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“Io credo! Aiuta la mia incredulità”

Meditazioni sulla professione di fede

Itinerario Quaresimale (dal 5 Marzo al 2 Aprile 2012)

Noi abbiamo dimenticato che la bellezza della fede alla quale siamo stati generati non parla primariamente della tensione del nostro cuore, ma dello splendore della santità della Chiesa che riverbera nel nostro cuore. Parla cioè di un’esperienza di vita che ci precede e ci accompagna e che ci viene partecipata. 

Itinerario quaresimale. Rimini, 26 marzo 2012, Chiesa di Sant’Agostino. Meditazione di p. Elia Citterio sulla professione di fede.


 

Quale potrebbe essere l’elogio più bello per una comunità di credenti? Per conto mio vorrei che si ripetesse per la comunità in cui vivo quello che viene riportato della comunità hassidica di Mezerici, in Volinia, allora Polonia. Al rabbino che l’aveva visitata chiedono: “Cosa avete scoperto laggiù?”.

– Ho scoperto che Dio esiste, che è di questo mondo.

– Ma questa è una verità che qui sanno tutti!

– No, rispose l’uomo di Dio, tutti lo dicono; a Mezerici, lo sanno!

La Chiesa è appunto il luogo del sapere di questo tipo. Professando la fede nella Chiesa non parliamo semplicemente di noi che crediamo o che vogliamo credere; parliamo di partecipare alla gioia di quel sapere della Chiesa che vive eternamente dell’amore del suo Dio, nato, morto e risorto per noi, che ha svelato il Volto del Padre dandoci il suo Spirito. L’esperienza viva della presenza di Dio nelle nostre comunità non è sostituibile da nessun tipo di organizzazione, di pastorale, di impegno nel mondo. È la possibilità stessa dell’esperienza dell’incontro con Dio che fonda il nostro stesso essere, il nostro relazionarci come persone, la nostra stessa percezione del mondo.

La santa Chiesa[1]

La formulazione della fede che si è scelto di esplicitare appartiene al Simbolo degli apostoli, di cui conosciamo almeno tre redazioni: una, antichissima, a schema trinitario; una seconda, a cavallo del III secolo, detta Romana, perché professata dalla Chiesa di Roma e una terza, più recente, il cosiddetto textus receptus occidentalis. Solamente in questa redazione più recente troviamo la formula: ‘credo nella comunione dei santi’, che il Simbolo niceno-costantinopolitano, il Simbolo Atanasiano e tutti i Simboli di origine orientale (Antiochia, Gerusalemme, Alessandria, Costantinopoli) ignorano.

Confessare ‘la santa Chiesa’, nella più antica formulazione, secondo alcuni, non costituirebbe un particolare articolo di fede, ma indicherebbe il luogo nel quale lo Spirito Santo opera la remissione dei peccati oppure, secondo altri, indicherebbe il luogo nel quale viene professata la fede in Dio Padre, in Dio Figlio e in Dio Spirito Santo.[2] Si confessa la Chiesa santa, nella quale agisce lo Spirito Santo, che ottiene la remissione dei peccati e realizza la comunione dei santi. Attorno alla santità della Chiesa si definiscono le altre caratteristiche: qui, nel Simbolo apostolico, la cattolicità, alla quale si aggiungono, negli altri Simboli, l’unicità e l’apostolicità. L’assenso della fede nella Chiesa comporta così una doppia esplicitazione: credo nello Spirito Santo che opera nella Chiesa  e credo nella Chiesa nella quale agisce lo Spirito Santo che realizza la comunione dei santi e ottiene la remissione dei peccati.[3]

Quello che è interessante osservare è che fin dall’inizio la Chiesa viene proclamata santa, abbinando poi la comprensione della santità alla comunione dei santi e alla remissione dei peccati.[4] Penso sia questa nota della Chiesa, la santità, la meno godibile oggi per il nostro universo interiore, tenendo anche conto del disagio, intellettuale e emotivo, che oggi proviamo da credenti in Cristo nei confronti della Chiesa, come non potessimo più abbandonarci al sogno di una bellezza rassicurante. Cosa ci impedisce di proclamare le stesse cose dei nostri padri nella fede, nello stesso loro spirito? Cosa ci è venuto meno? Vorrei come cercare di rispondere a queste domande rendendo ragione dei nessi che legano la santità alla comunione dei santi e alla remissione dei peccati.

