Signore invaderà i cuori (‘il velo strappato), la morte non avrà più potere, ognuno godrà personalmente (‘lacrime asciugate). Allora si dirà: “Ecco il nostro Dio”, sottolineando nostro come espressione di una esperienza goduta. Allorquando le nozze del Figlio saranno celebrate, guardando a Colui che è stato trafitto, allora si potrà dire: “Ecco il nostro Dio”, ecco dove l’amore ha condotto il nostro Dio, ecco l’amore che fa vivere il nostro cuore. La visione di quell’amore non vale semplicemente per me, ma per me se vale contemporaneamente per tutti. Così, non si tratta di credere semplicemente al Figlio di Dio, ma di vedere il suo amore per noi che diventa in noi radice di vita per tutti. Così custodiamo per tutti l’invito alla tavola del re.

Come il profeta, così il salmo responsoriale. L’immagine del pastore che ci procura ristoro allude alla rivelazione di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,29-30). L’invito alle nozze corrisponde al ‘venite’ di Gesù e per noi si traduce nell’andarci in compagnia di tutti i nostri fratelli, senza distinzione, perché il suo desiderio di comunione con noi si compia nel suo splendore.

C’è però anche un secondo particolare nuovo nella parabola di Gesù. Alla fine il re entra nella sala e scorge uno che non ha la veste nuziale. I primi invitati non erano degni, ma nemmeno è scontato che tutti gli altri invitati possano entrare comunque alla festa nuziale. La parabola cioè allude sia al possibile rifiuto in Israele come al possibile rifiuto nella Chiesa: gli invitati rinunciano e non partecipano alla festa; anche il commensale, che non porta la veste nuziale, verrà estromesso dalla sala di nozze. Sono chiamati tutti, buoni e cattivi; non c’è alcuna distinzione rispetto all’invito. Anzi, come prega la colletta: “O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio …”, la dignità dell’uomo si misura sul fatto di non impedire a nessuno l’accesso all’invito: siamo chiamati tutti alla stessa tavola del re. Quando però disprezziamo il nostro fratello, quando portiamo rancore, quando creiamo distanza con i nostri fratelli, è come se impedissimo a qualcuno di ricevere l’invito del re ad andare alla stessa tavola della vita. Disprezziamo la volontà del padrone e noi non possiamo più goderla. E questo avviene perché qualche ragione ‘nobile’ ci ha impedito di accogliere l’invito del re, perché non abbiamo conosciuto la premura dell’amore di Dio per noi.

Le nozze dell’Agnello (“sono giunte le nozze dell’Agnello”, Ap 19,7) sono l’immolazione del Figlio nella sua dimensione di compimento e vivibilità della comunione tra Dio e gli uomini dentro lo splendore di un amore goduto. Perché il re proclama che gli invitati non erano degni? Non ci sono condizioni previe da osservare; c’è semplicemente il fatto di non aver accolto l’invito. L’indegnità corrisponde dunque al rifiuto dell’invito del proprio Signore. L’uomo non è mai indegno rispetto all’amore del Signore perché è il Signore che prende l’iniziativa di rivolgergli il suo amore, senza condizioni. Ma l’uomo può sempre opporre le sue ragioni, può ripararsi dietro la nobiltà ostentata delle sue ragioni e non aderire.

Se ancora ci perseguita l’idea di indegnità rispetto alla chiamata all’amore, allora valgono le parole del canto di ingresso: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). Il perdono di Dio corrisponde all’invito alla sua stessa tavola in compagnia di tutti. Così sono custodite la preziosità dell’invito e l’umiltà per l’invitato. Come suggeriva il versetto dell’alleluia tratto dalla lettera agli Efesini, il cui passo completo suona: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi …” (Ef 1,17-18). Possa davvero il nostro cuore aprirsi al dono di speranza e di gloria che il Signore ha preparato per noi!

Alle nozze del Figlio fa riscontro la nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del nostro cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In questo contesto suona strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’. Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la veste appropriata! Solo per ricordare che la fiducia nell’amore di Dio non deve giocare come un pretesto, ma come un’attrazione.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

(22 ottobre 2017)

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Is 45,1.4-6;  Sal 95;  1 Ts 1,1-5b;  Mt 22,15-21

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La vita di Gesù volge al termine e il confronto-scontro con i farisei si fa implacabile. Cercano di incastrarlo con un pretesto politico per consegnarlo all’occupante romano e farlo fuori. Dal loro punto di vista, la strategia è vincente, perché al processo contro Gesù sarà proprio un’accusa di tipo politico a farlo condannare. La questione, scottante allora, era il tributo che ogni cittadino ebreo doveva pagare all’occupante romano. Non era una questione di esosità di tasse, ma di umiliazione di un popolo. Gli zeloti, l’ala intransigente dei farisei,  proibiva ai suoi simpatizzanti di versare il tributo e saranno proprio loro la miccia dell’insurrezione di Gerusalemme nell’anno 67 che causerà, tre anni dopo, la distruzione della città ad opera dei Romani.

Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).

