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Testo pubblicato in CONSACRAZIONE E SERVIZIO, 2012/4, pp. 43-49, con il titolo: Comunione di santi e peccatori.


LA VITA FRATERNA COMUNIONE DI SANTI E PECCATORI[1]

Un fratello, offeso da un altro, venne dal padre Sisoes e gli disse: “Sono stato offeso da un fratello e voglio vendicarmi”. L’anziano lo esortava: “No, figliolo, lascia piuttosto a Dio la vendetta”. Ed egli: “Non mi darò pace finché non mi sarò vendicato”. Disse allora l’anziano: “Preghiamo, fratello!”. E, alzatosi, disse: “O Dio, non abbiamo più bisogno che tu ti prenda cura di noi, perché noi ci vendichiamo da soli”. A queste parole il fratello cadde ai piedi dell’anziano dicendo: “Non contenderò più con il fratello; perdonami, padre!” (Sisoes 1).[2]

La vita fraterna rientra esattamente in quel ‘prendersi cura di noi’ da parte di Dio, nell’affidarci a lui come Padre di tutti. Non sembra oggi una verità scontata, neppure nella Chiesa, ma la comprensione del suo mistero dipende in ultima analisi dalla possibilità dell’esperienza di Dio come Padre, di cui Gesù testimonia l’immenso amore per noi. La forza della rivelazione di Gesù sta appunto nel condividerci i segreti del Padre. Lo ricordava in una recente intervista (Avvenire, 9 febbraio 2012) il filosofo francese Jean-Luc Marion: “Se ci riferiamo alla triade dei valori repubblicani francesi, la libertà può forse essere garantita a livello pubblico. E, si spera, pure l’uguaglianza. Ma la fratellanza presuppone invece un padre, mentre la società laica è fondata proprio sull’assenza del padre. Il solo padre assente possibile è Dio, ma non è stato finora riconosciuto. Dunque, nei sistemi fondati sui tre valori francesi, c’è una contraddizione interna. I primi due termini non possono garantire il terzo. La fratellanza non doveva essere inclusa, perché va oltre il progetto illuministico”.

 

L’esperienza dell’essere peccatori.

Lo spazio sottratto a Dio è riempito con la proiezione dell’io che tende a fagocitare tutto, non solo le cose, ma anche i fratelli, visti nell’ottica di una rivendicazione del nostro diritto all’amore. Il male oscuro della nostra sensibilità interiore non è l’individualismo, come spesso viene sottolineato in una critica alla nostra società odierna, ma la proiezione narcisistica di sé che non sopporta nessuno nella sua alterità perché non più radicato in un Altro che ti fa sussistere. Dal punto di vista dell’esperienza interiore delle persone, in termini religiosi si direbbe che ciò che viene meno è la coscienza dell’essere peccatori. D’altra parte, non ci si può ritenere peccatori che davanti a un Amore più grande che ci invade, di cui non si è mai degni ma che costituisce lo spazio vitale in cui accoglierci e accogliere. Siamo relativamente disposti a riconoscere i nostri difetti, anche i nostri peccati, ma difficilmente la condizione radicale del nostro essere peccatori. La cosa emerge in tutta la sua rilevanza proprio nella vita fraterna, nelle comunità come nelle famiglie, là dove le relazioni con i fratelli svelano le radici del nostro cuore, il dove siamo fondati.  

Non per nulla, nella spiegazione del Padre nostro, Cipriano di Cartagine così commentava la richiesta del perdono dei debiti vicendevoli: “Dopo queste invocazioni preghiamo dicendo: ‘E rimetti a noi i nostri debiti, così come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Dopo il conforto del cibo si richiede il perdono del peccato, perché viva in Dio chi è nutrito da Dio … In realtà com’è necessario, com’è previdente e salutare essere ammoniti del fatto di essere peccatori, noi che siamo spinti a pregare per i nostri peccati, perché l’anima si ricordi della sua coscienza, mentre domanda perdono a Dio! Nessuno si compiaccia, come se fosse innocente e non cada ancora più in basso, nel vantarsene; anzi è ammonito e istruito che pecca quotidianamente, perché gli è ordinato di pregare quotidianamente per i suoi peccati”.[3]

Riconoscersi peccatori è la condizione per gustare la misericordia di Dio, per gustare il suo perdono sanante e rinnovante. Non si tratta però semplicemente del fatto che io venga perdonato, ma di accogliere il perdono di Dio per farne risplendere la presenza, nella sua dimensione di misericordia e di amore incondizionato, in questo mondo. E dove può splendere la sua presenza di Padre se non nello spazio della vita fraterna?

 

“Io sono in mezzo a loro”.

La promessa di Gesù che chiude il vangelo di Matteo: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (28,20), se accostata all’altra: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro” (18,20), acquista un significato insospettato. L’Emmanuele, il Dio-con-noi, che tutto il vangelo di Matteo narra come la storia di Gesù, compimento di tutte le Scritture, si sperimenta ormai nello spazio della vita fraterna, luogo per eccellenza di riconciliazione vissuta. A differenza di Luca, che esalta la prima comunità cristiana con accenti idilliaci (cfr. At 4,32), Matteo presenta la fraternità in modo fin troppo realistico, segnata da ferite e tensioni, esposta alle rotture e agli abbandoni (cfr. Mt 18). Ciò che più conta, Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le ferite che vengono assunte e curate. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori.[4]

Un particolare del testo matteano passa fin troppo inosservato. L’espressione: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4), in realtà suonerebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è il motivo della sua grandezza. Così sarà per i discepoli. Solo chi si umilia, cioè chi diventa come i bambini che non ripongono speranza in alcun statuto sociale, chi perde ogni importanza che sappia di questo mondo, può accedere alla rivelazione di Gesù. Gesù ha posto tutta la sua grandezza nell’amore del Padre, i discepoli nell’amore di Gesù e in nient’altro. La fraternità che ne consegue, fondata sulla fede in Gesù Salvatore, parlerà di quell’amore. La verità di quell’amore si giocherà proprio nel fatto di cedere davanti al peccatore, senza acconsentire al suo peccato, perché si custodisca la possibilità di gustare il perdono del Signore tutti insieme, anche se non negli stessi tempi. Ciò che faceva dire a s. Francesco di Assisi di fronte alla molestia di un fratello che non ci sopporta: “E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori” (FF 234).