Per dare da subito l’idea della distanza che ci separa dalla comprensione dei nostri padri voglio riportare due testi liturgici. Anzitutto, un  antico prefazio ambrosiano per la festa della dedicazione della chiesa cattedrale che noi oggi faremmo fatica a sottoscrivere così come è stato tramandato:

“Il Signore Gesù ha reso partecipe la sua Chiesa della sovranità sul mondo che tu gli hai donato e l’ha elevata alla dignità di sposa e regina. Alla sua arcana grandezza si inchina l’universo perché ogni suo giudizio terreno è confermato nel cielo. La Chiesa è la madre di tutti i viventi, sempre più gloriosa di figli generati a te, o Padre, per virtù dello Spirito Santo. È la vite feconda che in tutta la terra prolunga i suoi tralci e, appoggiata all’albero della croce, s’innalza al tuo Regno. È la città posta sulla cima dei monti, splendida agli occhi di tutti, dove per sempre vive il suo Fondatore”. [5]

L’ultima strofa dell’inno delle lodi del comune degli apostoli, nel breviario monastico, canta:

“Su voi, resi saldi in eterno,

s’edifica e innalza la Chiesa

che eterna, riversa sul mondo,

da Dio, come un fiume, la pace”.

Una visione di Chiesa del genere suppone una sensibilità e una capacità percettiva luminosa, tipiche di una esperienza di vita piena, sovrabbondante, secondo la promessa di Gesù: “Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Noi abbiamo dimenticato che la bellezza della fede alla quale siamo stati generati non parla primariamente della tensione del nostro cuore, ma dello splendore della santità della Chiesa che riverbera nel nostro cuore. Parla cioè di un’esperienza di vita che ci precede e ci accompagna e che ci viene partecipata. Si ripete l’esperienza di un bambino nella sua famiglia. Siccome non è lui a scegliere di venire al mondo, l’unica possibilità che ha di vivere la vita è quella di respirarla dall’amore di sua madre che mentre glielo comunica lo fa vivere rendendolo capace a sua volta di amare. Cristiani si diventa non per nascita ma per rinascita! In primo piano non ci sono io che credo, ma la fede della Chiesa di cui io godo divenendone partecipe insieme a tutti gli altri.

Nel dialogo con cui si apre il rito battesimale nella chiesa latina, alla domanda: “Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?”, il catecumeno risponde:  “il battesimo” oppure “la fede” oppure “la vita eterna”, ad indicare che in un certo senso si tratta di sinonimi.[6] Ma appunto si chiede alla Chiesa di Dio la fede. Stesso senso ritroviamo nella preghiera prima della comunione eucaristica allorché il sacerdote supplica: “Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace», non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”.

Riferirsi alla fede della Chiesa significa intuire il mistero della sua santità. Santità, che non parla primariamente di noi, ma del dono di Dio che ci raggiunge e ci costituisce, segno perenne dell’alleanza di Dio con l’umanità che nulla e nessuno potrà mai distruggere. La prospettiva è quella assunta da Paolo nella sua lettera ai Romani: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? … Chi ci separerà dall’amore di Cristo? … Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 31.32.35.38). È la visione accordata a chi conte mpla l’icona della Trinità di Rublev (1370-1430)[7]: saper cogliere una profondità di eternità nel dramma della storia, la profondità dell’eterno amore di Dio per l’uomo.

Possiamo tentare di accostarci al mistero della santa Chiesa indissolubilmente unita al suo Signore lasciandoci trasportare dalle suggestioni della festa liturgica del battesimo di Gesù contemplato nell’ottica dell’invocazione: “Dio onnipotente ed eterno, che nel Natale del Redentore hai fatto di noi una nuova creatura, trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità” (colletta, sabato 12 gennaio).

L’immagine di fondo è quella delle nozze: Dio sposa l’umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei Magi, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato a ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione nella solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata che ne scaturisce è che oramai l’umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l’umanità, con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio di Dio, che se l’è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato.