Come al solito, Gesù evita il tranello ma non evita la domanda e la sua risposta lascia pieni di ammirazione i suoi stessi avversari: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Gesù non ha furbescamente evitato il tranello: se rispondeva sì, si sarebbe attirato l’antipatia del popolo; se rispondeva no, si sarebbe messo contro l’autorità. Gesù, pur conoscendo la malizia della domanda, risponde in verità.

Il senso della sua risposta è illuminato dal canto al vangelo, tratto da un passo della lettera ai Filippesi 2,15-16: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. I credenti in Cristo devono al mondo la luminosità dell’annuncio evangelico, segnale di quella vita eterna che Gesù ci partecipa con il suo amore perché conquisti tutti. Come dicesse: la vita che vivete nel mondo tenetela aperta alla gloria di Dio, le vostre azioni devono restare aperte all’Eterno se non volete restare oppressi e opprimere. Del resto, è caratteristico che nella tradizione ebraica il salmo 95, cantato dopo la lettura di Isaia che presenta un re pagano, Ciro, come il servo di Dio mandato a consolare il suo popolo liberandolo dalla schiavitù di Babilonia, sia tra i salmi recitati in famiglia per il ricevimento dello shabbat. Il ‘sabato’ ci si espone alla luce del Regno perché si possa percepire la presenza del Signore in mezzo al suo popolo, cessando ogni altra attività. Il ‘riposo’ del sabato allude alla luminosità del Regno che attraversa la vita sebbene le preoccupazioni mondane ce ne impediscono la percezione. L’invito a lodare il Signore nella storia quotidiana è l’invito a vedere la luce del Regno. Come se il cuore, nella preghiera, invocasse la fatica che prolunghi nel quotidiano la luce dello shabbat.

L’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere l’eterno nel temporale. Diversamente, la storia soffoca o temerariamente esalta, ma non si apre alla salvezza. Gesù dirà invece dei farisei: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).

L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della presa di posizione da parte di Gesù è dato dal fatto che lui è proclamato come non soggetto a nessuno e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli nell’ultima cena), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e di cui mette anche noi in condizione di essere in comunione. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.

Rispetto al “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” possiamo allora notare tre cose.

La prima: Gesù riconosce la legittimità dell’autorità dello Stato, ma svincola il potere da una legittimità autoreferenziale. Nell’antichità lo Stato si presentava come fonte dei diritti e dei doveri in assoluto, compresa la sfera religiosa. Gesù spezza l’alleanza tra religione e Stato, che il paganesimo e l’impero esigevano.

La seconda: non separa semplicemente Dio e lo Stato, ma riorienta il temporale, la politica, alla dimensione spirituale che è costituita dal bene delle persone; non solo, ma riaggancia la politica all’eterno nel senso che nella storia è in gioco il compimento del piano divino di salvezza per l’uomo. Come dice Giovanni Crisostomo: “Il precetto di dare a Cesare quello che è di Cesare va inteso come riferito a quanto non si oppone al servizio di Dio. Diversamente, non sarebbe più un tributo pagato a Cesare, ma al demonio” (Omelia 70,2 su Matteo).

La terza: il principio di fondo è la sovranità di Dio, il suo Regno donato agli uomini che trascende ogni regno terreno. L’uomo è sopra il cittadino, il prossimo sopra il connazionale, la coscienza sopra la norma, la persona sopra la collettività. ‘Io sono il Signore e non c’è alcun altro’ non significa semplicemente che c’è un solo Dio, ma che tutto ciò che esiste, a Lui si riconduce; tutto ciò che è veritiero, di Lui solo parla; tutto ciò che ambisce ad essere e a permanere, in Lui deve essere fondato; tutto ciò che di vero, di bello, di buono, desideriamo non può avere compimento se non in Lui. Essere discepoli di Cristo significa prima di tutto vedere la vita dal punto di vista di Dio: la possibilità di partecipare al dono del suo Regno nella responsabilità della storia.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXX Domenica

(29 ottobre 2017)

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Es 22,20-26;  Sal 17;  1 Ts 1,5c-10;  Mt 22,34-40

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Il canto al vangelo (Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”) è la finestra di luce che fa intravedere la portata della risposta di Gesù al dottore della legge.

Sebbene fosse usuale tra gli scribi del tempo la domanda circa la determinazione del comandamento più grande tra i tanti precetti, negativi e positivi, della Legge, mai nessuno prima di Gesù e neanche dopo, ha mai collegato insieme i due passi scritturistici che Gesù cita esplicitamente: Dt 6,4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” e Lv 19,18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (cfr. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). Gesù li cita stabilendoli come il primo e il secondo comandamento, capaci di riassumere e di fondare tutti gli altri. Ma in cosa risiede la novità della risposta di Gesù? La prima novità sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando che il secondo è simile al primo ed estendendone la portata a tutti gli uomini, al di là dell’appartenenza al popolo d’Israele. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture con il porre i Profeti sullo stesso piano della Legge, con l’allusione all’unità delle Scritture che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

La prima lettura, tratta dalla sezione dell’Esodo che riporta il codice dell’alleanza (Es 20,22-23,19), sottolinea la concretezza dell’amore del prossimo (allora inteso per il correligionario e non per l’uomo in generale), secondo la visione che il libro dei Proverbi testimonierà: “Chi opprime il povero [debole], offende il suo creatore [colui che l’ha fatto], chi ha pietà del misero lo onora” (Pr 14,31). Nel linguaggio dell’alleanza, il significato di amare/amore non riguarda la dimensione emotiva dei sentimenti, ma la volontà e la pratica del bene, come del resto anche Gesù riprenderà.

