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CONVEGNO TEOLOGICO: “Dire la fede nell’era della cultura digitale”

p. Elia Citterio, Alessandria, Ottobre 2013


Seguendo l’invito di Benedetto XVI che esortava i giovani a essere sempre se stessi in ogni ambiente, in ogni luogo ‘reale’ o ‘virtuale’, vorrei presentare il mio contributo di riflessione sull’esperienza della fede lungo due direttrici: secondo l’apertura al reale nella concretezza della vita e secondo l’istinto di comunione che deve essere l’anima della comunicazione. Leggendo Michela Marzano, La fine del desiderio. Le derive della pornografia contemporanea, ho trovato citato un pensiero di Jean Guéhenno (1890-1978), scrittore e critico letterario francese, che faccio mio: “Il vero tradimento è seguire l’andamento del mondo, e servirsi della mente per giustificarlo”.

Il mio compito sarà quello di esplicitare il non detto di questi nostri incontri, cioè che l’esperienza della fede nella nostra tradizione riguarda la fede e l’incontro con il Signore Gesù Cristo, confessato e testimoniato nella Chiesa e contemporaneamente di presentare un accesso al Vangelo accoglibile e significativo per noi uomini di oggi.

Nella tradizione ebraica, la particolarità del Messia rispetto a tutti i profeti precedenti è data non semplicemente dal fatto che avrebbe fatto conoscere la verità, ma che l’avrebbe fatta vedere. E noi, guardando a Gesù, confessato come il Messia, da cosa ci accorgiamo che proprio questo è avvenuto?

Due i riferimenti della Scrittura illuminanti. Primo, l’espressione della lettera agli Ebrei: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato Allora ho detto: Ecco, io vengo poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5-7). Riprende la versione greca del salmo 40, mentre l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità totale al volere di Dio. Di quale ‘volere’ si parla? Della volontà di Bene del Padre per i suoi figli. E se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Prendere un corpo significa che Dio non solo parla una lingua comprensibile, ma che parla la nostra lingua materna perché lo mette in condizione di assumere la debolezza, la sofferenza. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio. La verità è fatta vedere nella sua umanità, nell’umanità.

La rivelazione di Dio non riguarda solo il fatto che il Figlio di Dio si fa figlio dell’uomo ma riguarda la direzione stessa del movimento che presiede all’amore: l’abbassarsi. Gli uomini vivono il desiderio di grandezza in termini di innalzamento, di superiorità, mentre Gesù mostra la grandezza gradita a Dio nel fatto di abbassarsi, di farsi servi di tutti, soprattutto dei piccoli e dei deboli, per non mancare all’amore, per non separarsi mai dai propri fratelli, la cui umanità è colta in totale solidarietà con la propria.

Pensiamo a madre Teresa di Calcutta, al suo toccare con amorevolezza i corpi dei moribondi appena raccolti per la strada, oltre ogni ragionevole utilità delle cure[1]. Pensiamo al detto dei Padri del deserto: “Quando vedi il tuo fratello, vedi il Signore Dio tuo” (Apollo, 3). Pensiamo al realismo dell’eucaristia, decifrato nel suo messaggio rivoluzionario dalla testimonianza di Annalena Tonelli (1943-2003), assassinata da un commando islamico in Somalia, che spiegava: “Questo è il mio Corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, mangi la tua condanna” e citava un passo di Angelo Silesio (1624-1677) che suona: “Se non amo, Dio muore sulla terra, che Dio sia Dio io ne sono causa; se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della sua presenza e lo rendiamo vivo in questo inferno di mondo dove pare che lui non ci sia”. Pensiamo a Jef De Veuster (1840-1889), p. Damaniano di Molokai, l’isola dei lebbrosi nell’arcipelago delle Hawai, la cui recente canonizzazione era stata fortemente patrocinata da Madre Teresa di Calcutta, che non poteva non toccare, non abbracciare i suoi lebbrosi perché diversamente avrebbe significato fare loro del bene, ma non amarli. E amarli, con la sua presenza fisica, faceva la differenza rispetto a tutti gli sforzi di curarli. Tanto che il ‘paese dei pazzi’, come era chiamata l’isola lebbrosario, è diventata terra di uomini[2].

Noi non possediamo soltanto un corpo; siamo il nostro corpo. Ogni onore e tenerezza per il corpo raggiunge il cuore delle persone, raggiunge direttamente il Signore che si confonde con i suoi figli. In questo preciso punto della rivelazione cristiana il virtuale non può mai sostituire il reale.