Al momento del battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Mt 3,17). La testimonianza della voce verte attorno a quel Figlio, l’amato, da scoprire, da accogliere, da incontrare, da seguire. In altri due passi delle Scritture si parla del ‘figlio, l’amato’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gn 22,2, quando Dio chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora nella parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘l’amato, il prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. Con la voce del Padre sono compiute tutte le Scritture perché la frase è costruita con i testi di Gn 22,2, Is 42 e Sal 2,7, rispettivamente presi dalla Torah, dai Profeti e dai Salmi.  

È però l’aggiunta “in te ho posto il mio compiacimento” a svelare tutta la profondità del mistero. Si potrebbe tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’, nel senso che tutto l’amore del Padre è per il Figlio e tutto l’amore del Figlio è per il Padre. Ma il risvolto tutto speciale del mistero allude a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. L’allusione a Is 42,1 identifica il Messia nella sua natura di servo. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati! Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. La confessione di fede nella Chiesa fa memoria di questa suprema verità.

Ma si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. Come dice Giovanni Battista di Gesù: è lui il più forte, colui che ha detronizzato il diavolo dal suo potere sugli uomini; con la sua estrema mitezza e umiltà, non ha offerto alcun appiglio nella sua umanità al nefasto potere del diavolo. C’è un’espressione evangelica particolarmente illuminante a questo riguardo. Il cap. 14 di Giovanni, che riporta la promessa della dimora di Dio nel cuore dell’uomo che crede e ama il Figlio di Dio, si chiude con le parole: “…viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31).  La frase che viene tradotta: ‘contro di me non può nulla’, in greco suona più semplicemente: ‘in me non ha nulla’, espressione che fa da contrappunto all’altra ‘chi ha i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama’ (Gv 14,21).  Il comandamento non ha a che fare con un imperativo morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé il comandamento di Dio non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio lo lascia indenne, vale a dire il demonio non può rapirgli quell’amore che aveva giustificato la venuta e la testimonianza di Gesù presso gli uomini, per cui la verità di Dio risplende in lui rivelando agli uomini l’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli. La Chiesa è memoria della verità della solidarietà con l’umanità da parte di Dio e nello stesso tempo è sacramento dell’umanità redenta, dell’umanità ormai conquistata all’amore di Dio. Senza dimenticare che quell’amore, l’amore di Gesù per il Padre e gli uomini e l’amore dei discepoli per Gesù e tutti i fratelli, si manifesta nel contesto del ‘processo’ del mondo a Gesù e ai suoi discepoli. La giustizia si rivela se non acconsente all’ingiustizia; l’amore si rivela se non si fa mortificare dall’odio o dall’invidia. Gesù diventa ‘il re della gloria’ dall’alto della croce. Quando Pietro, nella sua prima lettera, parla di coloro che domandano ragione ai cristiani della speranza che è in loro, allude proprio a questo ‘processo’ del mondo contro i seguaci di Gesù. Non allude alle possibili discussioni sulla fede, ma alle sofferenze che il seguace di Gesù patisce per testimoniare l’amore di Dio agli uomini, non cedendo all’ingiustizia e non venendo meno alle ragioni di questo amore. La testimonianza comunque ha valore se viene praticata con dolcezza e rispetto, nella coscienza cioè di non abbandonare quella benevolenza di amore che Dio ha testimoniato in Gesù per gli uomini. Di tale benevolenza la Chiesa è segnale e testimonianza credibile quando fa trasparire la ‘benedizione’ di Dio sull’umanità, che è Gesù, vivo e operante nel cuore dei discepoli, resi dalla forza dello Spirito Santo ‘concordi, partecipi degli stessi sentimenti, fraternamente affettuosi, misericordiosi, con un sentire umile e sempre benedicenti’ (cfr. 1Pt 3,8sgg).

Credo la comunione dei santi[8]

In cosa ravvisare la santità della Chiesa? Nella formulazione del Simbolo la santità è ravvisata nella comunione dei santi e nella remissione dei peccati. Ambedue questi articoli sono intesi come concretizzazioni del modo con cui lo Spirito Santo agisce nella Chiesa e ambedue rivestono significato sacramentale. La Chiesa si definisce in base alla sua liturgia. Nell’antico sentire, la comunione dei santi non si riferiva alla santità delle persone, ma ai santi doni, alla comunione eucaristica, mentre la remissione dei peccati alludeva al sacramento del battesimo con il quale moriamo al peccato per vivere della vita del Figlio di Dio, innestati nel suo corpo che è la Chiesa, che vive del suo Spirito. L’immagine evocata è quella della nascita della Chiesa dal costato di Cristo, ferito sulla croce, da cui uscirono sangue e acqua, simboli appunto dell’eucaristia e del battesimo. Come Dio crea la donna dal costato di Adamo nel sonno, così viene formata la Chiesa dal costato di Cristo nel sonno della morte.[9]