La santa associazione: l’umiltà della carità.

La ragione profonda di questa mescolanza necessaria tra giusti e peccatori nella Chiesa la troviamo nella parabola della zizzania, dove risulta significativo il contrasto tra la pazienza del padrone e lo zelo dei servi. La pazienza del padrone è data dalla sicurezza della vittoria, mentre il falso zelo dei servi denuncia la ristrettezza delle vedute umane, l’impazienza dell’uomo che cede al potere della violenza, anche se camuffata da nobili ideali. Il rischio dell’uomo è appunto tra un’assunzione indebita di responsabilità (posizione rigorista) e un abbandono di responsabilità (posizione lassista), ambedue procedenti da una ipertrofia dell’io che tutto fagocita, anche se stessi, rendendoci nemici a noi stessi e incapaci di condividere i sentimenti di Dio. Se Dio non toglie di mezzo i malvagi è perché sono oggetto della sua pazienza. Ce ne illustra il mistero la liturgia della XVI domenica del tempo ordinario, ciclo A, allorquando collega la parabola con il brano di Sap 12,13-19 e il Sal 85.  Nel brano della Sapienza è detto: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini”, dove con ‘tale modo di agire’ si intende l’indulgenza e la mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, un ‘è necessario’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana. E se il Sal 85 riprende la lode di Dio compassionevole, pieno di amore, lo fa in un contesto preciso, che è il seguente: “Mio Dio, mi assalgono gli arroganti, una schiera di violenti attenta alla mia vita, non pongono te davanti ai loro occhi”. E continua: “Ma tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio fedele, volgiti a me e abbi misericordia: dona al tuo servo la tua forza”. L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della forza, tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’. Perciò, se Dio non toglie di mezzo i malvagi, è perché i giusti possano rivelare a loro la forza di Dio, che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere questa potenza di amore paziente di Dio.

È caratteristico che le preghiere antiche non si concludano nella richiesta dell’amore, come se tutto consistesse nel superare il nostro egoismo e la nostra chiusura, ma nella richiesta di verità, la verità professata davanti all’amore misericordioso del Padre di cui Gesù ci mette a parte. Valga per tutte la preghiera di s. Efrem, che nella liturgia bizantina viene proclamata nove volte al giorno durante la quaresima: “Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità. Dona invece al tuo servo uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità. Sì, Re e Signore, fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello, poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen”. Accedo alla verità di Dio nel suo immenso amore per noi quando mi riconosco peccatore, non avanzando alcun diritto su nessuno, non impedendo a nessuno di accedere alla stessa verità. La grazia della vita fraterna risiede qui.

Lo ricorda lo stesso s. Efrem: “La chiesa è un’assemblea di peccatori che si pentono”. Ancor più, e più misteriosamente, vale l’antica confessione di fede battesimale nella comunione dei santi. Non però che la Chiesa sia una comunione di santi, bensì che la comunione con le cose sante (come ancora oggi nella liturgia bizantina si proclama prima della comunione eucaristica: “le cose sante ai santi”) rende noi peccatori abitati dal Santo, noi peccatori abilitati alla santità del Santo che vuole la comunione con tutti i suoi figli. Così, la vita fraterna, che nell’assunto iniziale era presentata come la comunione di santi e peccatori, diventa la comunione nel Santo di peccatori che crescono nella capacità di gustare e vivere il perdono del loro Dio, Padre di tutti.  

Molto bella l’annotazione di un anonimo commentatore del passo di Mt 5,24 dove ci viene ingiunto di lasciare la nostra offerta all’altare e di riconciliarci prima con il nostro fratello: “Dio ti ordina di pregare per primo in vista della riconciliazione non con l’intenzione che tu ti sottometta ai suoi piedi, ma volendo che tu anteponga dinanzi ai tuoi occhi la gloria dell’umiltà”.[5]

Senza la percezione della bellezza di ciò che comporta per il nostro cuore il perdono di Dio non sarà possibile credere alla vita fraterna. “Senza la contemplazione che eleva, l’uomo non accetta di umiliarsi”[6]: è la tensione contemplativa alla base della vita fraterna.

p. Elia Citterio

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[1] Testo pubblicato in Consacrazione e Servizio, 2012/4, pp. 43-49, con il titolo: Comunione di santi e peccatori.

[2] I Padri del deserto. Detti. Introduzione, traduzione, note di Luciana Mortari, Roma 1972, Città Nuova, p. 301.

[3] Cipriano, Trattati. Introduzione, traduzione e note a cura di Antonella Cerretini, Roma 2004, Città Nuova (Collana di testi patristici, 175): La preghiera del Signore, 22, p. 164.

[4] Belle e pertinenti le riflessioni di fratel Luca, La rugiada e la croce. La fraternità come benedizione, Milano 2001, Ancora.

[5] Anonimo, Opera incompleta su Matteo, omelia 11, in La Bibbia commentata dai Padri, Nuovo Testamento 1/1, Matteo 1-13, Roma 2004, Città Nuova, p. 168.

[6] Callisto patriarca, Capitoli sulla preghiera, cap. 25, in La Filocalia, vol. 4, Torino 1987, Gribaudi, p. 310.