D’altro canto, la luce, che il canto al vangelo getta sulla risposta di Gesù, fa intravedere una dimensione ancora più potente nella novità portata da Gesù. Il comandamento allude alla possibile rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché?

La frase di Gv 14,23 è la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Come suggerisce l’antica colletta della messa di oggi: “Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi”. Quando il ‘comandamento grande’ è l’unica parola che il cuore trattiene, quando tutto viene vissuto in rapporto a quello e tutto a quello riconduce, allora avviene secondo la promessa di Gesù: se mi ami, metti in pratica la mia parola e il tuo cuore conoscerà il segreto che a lui è riservato, cioè vivrai della comunione con il tuo Dio e saprai quanto è grande il suo amore per tutti, amore che costituisce il senso di tutti i comandamenti. La pratica dei comandamenti è l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno ci può sottrarre questo amore. È evidente che questo solo in Gesù si compie assolutamente, ma la sua promessa è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui.

Potremmo riassumere il senso dei due comandamenti, ama Dio e ama il prossimo, in questo modo: il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità. Il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per lui. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. Lo scopo della pratica dei comandamenti non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.

In questa prospettiva risulta illuminante proprio la lettura del brano dell’Esodo perché, delle norme del Codice dell’alleanza, viene accentuata la pratica del bene rispetto alla cura dei deboli. La vedova, l’orfano e il forestiero sono le categorie di persone essenzialmente ‘deboli’ perché senza protezione. Proclamare allora nel salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza” significa alludere alla forza tipica di Dio che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’. Chi calpesta il debole calpesta l’amore di Dio che sta con gli ultimi; impedisce a Dio di essere conosciuto in questo mondo. Chi calpesta il debole non conosce Dio.

Il senso delle parole evangeliche di oggi lo spiega stupendamente s. Francesco di Assisi nel suo commento al Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno” (FF 270).

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Solennità e feste

Tutti i Santi

(1° novembre 2017)

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1 Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8), ad attirare gli sguardi degli uomini che possono contemplare la santità di Dio, che è splendore di amore immolato. Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ce ne impediva la visione! Ora tutto è nella luce, tutto splende in verità.

La domanda di fondo che possiamo farci è la seguente: ci sentiamo toccati dalla promessa di felicità di Gesù ai suoi discepoli: “Beati i poveri […] Beati i misericordiosi […] Beati i puri di cuore […]” ? Ci sentiamo destinatari in verità di questa solenne promessa di Gesù? Come cantiamo nel salmo responsoriale, ci possiamo riconoscere nella generazione che cerca il volto del Signore? Sarebbe come domandarci se l’invito alla santità ci riguarda ancora. Vorrebbe dire che ancora crediamo possibile il compimento dei desideri che portiamo in cuore.

La visione celeste dell’Apocalisse presenta la moltitudine dei salvati come in due quadri distinti, che però si fondono insieme. Prima compaiono i segnati con il sigillo del Dio vivente, i 144.000 (il quadrato di 12 – numero delle tribù di Israele -, moltiplicato per 1000 – numero dell’universalità), gruppo che designa i martiri, coloro che hanno pagato il prezzo della fedeltà al Signore Gesù con la vita. Poi si presenta la moltitudine immensa, proveniente da ogni popolo e nazione, così definita: “[…] quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello”. Sono coloro che hanno cercato di vivere la loro vita, nella precarietà degli sforzi e dei risultati, nella prospettiva del vangelo con il loro quotidiano martirio che la coerenza della vita spesso esige. Anche questi hanno riconosciuto il fascino del loro Signore crocifisso e risorto. Nel suo amore salvatore hanno confidato nonostante i tradimenti e gli affievolimenti della fede in lui. Ma tutti e due i gruppi si fondono all’unisono nella comune proclamazione: ora sappiamo che il nostro Dio è pieno di amore per noi. Perché questo significa l’acclamazione: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono e all’Agnello”.

L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di Dio diventa tiranno.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “… fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nel brano dell’Apocalisse, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgersene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

La lettura della prima lettera di Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo, le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXXI Domenica

(5 novembre 2017)

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Ml 1,14-2,2b.8-10; Sal 130; 1 Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12

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Il brano di vangelo di oggi si inserisce nello scontro tra Gesù e i dirigenti della nazione. I farisei e i capi si sono ritirati a complottare, Gesù nemmeno più parla a loro direttamente; si rivolge alle folle, che ancora per un po’ lo seguono e ai discepoli. Le parole di Gesù sono una perorazione per una devozione sincera, per un discepolato autentico.