La santità è così collegata al nutrirsi dell’eucaristia, all’essere abitati dal Santo che ci incorpora e ci fa vivere del suo Spirito. Tanto che la preghiera non ha altro obiettivo che di domandare la perfetta dimora nel Cristo, come spiega Tertulliano quando commenta l’invocazione del Padre nostro ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’: “itaque petendo panem quotidianum perpetuitatem postulamus in Christo et individuitatem a corpore eius” , che potremmo tradurre: quando chiediamo il pane quotidiano, che è Cristo, noi domandiamo di rimanere costantemente e per sempre in Cristo e di non essere mai separati dal suo corpo, cioè di vivere in modo da non stare mai lontani dalla mensa eucaristica e di godere della piena intimità con Lui in modo da sperimentare compiutamente il mistero della fraternità che da Lui prende origine. Oppure, come recita la preghiera dopo la comunione della quinta domenica di quaresima: “Dio onnipotente, concedi a noi tuoi fedeli di essere sempre inseriti come membra vive nel Cristo poiché abbiamo comunicato al suo corpo e al suo sangue”. Se è vero che l’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, rivelatasi in Cristo e condivisa dai suoi discepoli, che la Chiesa custodisce, ha rivoluzionato la percezione interiore delle prime generazioni cristiane a tal punto da costituire la radice di una nuova umanità di cui essere fermento nel mondo intero, allora l’esperienza significativa della vita risulta essere proprio la conoscenza di quel ‘Figlio, l’amato’, che ci apre gli spazi di una sconfinata dilezione, ricevuta e condivisa.   È l’eredità della Chiesa, che celebra l’eucaristia, per il mondo.

Dalla comunione al Santo nel sacramento dell’eucaristia si passa inevitabilmente alla comunione tra i santi che allarga la percezione della Chiesa alla sua dimensione cosmica. Come ricorda la Costituzione dogmatica conciliare Lumen Gentium, al n. 2, tutti i giusti si troveranno uniti presso il Padre nella Chiesa universale.[10] La Chiesa, nella santità dei suoi santi, irradia sul mondo la santità del Santo che conquista al suo amore i suoi figli fino alla fine del mondo quando non sussisterà altro che lo splendore del suo amore goduto e condiviso. Si tornerà allora a vedere la luce del primo giorno della creazione, la luce della santità di Dio che era stata oscurata, luce che il Figlio di Dio ha fatto nuovamente risplendere. Il mondo considerato in quella luce è la Chiesa in divenire perché su tutto e su tutti prevalga l’amore del Padre.

Da questo punto di vista chiesa e mondo non sono due realtà contrapposte. Dio ama il mondo perché la vocazione del mondo è di diventare Chiesa e la Chiesa è posta nel mondo senza essere del mondo (cfr. Gv 15,19; 17,11).[11] Se la missione del Figlio consiste nel “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52),  mondo è ciò che si oppone alla realizzazione dell’unità, ciò che contrasta la dinamica divina in atto nella storia, il mistero cioè di riconciliazione tra Dio e l’uomo in Cristo. I comandamenti di Gesù sono proprio in funzione della rivelazione al nostro cuore di quel mistero.  Se accogliamo lo Spirito, che lavora alla realizzazione di quel mistero, il mondo in noi si ritira o, meglio, si fa chiesa, cioè sempre più e sempre più estesamente si fa luogo di trasparenza dell’amore di Dio per tutti, in Cristo. Essere inviati al mondo senza essere del mondo allude esattamente a questo. La fede nella Chiesa ha a che fare con la scoperta del Regno nell’agire quotidiano, nella trasparenza del quotidiano che si apre sul mistero del Regno. La realtà del Regno, a cui la Chiesa rimanda finché dura la storia, sta appunto alla confluenza di questa trasformazione del mondo in Chiesa. Trasformazione, che vale per il mondo ma vale anche per la Chiesa perché lei stessa non si confonda con il Regno di cui è solo sacramento. Eppure, in quel ‘solo’ sta tutta la sua gloria. Ma dove questa gloria si fa visibile?