Tanto che – ecco il secondo riferimento – Giovanni nel prologo del suo vangelo proclama: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18). Dopo secoli di cristianesimo siamo ancora alle prese con questa rivelazione mai compiuta nei nostri cuori e nelle nostre intelligenze: vorremmo la grazia e la verità, ma ci muoviamo come se la grazia fosse un frutto della legge, come se la legge assicurasse la grazia. Non riusciamo a stare aperti alla ‘buona notizia’ che è Gesù da parte di Dio per noi, per la nostra vita concreta, rispetto ai desideri che ci lavorano dentro e rispetto al male di cui subiamo il fascino e l’oppressione.

La rigidità con cui accediamo alla nostra umanità impedisce l’accoglienza gioiosa della novità evangelica e l’incapacità di sintonizzarci sulla novità evangelica non ci fa accedere alla nostra umanità. Un’espressione caratteristica di  papa Francesco rispetto a un certo modo di vivere la fede ce lo mostra molto bene: “Non è sufficiente che la nostra verità sia ortodossa e la nostra azione pastorale efficace. Senza la gioia della bellezza, la verità diventa fredda e perfino spietata e superba, come vediamo avvenire nel discorso di molti fondamentalisti amareggiati. Sembra quasi che mastichino cenere invece di assaporare la dolcezza gloriosa della verità di Cristo, che illumina con luce mansueta tutta la realtà, assumendola ogni giorno per quella che è. Senza la gioia della bellezza, il lavoro per il bene si converte in efficientismo cupo, come succede a molti attivisti esaltati. Sembra quasi che vadano rivestendo la realtà di lutto statistico, invece di ungerla con l’olio interiore del giubilo che trasforma i cuori, uno a uno, dal di dentro”.[3]

La porta e gli occhiali.

Ci possiamo servire di due immagini per indicare l’atteggiamento di fondo che dobbiamo imparare a tenere rispetto al vangelo e alla vita: la porta e gli occhiali. Gesù non si proclama solo buon pastore, ma anche porta: è la porta spalancata del cielo per noi, la porta aperta per il Regno e, contemporaneamente, la porta stretta per la quale entrare sia nel Regno sia nel cuore. È detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al sentire della nostra carne. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino che, per nascere, deve passare per la porta stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a partire di lì scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla quale aneliamo sconfinatamente.

Velatamente troviamo la stessa verità nel profeta Isaia, là dove dice: ”con le loro opere e i loro propositi. Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18), reso invece, secondo un’altra traduzione: “Io sarò i loro atti e i loro pensieri…”, “Sono io che motiverò i loro atti e i loro pensieri…”. Possiamo intendere: quando Dio diventa la fonte di ogni nostro atto e di ogni nostro pensiero, saremo passati attraverso quella porta stretta che conduce al regno della vita. E la strettezza, almeno per il nostro uomo esteriore, è descritta sempre dal profeta così: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito, su chi teme la mia parola” (Is 66,2). Ma scegliere l’umiltà e il cuore contrito significa scegliere il Signore Gesù, che di sé dice: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò. Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29).

Non dimentichiamo che, quando Adamo ed Eva obbediscono al serpente piuttosto che a Dio, si incamminano su un sentiero di morte, non quello del ritorno  alla sparizione fisica, ma la morte dell’umano, di ciò che permette la fioritura in umanità (cfr Gn 3,1-19).[4]

Se oltrepassiamo quella porta cambia la visione, proprio come descrive l’autore di 2Re 6,15-17: “Il servitore dell’uomo di Dio si alzò presto e uscì. Ecco, una schiera circondava la città con cavalli e carri. Il suo servo gli disse: «Ohimè, mio signore! Come faremo?». Egli rispose: «Non temere, perché quelli che sono con noi sono più numerosi di quelli che sono con loro». Eliseo pregò così: «Signore, apri i suoi occhi perché veda». Il Signore aprì gli occhi del servo, che vide. Ecco, il monte era pieno di cavalli e di carri di fuoco intorno a Eliseo”. Spesso l’esito del nostro lottare dipende dagli occhiali che portiamo: per dieci che ci attaccano, ci sono diecimila che ci difendono, ma restano invisibili ai nostri occhi, come inesistenti.