La forza delle sue parole deriva da un mistero profondo, che appena si intravede, ma comanda tutto il brano: “Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). L’allusione è all’evento che Gesù rappresenta nella storia della salvezza: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, Colui nel quale risplende tutto l’amore e la gloria di Dio. Proprio come dice il profeta: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,34). Sarà in quel Figlio, dato per noi, che i peccati ci sono perdonati ed è per questo che, essendo tutti perdonati allo stesso titolo, siamo tutti figli allo stesso titolo, fratelli allo stesso titolo.

Le parole di Gesù non sono invettive di un riformatore, come leggiamo nel profeta Malachia: “Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione” (Ml 2,2). Il profeta parla ai sacerdoti e ai leviti, ai quali è affidato l’annuncio e la custodia dell’alleanza di Dio per il popolo. Potremmo rendere così il pensiero del profeta: se non fate splendere il suo amore per i suoi figli, liberi da ogni forma di violenza e rivalità, per attirare tutti all’amore del Signore, resterete nei vostri peccati, che vi opprimeranno. Si può, sì, sacrificare a Dio (= offrire una pratica pia) ma guai a presentare un’offerta ingiusta, vale a dire: quando ci si attiene a un atto esteriore, allorché l’offerta non è accompagnata dalla conversione del cuore; quando si offre ciò che si è rapinato; quando si dà ciò che si scarta (cfr. Sir. 35). Con queste disposizioni, come accogliere con simpatia e benevolenza i propri fratelli, figli dello stesso Padre?

L’esempio è dato da san Paolo, il quale svela la condizione per cui l’annuncio del vangelo è fecondo di vita: “Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari” (1Ts 2,8). La domanda di un discepolo di Gesù che voglia annunciare al mondo la grazia del vangelo non può essere che questa: può una persona accogliere da me l’annuncio del vangelo, se non sente che mi è diventata cara? Da notare che la frase in greco è assai più ‘affettuosa’ della traduzione italiana. Parla di un affetto intenso e di una predilezione goduta. Così la condizione è che si annunci la parola per amore verso i quali è destinata, con lo stesso amore con il quale è stata pronunciata. Questo atteggiamento permette di cogliere la parola oltre colui che la dice e diventa invito a ricevere la rivelazione del volto di Dio.

Il salmo responsoriale fa rimarcare da dove scaturisce il fatto di non aver bisogno di cercare gloria presso gli uomini. Come ci si dicesse: non c’è alcun motivo di affidarci all’ingiustizia per esaltarci, affannandoci a cercare grandezza e importanza presso gli uomini, se l’anima può riposarsi come un bambino nel suo Dio, che ha misericordia di noi. Si rinuncia a guardare in modo superbo e concupiscente quando si può stare presso il proprio Dio, come un bambino che ha preso il latte e dorme beato fra le braccia della mamma o come un bambino svezzato che sta appoggiato ai seni della mamma solo per goderne la tenerezza. Così, non attribuirsi gloria né cercarla presso alcuno è la conseguenza dell’incontro con Colui che solo è il Maestro, la Guida all’unico Padre di tutti.

Gesù si presenta al mondo, nella sua unicità per il compito messianico di cui è investito, quale ‘Esegeta’ e ‘Guida’ (il termine greco significa formatore, istruttore, precettore, nel senso di guidare in un cammino di vita) all’intima conoscenza del Padre. Gesù riconosce l’ordine di Dio nel ministero di Mosè, come lo riconosce nel ministero della Chiesa. Ma l’uno e l’altro sono finalizzati alla gloria di Dio, che nulla ha a che spartire con la gloria ricercata presso gli uomini. Lui solo ricerca la gloria di Dio perché fa quel che dice e dice quel che fa, perché conosce quello che fa e fa quello che conosce (cfr. Gv 5,18-23), secondo l’affermazione del prologo di Giovanni; “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18).

Quando Gesù si proclama unico Maestro e Guida è ormai prossimo alla sua passione. In lui si realizzerà quello che prima aveva proclamato: “Venite a me … e io vi darò ristoro” (cfr. Mt 11,28). Sarà riferendosi proprio a questo Maestro, nella stessa dinamica che vive questo Maestro, che i suoi discepoli potranno insegnare o, meglio, annunziare il suo insegnamento. Non ci può essere, per gli uomini, alcun maestro in proprio e se gli uomini accettano un maestro del genere ne patiranno le conseguenze, perché si troveranno impediti nella conoscenza della verità e non potranno più sentirsi tutti fratelli. L’illusione dell’ideologia, che può essere definita una devozione fasulla, nasce proprio dal fatto che per imporsi dovrà dividere gli uomini. Il segno invece della devozione sincera, del collegamento all’unico Maestro di tutti, è dato dal fatto di farmi servo di tutti allo scopo di non dividermi da nessuno. Si innalza chi prende le distanze e Dio prenderà le distanze da lui perché possa imparare a non dividere i suoi figli (cfr. antifona di ingresso: “Non abbandonarmi, Signore, mio Dio, da me non stare lontano; vieni presto in mio aiuto, Signore, mia salvezza”). Ma chi non si divide da nessuno è abitato da Dio, opera con lo Spirito di Dio, risplende della sua gloria tanto che non ha più alcun bisogno di cercarla presso gli uomini. La sua devozione è sincera.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

(12 novembre 2017)

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Sap 6,12-16;  Sal 62;  1 Ts 4,13-18;  Mt 25,1-13

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L’anno liturgico volge al termine e in queste ultime tre domeniche vengono proclamate le tre parabole del cap. 25 di Matteo: la parabola delle dieci vergini, oggi, quelle dei talenti e del giudizio finale nelle prossime domeniche. Tre immagini di Dio: quella dello sposo, del padrone e del giudice, a fronte della vita dell’uomo che si gioca nella profondità dei desideri, nell’esercizio di una responsabilità e nella maturità di un frutto che diventa criterio di discernimento dell’autenticità di una vita ben spesa.