Se la Chiesa deve al mondo, come suggerivo sopra, la conoscenza del Figlio di Dio, ha solo un modo per mostrarlo. Come direbbe San Francesco di Assisi: avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione[12], che non mira ad altro se non a realizzare la fraternità di tutta la famiglia umana radunata nell’unica famiglia di Dio. La rivelazione di Dio, che costituisce il grande annuncio della nostra fede, la buona novella, si riassume tutta in questo: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν). Continuando: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà ancora della Sua presenza. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella di compiere il mistero della riconciliazione rivelato a noi in Cristo. È alla Chiesa, come si legge nella seconda lettera ai Corinti: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (2Cor 5,18), che viene affidato il ministero della riconciliazione. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù:  «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace (“Egli infatti è la nostra pace“, Ef 2,14). La Chiesa, depositaria e custode delle segrete intenzioni di Dio per l’umanità, chiama tutti i suoi figli a concorrere alla realizzazione di questa opera. È il suo criterio di discernimento: giudica ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Tanto che, sempre secondo 2Cor 5,18, alla Chiesa  è affidata anche la ‘parola della riconciliazione’. Il testo direbbe più propriamente che è posta nella Chiesa la parola della riconciliazione. Non però la parola da dire, ma la parola come fondamento dell’essere, come le ragioni che convincono il cuore della realtà di quella pace ottenuta che, per sua stessa dinamica interna, tende a coinvolgere tutti e tutto. È la parola come forza d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come rivelazione del segreto della felicità nel godere quel ‘suo far grazia di Sé a noi’ in modo da renderci capaci, ormai solidali con i suoi sentimenti, di estendere a tutti la condivisione di questo segreto. In effetti, non si tratta di un compito, ma di una rivelazione da vivere in tutta la potenza del suo dinamismo incontenibile.

La direzione di quel dinamismo di rivelazione, di cui la Chiesa è costituita e porta responsabilità di fronte al mondo, si intravede nella convergenza di due movimenti potenti, che si sostengono a vicenda. Li definisce con precisione il vangelo di Giovanni illustrando il mistero della figura di Gesù. Da una parte, Gesù rivela a Nicodemo che: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16); dall’altra, nell’imminenza della passione di Gesù, l’evangelista interpreta in senso profetico la cinica dichiarazione di Caifa: “… Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,51-52), realizzando così la profezia che Dio avrebbe mostrato la sua santità quando avrebbe raccolto il popolo, l’avrebbe purificato e gli avrebbe dato uno spirito nuovo (cfr. Ez 36,22-27). I due movimenti, mostrare la grandezza dell’amore di Dio al mondo e riunire i figli dispersi, dicono l’opera della riconciliazione in atto nella storia di cui la Chiesa porta significazione e responsabilità. In questo è all’opera lo Spirito che agisce nella Chiesa: rimettere i peccati significa innestare gli uomini nel corpo di Cristo e farli vivere del suo Spirito che li associa a quel doppio movimento: svelare l’amore del Padre e riunire la famiglia umana.

Credo la remissione dei peccati[13]

Tutta la liturgia proclama solennemente che l’opera precipua dello Spirito Santo è la fraternità realizzata. Il canone eucaristico, al momento della preghiera di epiclesi, recita: “Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”; “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”[14]. Qual è la virtù specifica dell’eucaristia, si chiede Agostino? “La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti a essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo”[15]. L’amen che rispondiamo alle parole ‘Corpo di Cristo’ proferite dal sacerdote al momento della comunione significa: sì, riconosco di far parte di quel corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l’unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell’agire del cuore, il frutto agognato. Qui riceve tutta la sua potenza il comandamento dell’amore al prossimo. Ma senza la remissione dei peccati sarà mai possibile vivere quella comunione? Ecco allora l’altro articolo del Simbolo: credo nella remissione dei peccati.