Ecco allora le mie deduzioni. Prima deduzione. L’uomo, a differenza di tutti gli altri esseri, ha questo di singolare: per diventare se stesso è chiamato a trascendere se stesso. Un cane non fa fatica ad essere cane, un uomo sì: fa fatica a diventare ‘umano’, a realizzare la sua vocazione all’umanità. Così, a differenza di quello che normalmente pensiamo, la vita spirituale si gioca in rapporto a tre cose:

– alla rivelazione del mistero di Dio. In primo piano non sta mai il riferimento a noi, ma a ciò che ci viene da Dio: l’intelligenza spirituale della Parola presiede alla conoscenza dei dinamismi del cuore e all’impegno nel bene per e con i fratelli;

– alla collaborazione con Dio perché si realizzi il suo sogno di stare in comunione con gli uomini, condividendo i suoi segreti e i suoi sentimenti verso i suoi figli. Pensiamo alla parabola del padre misericordioso o del figliol prodigo. La felicità dei figli sta appunto nella condivisione dei sentimenti del padre per loro. Di quel ‘sogno’  è intessuta la vita del Signore Gesù e di quel ‘sogno’ parlano i nostri aneliti più profondi;

– alla realizzazione della vocazione all’umanità. Nasciamo uomini, ma dobbiamo diventare umani, conforme al volere di Dio, secondo il suo progetto, radicati in Gesù. È l’invito a custodire e coltivare il giardino del proprio cuore come Adamo nel paradiso terrestre.

Mi posso spiegare con un esempio. Se ascoltiamo Gesù parlare nel brano di Lc 6,27-38, ci accorgeremmo che non sta indicando un ideale da perseguire, ma che semplicemente segnala ai suoi discepoli la potenza e l’estensione della dinamica che l’incontro con lui ha messo in moto: “Amate i vostri nemici … fate del bene a coloro che vi odiano … pregate per coloro che vi trattano male … se amate quelli che vi amano quale gratitudine vi è dovuta [che merito ne avrete]?…”.

A dire il vero c’è un problema di traduzione. Così come lo leggiamo nel testo italiano qualcosa ci sfugge e qualcosa di essenziale. Rilevo alcuni particolari. L’espressione ‘fate del bene a coloro che vi odiano’ suonerebbe piuttosto ‘agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano’, dove ‘bene’, nella frase in greco, non è complemento oggetto ma avverbio. 

Ancora: ‘benedite coloro che vi maledicono’ andrebbe più semplicemente resa con ‘dite bene di quanti vi maledicono’, per non perdere questa sfumatura di senso: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti, non ricambiate con parole amare chi vi amareggia, con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato.

E ancora: ‘pregate per coloro che vi trattano male’ andrebbe reso con  ‘pregate per coloro che vi calunniano, per coloro che per invidia e malevolenza vi calunniano’ a sottolineare il mistero della carità, nel senso che la preghiera per coloro che ci calunniano ci fa vincere la tristezza e lascia il cuore libero di cercare il regno di Dio, di desiderare che si compia per me e per tutti, con la successione indicata: l’agire buono, il sentire benevolo, l’amore liberato.

Il punto essenziale però risalta dalla conseguenza che Gesù tira: ‘se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta [che merito ne avrete]?’, espressione che potrebbe essere resa con ‘se amate quelli che vi amano, quale grazia vi muove? qual è la vostra grazia?’. L’espressione è ripetuta tre volte nel testo e costituisce la discriminante tra il discepolo di Cristo e il pagano. Ma la discriminante di che cosa? È  l’interrogativo di fondo di tutto il brano: quale grazia risplende nel vostro agire? E noi quale grazia cerchiamo? Grazia rivela un tipo di esperienza, quella di chi, incontrando l’Inviato di Dio, riconoscendo in lui la prossimità di Dio per l’uomo, ne è rimasto folgorato, come dirà Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo…” (1Gv 1,1-3). È l’esperienza, in Gesù Salvatore, della benevolenza di Dio per l’uomo, della gratuità del perdono ricevuto, della dignità ritrovata per l’amore che ci ha rifatti dal di dentro. È l’esperienza della possibilità di un’umanità che splende.