L’atteggiamento di fondo più eloquente per cogliere il senso profondo della parabola delle dieci vergini è descritto dal salmo responsoriale: “Ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne […] il tuo amore vale più della vita”. La vita non è che la tensione al compimento di quello struggente desiderio. Se la parabola invita alla vigilanza è perché l’anima può perdersi dietro illusioni fascinose ma inconsistenti. La Sapienza, nella prima lettura, proclama che facilmente è contemplata da chi l’ama. Il che significa che la sapienza è connaturale al cuore dell’uomo, creato per godere di Dio. E se l’uomo deve constatare che nel concreto non è per nulla facile trovare la sapienza, a dispetto di quanto dice il libro della Sapienza, ciò significa che il desiderio di lei, la vigilanza sul desiderio di lei è venuta meno. Questo la parabola vuole scongiurare.

Il contesto della possibile illusione è dato dal fatto che il Signore tarda, come già aveva mostrato Matteo con la parabola dei servi che aspettano il ritorno del loro padrone (cfr. Mt 24,45-51). Il regno di Dio non è immediato né evidente. Non riusciamo più a cogliere l’immagine straordinaria del padrone che si mette a servire i suoi servi (cfr. Lc 12,37); è la descrizione di Dio a servizio dell’uomo, servizio che in Gesù acquista tutto il suo splendore. La vita nostra non è che attesa del Signore nel senso di poter godere insieme del suo servizio che costantemente invita tutti alla sua tavola. Noi non siamo più capaci di vedere la vita in questo modo e così riusciamo anche a fare il nostro dovere, ma senza aprirci al bene che fa splendere l’amore. La parabola, con l’olio per le lampade, allude proprio a questo: un vivere la comunione con il Signore, che ci ha amati e che continuamente ci cerca, nella condivisione dei sentimenti Suoi verso i suoi figli, in solidarietà con l’umanità di tutti. L’immagine delle nozze ne sottolinea l’intensità e l’intimità. Quello che nel linguaggio quotidiano esprimiamo con: sto proprio bene con te!

Suona strano che nella parabola si parli di nozze senza parlare della sposa, perché sono nozze speciali, le nozze del Figlio dell’Uomo: con Lui l’umanità è ormai unita a Dio. È l’evento più gioioso della storia che sbocca nella condivisione della gioia di Dio stabilmente goduta nel suo regno, segno di quell’amore che ci ha raggiunti e lievitati dal di dentro. Per questo la vita non può essere che un uscire incontro a. Le vergini escono incontro allo sposo, come Abramo esce dalla sua terra, come Israele esce dall’Egitto. È la vocazione della vita da viversi come un continuo uscire da per andare incontro a. Ciò significa che la vita non la si possiede, ma la si riceve, continuamente. Ciò comporta la fatica di separarsi da qualcosa per poter godere l’avventura sacra della vita.

L’immagine dello sposo e delle vergini allude al mistero di intimità tra Dio e l’uomo, unico motivo di storia seria per l’anima alle prese con i suoi desideri. La divisione in due gruppi delle vergini allude alla doppia possibilità concessa all’anima: a tale incontro ci si può predisporre con intelligenza o con stoltezza, in modo conveniente o in modo sbadato. Matteo aveva già parlato di questa doppia possibilità a proposito di chi costruisce la sua casa sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27).

La parabola è raccontata come immagine di ciò che avverrà alla fine ma per mostrare ciò che avviene quotidianamente nella nostra storia terrena in rapporto al desiderio del cuore di godere pienezza perché è nella storia terrena che noi giochiamo il desiderio del cielo. Non per nulla la punta della parabola è proprio la vigilanza, vale a dire quell’attenzione del cuore a far convergere sul vero obiettivo i desideri del cuore perché possano trovare pienezza. L’ammonizione finale invita a stare pronti, da intendersi secondo l’immagine di predisporre le lampade con l’olio, immagine che corrisponde all’altro invito di Gesù a far splendere le nostre opere buone. Non semplicemente però nel fare le opere buone, ma nel far sì che le nostre opere facciano splendere l’amore di Dio per il mondo, che in Gesù, Sposo, si svela in tutta la sua bellezza. L’olio corrisponde a quell’amore fraterno, frutto dell’agire dello Spirito e nello Spirito, che san Paolo descrive nell’inno alla carità in 1Cor 13. Potremmo fregiarci di altre grandezze o altri vanti rispetto agli uomini, ma davanti a Dio non conterebbero nulla e ci farebbero restare con le lampade spente, con il cuore vuoto.