Se per raffigurare lo Spirito l’evangelista Giovanni, nella scena del calvario, usa l’immagine dell’acqua che fluisce dal costato di Gesù – per suo mezzo l’uomo nasce dall’alto, dall’Uomo levato in alto (cfr. Gv 3,3.7) – nell’apparizione del Risorto agli apostoli la sera del giorno di Pasqua, fa dire a Gesù, dopo aver mostrato loro le mani e il costato: “«Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro:  «Ricevete  lo Spirito  Santo.  A coloro a cui  perdonerete i  peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»” (Gv 20,21-23). Lo Spirito soffiato[16] sui discepoli produce in essi una vita nuova. Dallo Spirito che scendeva dal cielo nacque l’Uomo-Dio, l’unico Dio generato; ora nasce la nuova comunità umana, quella dei figli di Dio, primizia del suo regno. Con il dono dello Spirito e la conseguente capacità di amare fino all’estremo, disposti a morire per dare molto frutto (cfr. Gv 12,24), viene portata a compimento la creazione dell’uomo.

Perché – ci possiamo chiedere noi – il dono dello Spirito Santo è direttamente collegato alla remissione dei peccati? Perché in quell’esperienza si compie la profezia messianica di Geremia: “Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: ’Conoscete il Signore’, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,33-34). “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”: ecco i due passaggi nevralgici. Quel perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il Signore, finalmente conosciuto nel suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere l’esperienza di quell’amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli. Come suggerisce la liturgia della quinta domenica di quaresima, ciclo B, la Chiesa è la risposta al desiderio dei pagani: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21), domanda che introduce l’ora della passione e della glorificazione, l’ora in cui Gesù rivelerà la portata del suo nome, il Salvatore. Quella rivelazione è la vita della Chiesa e la Chiesa non ha altro compito che di confessare a tutti e a tutto il mondo, sempre e costantemente, quella rivelazione. In ciò partecipando all’angoscia santa di Gesù, di cui danno testimonianza i vangeli, di arrivare a tutti e di aver fretta perché tutto il suo segreto sia svelato (cfr. Mc 1,38).

Evidentemente, la remissione dei peccati allude primariamente al battesimo, con il quale veniamo innestati nel corpo di Cristo che è la Chiesa per vivere del suo Spirito.[17] Ma allude anche a quel processo continuo di remissione dei peccati per partecipare sempre più estesamente, sempre più intensamente e sempre più radicalmente alla comunione con Dio che vuole la salvezza di tutti. Il gesto del soffiare lo Spirito sui discepoli da parte di Gesù non comporta solo l’assicurazione alla chiesa che potrà, nel suo nome, esercitare il potere sacramentale di rimettere i peccati. Il gesto allude soprattutto all’essenza stessa dell’esperienza cristiana. Come possiamo fare esperienza dell’incontro con Dio? Lo dicevo poc’anzi: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32), “Dio ha fatto grazia di sé a voi in Cristo”.  Quando nella preghiera del Padre nostro domandiamo: ‘rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, domandiamo prima di tutto di diventare così coscienti del nostro essere peccatori da poter gustare l’amore perdonante di Dio ogni giorno, a tal punto da condividerne l’esperienza con tutti. In effetti, più questa esperienza è profonda e veritiera, più possiamo accedere a quello stile di vita divina che corrisponde al far grazia di noi a tutti in Cristo, nell’imitazione di Dio, e così ritrovarci veri figli dell’Altissimo. Ce lo ripete autorevolmente Cipriano di Cartagine che così commentava la richiesta del perdono dei debiti vicendevoli:

“Dopo queste invocazioni preghiamo dicendo: “E rimetti a noi i nostri debiti, così come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Dopo il conforto del cibo si richiede il perdono del peccato, perché viva in Dio chi è nutrito da Dio … In realtà com’è necessario, com’è previdente e salutare essere ammoniti del fatto di essere peccatori, noi che siamo spinti a pregare per i nostri peccati, perché l’anima si ricordi della sua coscienza, mentre domanda perdono a Dio! Nessuno si compiaccia, come se fosse innocente e non cada ancora più in basso, nel vantarsene; anzi è ammonito e istruito che pecca quotidianamente, perché gli è ordinato di pregare quotidianamente per i suoi peccati”.[18]