Seconda deduzione. Il Vangelo va letto non come ideale, ma come radice. Avviene raramente nella vita di fare un incontro che ti cambia totalmente e Giovanni racconta proprio l’incontro che l’ha trasformato completamente, con una precisione di particolari che sono direttamente proporzionali all’intensità dell’esperienza: “Che cosa cercate?” … “dove dimori?” … “Venite e vedrete” … “Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (cfr. Gv 1,35-42). Non gli hanno chiesto certo l’indirizzo di casa! Quando Giovanni, nel prologo del suo vangelo, annuncia che il Verbo si è fatto carne, aggiunge subito dopo: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Ha incominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, sull’invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea. Non va dimenticato che il verbo greco tradotto con ‘dimorare’ è lo stesso verbo che Gesù userà con insistenza nel discorso all’ultima cena a proposito della vite e dei tralci quando dirà: “rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). È come se Gesù rispondesse ancora alla domanda dei suoi discepoli “dove dimori?” e dicesse: siete venuti da me, avete visto dove io dimoro (nell’amore del Padre) e così voi, ora, rimanete nel mio stesso amore. È a questa esperienza che Giovanni allude quando annota ‘andarono e videro dove abitava’. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita. Non solo, ma la tonalità dell’esperienza si addice all’esperienza della sposa nel Cantico dei Cantici là dove è detto: “Attirami dietro a te, corriamo! M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino” (Ct 1,4).

La difficoltà per noi resta sempre quella del credito da accordare alla promessa di vita da parte di Dio. Ogni pratica dovrà dunque indurci ad accordargli quel credito. Se manca di questo, la nostra pratica rischia di giocare contro di noi. Le opere richieste da Dio sembrano del tipo di quelle che nemmeno ci sogniamo di poter compiere. Il passo dei due spiccioli della vedova in Lc 21,1-4 è assai rivelativo. La traduzione letterale suona: “Tutti costoro infatti hanno deposto come offerta del loro superfluo, questa invece (traendo) da quello che le mancava ha messo tutta la vita che aveva”. Gesù in effetti non chiede di dare tutto, tanto o il poco che abbiamo, ma più esattamente di dare quello che non abbiamo! Tu devi al fratello quello che non hai, che costituisce tutto quello che hai per vivere: uno ti chiede dolcezza e tu non ce la hai?  Dagliela e tu l’acquisterai!  Non aspettare di essere dolce per dare dolcezza: finirebbe il mondo e non avresti ancora la dolcezza. Sei chiamato a dare quello che non hai per obbedienza al tuo Signore. La forza delle opere sta in questa obbedienza al Signore nel quale si confida. Se riuscissimo a dare a Dio tutta la confidenza del cuore e rinunciassimo a ogni pretesa nei suoi confronti, resteremmo purificati da quella miriade di pretese che abbiamo l’uno verso l’altro.

La visione di fondo dell’uomo risalta in tutta la sua positività, come i nostri Padri hanno ben sottolineato. Una delle più belle definizioni di uomo nella storia del cristianesimo credo sia quella fornita da Gregorio di Nazianzo: l’uomo è un ‘animale chiamato a diventare Dio’ (ζωον θεούμενον)[5], riprendendo un’affermazione di Basilio Magno il quale definisce l’uomo una creatura ‘ordinata a diventare Dio’ (θεός κεκελευσμένος). L’uomo è definito non nella sua ‘natura’, ma nella sua ‘persona’, nel suo ‘essere per la comunione’, quindi nella sua capacità di crescita e di relazione. La specificità dell’essere umano risiede nel fatto precipuo che è ‘ordinato a diventare Dio’. Ne deriva che il valore della vita viene definito in rapporto al progresso verso la perfezione come pienezza e limpidezza di relazione: diventare figli come il Figlio, diventare figli nel Figlio; cioè diventare ‘umani’, secondo lo splendore dell’umanità che in Gesù vediamo e che pesca nell’intimità di volere con Dio, che è amore per noi.

Ci fa troppo difetto la tensione contemplativa dell’esperienza della fede. Siamo troppo abituati a ridurre i comandamenti alla pratica del bene senza renderci conto che il bene non è lo scopo dell’agire. Osservare i comandamenti significa viverli in funzione della gloria di Dio, vale a dire in funzione della rivelazione al nostro cuore del volto di Dio che è amore per noi e che vediamo splendere nell’umanità di Gesù. Quello splendore si irradia sulle cose, su tutte le creature, sui nostri fratelli. Il fare è in funzione del vedere. E il vedere ha a che fare con la vita del cuore.

L’accesso alle Scritture: la densità drammatica dei testi.