Come molto significativamente spiega Gregorio di Nissa che paragona le vergini stolte alla pratica virtuosa che non porta i frutti dello Spirito enumerati dall’apostolo in Gal 5,22-23:  « […] nelle loro anime non c’era la luce, frutto della virtù, e nel loro pensiero non c’era il lume dello Spirito. Giustamente quindi la Scrittura le ha chiamate stolte: in loro la virtù si era spenta prima ancora che giungesse lo Sposo, e per questo lo Sposo tenne fuori le misere dalla camera nuziale celeste; fece bene a non prendere in considerazione il loro impegno nella verginità, giacché non si faceva sentire in loro l’attività dello Spirito».

In primo piano dunque non è l’impegno di una vita buona, ma il frutto di quell’impegno, che corrisponde ai desideri del cuore, vale a dire la solidarietà con lo Spirito del Signore, la possibilità di intimità con il Signore che per primo ci ha amati e nel cui Volto il cuore desidera fissare gli sguardi. Come dice s. Francesco di Assisi: “Avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. Se l’attesa è questa, tutta la vita sarà giocata nella vigilanza a che nulla e nessuno possa impedire quello sguardo, a che nulla e nessuno possa separarci da quell’amore, nonostante i sonni e gli addormentamenti che inevitabilmente ci sorprenderanno.

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(19 novembre 2017)

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Pr 31,10-13.19-20.30-31;  Sal 127;  1Ts 5,1-6;  Mt 25,14-30

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La parabola di oggi è incastonata tra la parabola delle dieci vergini, che invita a stare vigilanti e la parabola del giudizio finale, che rivela su cosa saremo giudicati nel nostro fare, cioè sull’amore. La parabola dei talenti invita invece alla fedeltà nell’operare. Il padrone distribuisce i suoi beni per mettere gli uomini nella opportunità di giocare la loro vita, concepita nei termini di un esercizio di responsabilità. La domanda di accesso al mistero della parabola può essere la seguente: cosa è in gioco nella nostra operosità? In che cosa siamo servi? Servi per che cosa?

Anzitutto rendiamoci conto di che operosità si tratta. L’uomo che parte per un viaggio rappresenta Gesù stesso, che con la sua morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli affidando loro i misteri del Regno. Il padrone è lo stesso personaggio del buon Samaritano che accudisce l’uomo colpito dai briganti, è il Maestro che serve, è il padrone che vuole far entrare a tutti i costi quanti più può nella sala del banchetto nuziale, ecc. Il Signore Gesù non solo lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto, nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’ amore, nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita. L’operosità dei servi è direttamente proporzionale alla fiducia che questi pongono nel loro padrone.

La somma data è assai cospicua. Anche per questo sembra strano che il padrone, alla resa dei conti, dichiari che questa cifra enorme è poca cosa! I talenti si riferirebbero cioè alla fede in Gesù con tutto quello che comporta quanto al partecipare ai segreti di Dio, come dirà Gesù nell’ultima cena ai suoi discepoli: “Non vi chiamo più servi … vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

Quello che fa problema è la spiegazione del terzo servo, che aveva ricevuto un talento e che dichiara la sua paura per averlo nascosto sottoterra. Dice il vero rispetto al padrone? La parabola sembra confermarlo. In realtà, però, le sue parole tradiscono l’indisponibilità verso il padrone. Il padrone lo chiama ‘servo malvagio e pusillanime (che per paura non si decide, non: ‘pigro’)’, mentre i primi due servi sono chiamati ‘servo buono e fedele’. Il terzo servo non crede alla potenza del vangelo, prende le distanze dalla fede in Gesù, sebbene l’abbia conosciuto e si impedisce di accoglierne la fecondità nella sua vita. Si richiude in se stesso, per paura che troppo gli venga richiesto e così manifesta la sua sfiducia. È l’opposto di quello che dirà Paolo: “E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

La liturgia sembra suggerire lo scenario per evitarci di cadere nella disposizione di quella ‘cattiveria di cuore e pusillanimità di comportamento’ del terzo servo. L’antifona di ingresso riporta le parole del Signore al popolo esiliato a Babilonia: “Io ho progetti di pace e non di sventura …”. Quelle parole si trovano nella lettera che il profeta Geremia aveva scritto ai deportati per diffidarli dal credere che l’esilio sarebbe durato poco, come alcuni millantati profeti andavano dicendo sulla base di notizie di rivolte che erano scoppiate qua e là nell’impero babilonese. Li invita a pazientare e a sfruttare il tempo dell’esilio per tornare al Signore, fiduciosi che a suo tempo il Signore li avrebbe riportati a casa. Quando la liturgia invita alla fedeltà quanto alla nostra operosità sa che il contesto in cui esercitare tale operosità è l’esilio, un tempo difficile da non sprecare in recriminazioni e ribellioni. Così l’antica colletta prega: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”. E l’orazione sui doni proclama: “Quest’offerta che ti presentiamo, Dio onnipotente, ci ottenga la grazia di servirti fedelmente e ci prepari il frutto di un’eternità beata”.