L’identità del Risorto nell’Apocalisse è presentata con l’attestazione del Figlio d’uomo che compare in visione a Giovanni: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”. Quelle parole non attestano semplicemente la verità personale del Risorto, ma la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio ai suoi figli che Gesù ha mostrato in tutto il suo splendore. Se quelle parole le mettiamo in bocca a Gesù che vediamo parlare e agire nei racconti evangelici, allora la sfumatura di significato risulta: io, che sono il Primo, mi sono fatto ultimo, servo di tutti e perciò sono pieno della vita di Dio, che è amore per voi. Così voi, se vi fate servi di tutti, sarete innestati in colui che è Primo e godrete della vita che a lui appartiene. Chiedere la forza del suo Spirito è chiedere di essere innestati nella potenza di questa rivelazione. Quando il Risorto afferma che lui ha le chiavi della morte significa che con lui la morte non agisce più, morte intesa nel senso di mortificazione dell’amore che è vita di Dio per noi. Qui si ricollegano le parole evangeliche della vite e dei tralci, del rimanere in lui, dell’osservare la sua parola per essere custoditi nell’amore, ecc. E qui ricollego anche l’attestazione del profeta Isaia a proposito di Dio: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is 41,4).

Quando il libro del Deuteronomio afferma: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. … Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Dt 30,10-14), cosa vuol dirci? Almeno due cose. La parola di Dio:

1) non è qualcosa di complicato o assurdo o inarrivabile, ma accessibile a noi;

2) è adatta a noi, corrisponde al nostro cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi.

E mi domando: ma allora perché facciamo così resistenza al suo comandamento nella nostra vita?

Già il testo del Deuteronomio lo sottolinea: la parola del Signore ti è vicina perché tu la metta in pratica. Vale a dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza con Dio che si era prima appena percepita. L’amore di Israele per il suo Dio è un tema tipico del libro del Deuteronomio, assente negli altri libri del Pentateuco. Il brano chiude praticamente il libro del Deuteronomio e tutto il Pentateuco. Se il vangelo lo riprende (cfr. Lc 10,25-37) è come se riprendesse in sintesi tutta la Legge mostrandone il compimento, come giustamente dimostra di conoscere il dottore della legge che interroga Gesù.

Luca e Matteo pongono la domanda del dottore della legge sotto un’angolatura negativa, mentre Marco sottolinea la sua buona fede. La prima domanda: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”, che sia posta con malizia o in buona fede, è comunque una domanda ben posta. Non si può chiedere: che cos’è la vita eterna? La comprensione segue sempre la pratica e la pratica fa riferimento a un’alleanza goduta. La seconda domanda: “E chi è mio prossimo?”, è comunque una domanda posta male. Se tradisce la sua cattiva intenzione, allora significa: non posso mica mettere sullo stesso piano tutti gli uomini, giusti e peccatori, Israele e i pagani! Ma così pensando, l’uomo crede di difendere le sue distinzioni in nome di Dio e si impedisce di conoscere in verità il volto del suo Dio. Se procede dalla sua buona fede, allora significa: perché non gusto ancora quella vita eterna che cerco? Cosa mi manca? E pone la domanda per conoscere in verità il pensiero di Dio. E Gesù narra la parabola del buon samaritano. La conclusione della parabola restituisce al dottore della legge l’ottica giusta, quella di Dio: non si tratta di sapere chi sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma di agire da prossimo con chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ così”, come il buon samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito sulla strada.

Il mistero della parabola però non finisce qui, perché le parabole parlano di Dio e non semplicemente dell’uomo. Il buon samaritano è Gesù, che ha lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna perché assimila a Dio, rende simili al Cristo e ne svela al nostro cuore la bellezza. È il mistero di ogni parola di Dio. Non viene pronunciata perché la si capisca, ma perché la si metta in pratica con lo scopo di godere di quella vita che da Dio deriva e tutti ingloba riempiendo il cuore. Davanti alla parola dovremmo dunque domandarci: qual è il mistero che nasconde, di cui diventare partecipi mettendola in pratica?

È curioso osservare come la lettera ai Colossesi (1,16-20) presenti il Cristo nella sua preminenza quanto alla creazione e quanto alla redenzione: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. … è  piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose …”. Il che significa conferire alla parola evangelica non tanto la natura di ideale ma quella di radice. In altri termini: se vogliamo conoscere cosa davvero vuole il nostro cuore in profondità non abbiamo che da riferirci alla parola di Gesù; se vogliamo realizzare i desideri profondi che portiamo, la dinamica da seguire per ottenere soddisfazione è quella mostrata dalla parola evangelica. Non sembra affatto scontato riconoscere la cosa, ma beato colui al quale è concesso vedere il mondo sotto questa angolatura. È l’eredità più preziosa della Chiesa per il mondo.

A quali condizioni? Una sola, che una colletta esprime con queste parole: “… conferma in noi la grazia della tua libertà“. Vedere nei comandamenti la possibilità di sperimentare l’amore di Dio per noi e la fraternità con gli uomini comporta il dono di una grande libertà, quella che ci deriva dal Signore Gesù Cristo che rivelandoci il suo Volto dà anche a noi un volto in cui specchiarsi, riconoscersi e ritrovarsi. È la libertà che il cuore respira quando i suoi pensieri si accostano ai pensieri di Dio, quando i suoi pensieri si intessono con i pensieri di Dio e cade l’illusione di potenza, di sufficienza, di dominio per aprirci orizzonti nuovi e lucidità di visione e calore di rapporti

Alcuni nodi significativi e paradossali.

L’atteggiamento di fondo dell’uomo contemporaneo, alla ricerca di un senso della vita, credo possa essere descritto, pur sbrigativamente, in questi termini: si è passati da un perseguire la verità per non fallire la felicità, di ieri, a un perseguire la felicità a costo della verità, oggi. Tanto che fallire la propria felicità comporta sempre un giudizio cattivo su Dio che mina alla radice il fluire della vita rendendola ingiusta e oppressiva. Non per nulla nelle società moderne, pervase da un’ansia angosciosa per l’insicurezza nel perseguire l’obiettivo della felicità, ormai percepito come una specie di assoluto, è venuta meno l’idea di Dio. Si vuole la felicità senza accettarne le condizioni vere di realizzazione che sempre ci sfuggono perché non più disposti a sottomettersi alla vita. Il desiderio di realizzazione si accompagna alla mancanza di una tensione interiore adeguata.

Quanto è distante dal sentire moderno l’atteggiamento evangelico, così tipicamente francescano, della sottomissione dolce e libera a tutto e a tutti! Del resto, credo vada riconosciuto che il ‘secolarismo’ imperante, di per sé, non è negazione di Dio, ma della creatura. L’eterno serpente tentatore, sempre all’opera nelle sue suggestioni illusorie, rivela all’uomo tutte le sue potenzialità (illimitate: “Sarete come dèi”, cfr Gn 3,5), ma gli nasconde con ciò stesso il suo limite ontologico. La ragione profonda dell’angoscia moderna deriva da qui: voler prendere da sé qualcosa che invece ci può essere solo donato.

Penso che la sensibilità culturale moderna, nel suo complesso, manchi proprio delle due caratteristiche che costituiscono i segnali della buona salute dello spirito: della gioia (la gioia della salvezza e la salvezza che è gioia) e dell’umiltà. Invece di favorire l’acquisizione di quelle due caratteristiche, ci perdiamo nell’illusione di voler comunque risolvere i problemi piuttosto che insegnare a viverli cercando il Regno di Dio, come invita il vangelo. La tendenza rivendicativa della sensibilità odierna, così letale per il cuore e per gli affetti, è proprio il male di fondo che va guarito con l’accompagnamento ad una vera esperienza di incontro col Signore Gesù.

Posso indicare brevemente alcuni nodi paradossali.

La cultura parla di libertà, di affermazione; la fede di obbedienza, di sottomissione.

La cultura parla di diritti, di uguaglianza. La fede parla di amore, di dedizione, di comunione. Ad esempio, la nostra cultura odierna non può non essere contro la famiglia perché la famiglia, quella di un uomo e di una donna aperta ai figli, smaschera il male indotto da una teorica uguaglianza contrabbandata come dovere assoluto per la società. L’amore è assenza di comparazione, esige il coinvolgimento esperienziale delle persone, mentre l’uguaglianza è perseguita sul livellamento delle differenze. È l’imperativo della teoria sulla concretezza dell’esperienza.