Il ‘servizio fedele’ non può essere che il medesimo esercitato dal Maestro, quello di mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli, servizio che risalta in tutta la sua bellezza proprio nella lavanda dei piedi nell’ultima cena. Alla resistenza di Pietro a farsi lavare i piedi, Gesù non ha altro argomento per convincere Pietro che questo: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8). Non è forse la stessa cosa che dice il padrone ai servi fedeli: “… sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”?

E se l’opera di Gesù si risolve nella gloria del Padre perché ne fa risplendere lo splendore in mezzo agli uomini con la sua testimonianza di amore fino alla fine (fino a raggiungere lo scopo della Provvidenza di Dio, che è quello di riunire a sé i figli dispersi!), così sarà l’opera dei suoi servi. Siamo servi di questo ‘splendore’ di Dio dovuto all’umanità perché ottenuto da Gesù per noi. Il servo che ha nascosto il talento è colui che vuole solo per sé ciò che invece è trovato donandolo, è il servo che non vuol seguire la dinamica della fede, ne svigorisce il potere e chiude agli uomini la possibilità di cogliere, almeno per la parte di cui è responsabile, lo splendore dell’amore di Dio. Non è più ‘buono a nulla’ ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere conosciuto dai suoi figli! Non sa o non vuol sapere che la sua felicità dipende dal farsi dono a tutti perché l’amore del Signore splenda in questo mondo.

Ora, se la ‘responsabilità’ del dare se stessi è esercitata di fronte a Colui che per noi ha dato se stesso, l’esercizio di tale responsabilità è volto direttamente verso i fratelli, in specie i fratelli più piccoli, per i quali, come per noi, il Signore ha dato se stesso. Come ci ricorda un racconto chassidico. Un uomo entusiasta di Dio vagò nell’universo fino ad arrivare alle porte del segreto. Bussò. Da dentro gli fu chiesto: “Che cosa cerchi qui?”. Disse: “Ho proclamato la tua lode agli orecchi dei mortali, ma erano sordi alla mia parola. Allora giungo a te, perché tu stesso mi ascolti e mi risponda”. “Torna indietro”, si udì dall’interno, “qui non c’è orecchio per te. Ho inabissato il mio udito nella sordità dei mortali”.

La parabola suggerisce anche qualcosa d’altro. Quando l’uomo, che ha ricevuto i misteri del Regno dal Signore Gesù, li sperimenta nell’amore agli uomini suoi fratelli, diventa solidale con il Padre, il quale ci serve nel Figlio che ha inviato per noi. Servendo, nell’amore, l’umanità di tutti, non facciamo che esercitare quel servizio divino che ridà dignità all’uomo e rende la vita davvero desiderabile. L’insidia maggiore a questo sogno di Dio è la nostra paura, la paura che Dio sia così esigente con noi da toglierci ogni illusione di riuscire a compierlo. Non solo, ma la paura ci impedisce di condividere la gioia del Signore. Quando Gesù, nell’ultima cena, affida ai discepoli i suoi segreti e li invita a rimanere nel suo amore rivela che lo scopo del suo agire è la condivisione della sua gioia (cfr. Gv 15). E ci può essere gioia nel Signore senza l’amore per i fratelli per i quali sono svelati i suoi segreti?

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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXXIV  Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

(26 novembre 2017)

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Ez 34,11-12.15-17;  Sal 22;  1 Cor 15,20-26a.28;  Mt 25,31-46

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La liturgia di oggi ci pone nel punto di intersezione tra questo mondo e il mondo futuro, facendoci contemplare nello stesso tempo, con uno sguardo d’insieme, la verità di questo mondo e quella del mondo futuro. Non si tratta però di guardare a quello che avverrà alla fine dei tempi, ma di renderci conto di quello che è in gioco in questo tempo dal punto di vista dell’eternità.

Consideriamo la collocazione nel racconto evangelico di Matteo. La parabola/visione del giudizio finale riprende il tema della vigilanza delle due parabole precedenti e si prospetta come il punto naturale di confluenza di tutto l’insegnamento precedente di Gesù. Non solo, ma è anche posto a cerniera tra ciò che precede e l’inizio del racconto della passione di Gesù. Queste osservazioni non fanno che mettere in risalto l’estrema importanza del brano dal punto di vista del messaggio evangelico.

La liturgia poi suggerisce il clima in cui l’evento si compie fugando l’emozione di angoscia istintiva che la scena tende a scatenare. Il Figlio dell’uomo, il Pastore, il Re, è anche l’Agnello immolato, Colui che per noi ha dato la sua vita, Colui che è il segno per eccellenza dell’amore di Dio per l’uomo. La liturgia ci fa cantare all’inizio: “L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza e sapienza e forza e onore: a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno” (Ap 5,12; 1,6). Celebra la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di Ez 34. Ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta di Gesù a Gerusalemme come il compimento dell’attesa del Regno di Dio che viene (cf. Mc 11,9-10).