La cultura, la scienza, vogliono offrire certezze, mentre la fede offre solo verità. Le certezze però riguardano l’ordine funzionale del vivere, mentre le verità l’ordine del cuore, dentro relazioni interpersonali significative. La questione affettiva si svela qui in tutta la sua drammaticità: si vorrebbe essere sicuri di un amore, mentre la verità dell’amore pesca nella fiducia, umile e tenace.

Nella nostra società, all’individuo è richiesta una fatica incredibile per arrivare al successo nei vari campi, ma per la propria felicità si suggerisce la via più facile e a buon mercato.[6] Non si è più abituati alla fatica della lotta, tanto che il principio di fedeltà ha perso molto del suo lustro, con la conseguenza che tutto appare effimero e inconsistente.

Alla base delle paure che ci attanagliano e ci lacerano c’è uno sguardo di non benevolenza, di disprezzo di sé, di diffidenza verso la vita, di incapacità a vivere la vita da dentro un’alleanza, corroborato da una cattiva immagine di Dio che la fa da padrona. Tutte le parabole di Gesù sono lì a smascherare questo sguardo complice del serpente tentatore, che si traduce sovente in arroganza e aggressività. Dopo duemila anni di cristianesimo siamo ancora alle prese con la difficoltà a percepire e assimilare la letizia dell’annuncio evangelico, il cuore della rivelazione di Gesù. La vita è percepita come dipendere dagli eventi, a noi esteriori ma che hanno presa su di noi. Così, più l’uomo cerca la sua felicità ad ogni costo, più resta in balia delle sue ossessioni.

Si confonde facilmente il livello psicologico e quello spirituale, confusione che rivela la difficoltà di percepire la natura dell’esperienza cristiana che è essenzialmente escatologica. Il rischio grosso è quello di vivere ‘mondanamente’ la dimensione religiosa o di condurre una pratica religiosa in modo mondano. Il cuore così non scopre nessun tesoro, non riesce a godere e finirà per esaurire le sue risorse cedendo a quello che le Scritture sono solite chiamare ‘mormorazione’: si finisce per accusare Dio che non è capace di adempiere le sue promesse. Così l’impegno della conversione o della sequela si spompa e ci si sente in diritto di cercare altro o in altro modo.

Non va dimenticato che la potenza di rivelazione delle parole e dell’agire di Gesù non riguarda la denuncia del mondo nella sua ostilità a Dio (sarebbe scontato!) ma lo smascheramento della modalità mondana nel vivere la sua sequela. Il che significa che se vogliamo che la fede renda luminosa la nostra esistenza occorre accoglierla senza condizioni, proprio come si vive la realtà di un grande amore. Sembra invece di essere in diritto di vivere la sequela del Signore con un amore provvisorio, parziale, condizionato.

Per coinvolgere i cuori nella grazia della fede e vivere la propria vocazione all’umanità, quattro punti risultano nevralgici:

1) ritornare ad essere capaci di avere uno sguardo umile e gioioso sulla nostra realtà di creature. Spesso si vive proiettati e presuntuosi, segno della non accettazione della propria realtà di creature.

2) coinvolgere i cuori nelle dinamiche spirituali corrette, che non sono istintive né dipendono dalla sensibilità. Faccio notare, ad esempio, la particolarità dell’espressione ‘seguire Cristo’. Del Cristo, non si dice che va, che parte, ma che viene. Non si tratta allora di seguire Cristo facendo questo o quello, ma di fare in modo che in quello che scelgo in libertà e responsabilità o che assumo in obbedienza possa essere trovato in Cristo, possa scoprire cioè il Cristo che viene.

3) tornare a desiderare la sapienza del vangelo tramite l’intelligenza del cuore. Qui sarebbe da indicare la scoperta delle connessioni segrete nella vita (non serve voler la carità, se non si è disposti ad onorare gli altri più di quello che meritano; la grazia non è data allo sforzo, ma all’umiltà; la purità di cuore non deriva dal fatto di non avere pensieri cattivi, ma dal fatto di guardare con occhio benevolo gli altri, ecc.);

l’urgenza di imparare a leggere i propri bisogni con più radicalità. Noi viviamo di ‘reazioni’, non della verità del nostro cuore: traduciamo spesso in giudizi di verità le nostre reazioni, incapaci come siamo di leggerle più in profondità rispetto alla verità del nostro cuore, secondo la sapienza evangelica. Ad esempio, l’ira che proviamo di fronte alle offese non sappiamo mai leggerla in funzione del principio di conversione per godere il mistero del regno dei cieli.

Ed è appunto in Gesù che possiamo muoverci per avere la vita, la vita vera, assunti in quell’amore di Dio che costituisce il dono divino della vita. Realizzare la propria vocazione significa contemporaneamente godere di quella pienezza alla quale si anela e godere di quella umanità senza divisioni di cui si ha nostalgia. Qui possiamo comprendere i sogni dell’uomo perché in Dio hanno le loro radici. Perché – e la cosa sorprende non poco – se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora vuol dire che ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che proprio Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare.

 4) L’assunzione di un compito: la missione, come testimoni del vangelo nel mondo. Missione da intendere secondo le parole della Vergine all’angelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). La Vergine acconsente a che il desiderio di Dio di abitare con gli uomini, di farsi dimora degli uomini, finalmente si compia. Il suo acconsentire rivela la purità del suo cuore: non sa come si realizzerà il disegno di Dio, ma vi acconsente; non sa cosa le sarà richiesto, ma vi acconsente. Nello stesso tempo, rivela tutta l’intimità del suo cuore, che comunque sta dalla parte di Dio, è un tutt’uno con il sentire di Dio, non cerca altro sentire se non quello stesso di Dio. Il prodigio della concezione e della nascita del Figlio, di cui lei sola conosce il mistero, conferma quell’intimità, non la crea. La fede non ci strappa dalla nostra umanità, ma l’avvalora, la compie nella sua dignità e nei suoi aneliti.

Il volere di benevolenza di Dio per l’uomo, che si era espresso nel volere di intimità del Figlio con il Padre per essere il testimone del suo amore per gli uomini tra gli uomini, si rispecchia nel volere di obbedienza della Vergine che sta unita al suo Dio. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio di realizzazione del desiderio di Dio per gli uomini, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio.   Non per nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Potremmo parafrasare: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, su di lei come sul mondo. É da tale consapevolezza che sgorgano le parole del magnificat e il canto di esultanza della creatura che vede lo spazio di vita ormai  totalmente occupato da quell’amore. È il senso del comando di Gesù: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). Che non vuol proprio dire: indottrinate tutti con la verità che conoscete! Piuttosto: fate risplendere nella vostra umanità la bellezza di Gesù perché i cuori lo desiderino e lo conoscano e diventino anch’essi partecipi dei suoi segreti. La responsabilità della testimonianza non va vissuta come impegno o dovere, bensì come sovrabbondanza. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno.

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[1] “Senza la nostra sofferenza, il nostro lavoro sarebbe soltanto assistenza sociale”; “Siamo tutti figli di Dio, perciò è importante condividere i suoi doni. Non preoccuparti di sapere il perché dei problemi del mondo, limitati a rispondere alle esigenze della gente. Alcuni mi dicono che fare la carità significa ridurre le responsabilità del governo verso i bisognosi e i poveri. Di questo io non mi preoccupo, perché i governi, di solito, non offrono amore” (cfr. Madre Teresa con Lucinda Vardey, Il cammino semplice, Milano 1995, Mondadori).

[2] Espressione di questa dignità ritrovata il canto dei lebbrosi: “Quando mai mi sarà concesso di vedere il mio Dio? Quanto dovrò ancora soggiornare in questa spiaggia straniera dove giorno e notte mi tortura la tristezza? Quando abbandonerò questo luogo di tormento dove altro pane non ho che il mio lamento? Quando vedrò il mio Ben Amato nella Sion benedetta?”.

[3] JORGE MARIO BERGOGLIO, Così pensa papa Francesco, Milano 2013, Mondadori, p. 17 (22 aprile 2011).

[4] Cfr. André WENIN, Humain et nature, femme et homme: différences fondatrices ou initiales? Réflexions à partir des récits de creation, RECHERCHES DE SCIENCE RELIGIEUSE 101/3-2013, 401-420.

[5] In Sanctum Pascha, hom. 45,7.

[6] Mi pare significativo ricordare quello che Madre Teresa diceva della ‘voce’ del suo Gesù: ‘Quante, quante volte Gesù si è lamentato per gli indugi, poiché ogni volta che Lui chiede qualcosa, dice, le persone diventano sin troppo prudenti in tante cose, mentre invece se è il mondo a chiedere, le cose vengono fatte così rapidamente.’ Cfr. Madre Teresa, Sii la mia luce, a cura di B. Kolodiejchuk, BUR Rizzoli, 2009.