Quando la liturgia, per esaltare la regalità universale del Signore Gesù, canta nel prefazio della messa: “assoggettate al suo potere tutte le creature”, l’allusione è all’umiltà con cui si è presentato, all’amore che l’ha divorato, oltre ogni forma di imperio mondano (possesso e potere), in una dimensione totalmente liberante sì da inglobarci nella sua comunione con il Padre. Come dirà san Paolo, rivelando il punto di arrivo finale della storia allorché Dio sarà “tutto in tutti”, in eterno (1Cor 15,28). Tutto è stato ottenuto con la sottomissione all’amore, con la comunione come frutto, nella gloria di una pienezza irradiante. Ebbene, il giudizio finale svelerà (non tanto giudicherà per premiare o condannare) come si è acceduto alla vita, condividendo l’umanità del Figlio dell’uomo nei suoi fratelli più insignificanti, vale a dire per i quali non è stato necessario basarsi su qualità o meriti per essere buoni. Il ‘giudizio’ del nostro re sorprenderà perché mai ci saremmo aspettati che il valore della vita si giocasse attorno a quel punto. E se Gesù racconta la sua parabola/visione non è per farci sapere in anticipo quello che avverrà, ma per vivere la nostra vita nella compagnia con lui che si è fatto servo per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli.

Prima di appuntare lo sguardo sull’evento in sé, è utile sottolineare la corrispondenza, segreta, di alcuni particolari. Il re dice a quelli di destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”. Quel ‘venite’ corrisponde all’invito dello Sposo alla sposa nel Cantico dei cantici (c.4), ma è anche il grido della chiesa, l’ultima parola del cuore dell’uomo al suo Signore ed insieme l’ultima parola di Dio all’uomo, quella sulla quale si chiudono le Scritture: “Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”… Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,16.20). Eco dell’invito di Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28), esprime il riposo raggiunto dell’amore che tanta pena si è dato per convincere e conquistare. Il ‘regno’ è preparato fin dalla fondazione del mondo. Con il ‘riceverlo’, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita. Quello che da sempre ha mosso il cuore di Dio, quello che ha costituito il suo primo pensiero per l’uomo, ora, finalmente, si vede realizzato, l’uomo lo può gustare in tutta la sua potenza e grandezza. Se gli aggettivi sembrano comportare un registro di potenza e di gloria, la realtà di cui parlano è invece tutta di intimità, gioia, condivisione; è il ‘ristoro’ che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo.

Venendo ora al giudizio in se stesso, dal punto di vista dell’uomo, della storia dell’uomo, il vangelo di oggi rivela il senso insospettato delle nostre azioni. Nel bene e nel male, le nostre azioni hanno echi assai più misteriosi e infiniti di quanto siamo soliti considerare perché la storia umana non è mai stata semplicemente storia umana, bensì sempre storia sacra, storia di Dio e dell’uomo. È caratteristico che il giudizio non menzioni nessuna distinzione tra gli uomini e che nessuno abbia chiara coscienza delle conseguenze dell’agire. Non saremo giudicati sulla fede, ma sull’amore. E davanti a questo, ciò che conta è la sincerità dei cuori. E la sincerità dei cuori sembra giocarsi tutta nella solidarietà con l’umanità là dove non c’è alcun titolo speciale di gloria. Quando Gesù dice: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” allude proprio a coloro che non hanno alcun titolo a ricevere le nostre attenzioni oltre l’appartenenza all’umanità. È la visione più radicale dell’etica ed insieme la visione più divina dell’umanità. Se già non è scontato credere che la nostra storia personale sia comunque una storia sacra, e se già è difficile credere che la nostra storia sacra costituisca l’unica forma possibile per noi per entrare in possesso della gioia del Regno che sempre sembra sfuggirci, è ancora più arduo credere che quella promessa di vita e di gioia che sempre ci accompagna dipenda dalla nostra solidarietà con l’umanità e non da altro. Ma qui si gioca appunto la nostra fede. La vigilanza delle vergini, l’operosità del servo fedele, si vedono qui, quando la fede ha toccato a tal punto il cuore da convertirlo interamente al desiderio di Dio, alla visione di Dio, cioè al modo di sentire e di vedere di Dio stesso riguardo agli uomini, suoi figli. Il riferire, da parte di Gesù, fatto a Lui quello che viene fatto agli uomini, comporta, da parte dei suoi discepoli, riferire fatto a Lui quello che fanno agli uomini. Non nel senso di voler amare Gesù in un uomo, ma nel senso di amare concretamente un uomo perché anche a lui si manifesti lo splendore dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù e così, solidali in umanità, ancora nel dramma della storia, ci si incammini verso ciò che costituisce il compimento della nostra storia: Dio tutto in tutti (1Cor 15,28).

Il racconto evangelico vuole introdurre al segreto di Dio per il mondo. Forse possiamo anche capirlo, ma come siamo lontani dal viverne la potenza e lo splendore! Non esiste però altra norma del bene, altro segreto di felicità: chi vive solidale con l’umanità di tutti è arrivato al segreto di Dio, in attesa di goderne la sovrabbondanza di grazia perché quel segreto inondi e sommerga ogni altro sentire, ogni altro giudizio, ogni altro pensiero, in noi stessi e in tutti, nel mondo intero.