Riconoscersi peccatori è la condizione per gustare la misericordia di Dio, per gustare il suo perdono sanante e rinnovante. Non si tratta però semplicemente del fatto che io venga perdonato, ma di accogliere il perdono di Dio per far risplendere la Sua presenza, nella sua dimensione di misericordia e di amore incondizionato, in questo mondo. Il perdono, che è sempre finalizzato a ‘riunire i figli di Dio che erano dispersi’, agisce nel senso di godere di un’umanità dall’alto, che comporta l’assunzione di uno stile di responsabilità nell’agire. È la responsabilità che si traduce nell’accettazione del compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Questo, ad esempio, fa sì che il valore dell’agire apostolico non dipenda da ciò che si fa, come se fosse più importante una cosa piuttosto che un’altra, ma più semplicemente dal vivere quello che si fa, qualunque cosa sia, nella coscienza di quel mistero. Non solo, ma un’opera risulta evangelica ed evangelizzante non tanto quanto al contenuto bensì rispetto alla modalità di compierla, in diretta dipendenza dalla trasparenza della riconciliazione vissuta. Non basta annunciare una verità, se poi la difesa di questa verità risulta mondana. E questo è anche il motivo per cui, davanti a Dio, non vale minimamente la differenza dei carismi o l’importanza delle cose: tutto è banale e tutto è importante, perché ciò che conta è la coscienza di quel compito, indipendentemente dalle cose nelle quali siamo implicati. La Chiesa non è allora che la parola di riconciliazione che mira allo splendore di un’umanità dall’alto.

Del resto è caratteristico che le preghiere antiche non si concludano nella richiesta dell’amore, come se tutto consistesse nel superare il nostro egoismo e la nostra chiusura, ma nella richiesta di verità, la verità professata davanti all’amore misericordioso del Padre di cui Gesù ci mette a parte. Valga per tutte la preghiera di s. Efrem, che nella liturgia bizantina viene proclamata nove volte al giorno durante la quaresima: “Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità. Dona invece al tuo servo uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità. Sì, Re e Signore, fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello, poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen”. Accedo alla verità di Dio nel suo immenso amore per noi quando mi riconosco peccatore, non avanzando alcun diritto su nessuno e non impedendo così a nessuno di accedere alla stessa verità.

Chi abilita noi peccatori a essere come il Figlio? Lo Spirito che Gesù ci invia. Perciò egli ci è inviato a doppio titolo:

– per portarci ad una coscienza sempre più viva e bruciante del nostro essere peccatori davanti a Dio e introdurci alla conseguente esperienza del perdono che ci inonda e ci rinnova continuamente in Cristo;

– per abilitarci a vivere in Cristo, secondo lo scopo dell’agire stesso di Dio: fare di tutti una cosa sola, finché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,28).

Proprio come canta l’inno riportato all’inizio: “Su voi, resi saldi in eterno, s’edifica e innalza la Chiesa che eterna, riversa sul mondo, da Dio, come un fiume, la pace”. Ogni volta che noi non rimettiamo i debiti a qualcuno, gli impediamo di poter fare esperienza dell’amore che Dio ha per lui. Tale è la solidarietà di sentimenti tra Dio e i suoi figli! Una responsabilità del genere, nel mondo, è tipica dell’esperienza cristiana. Qui si coglie la potenza del lievito evangelico attivo nel mondo di cui la Chiesa è portatrice.

Massimo Confessore nel suo celebre commento al Padre nostro insiste sulla cosa in modo addirittura scioccante. Proprio rileggendo il Padre nostro con il risalire dal fondo al principio, ha un’intuizione geniale. Spiegando la richiesta “non ci indurre in tentazione” dà questa interpretazione:

“La Scrittura rivela infatti con questo che chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri… È detto infatti: Se voi non rimettete agli uomini i loro peccati, neppure il Padre vostro celeste li rimetterà a voi. Così non soltanto riceveremo il perdono delle colpe commesse, ma, oltre a ciò, vinceremo la legge del peccato, perché non sarà permesso che noi ne facciamo l’esperienza”[19].

Siamo indotti in tentazione, siamo provati dal male e al male fin tanto che non rimettiamo i debiti ai nostri debitori. L’espressione è molto forte. Ci dice che l’uomo, con un giusto giudizio di Dio, sarà messo in balia della tentazione e del maligno al solo scopo di imparare a purificarsi dalle sue colpe sopprimendo il suo atto di accusa agli altri. Se un uomo potesse ritirare fino in fondo il suo dito puntato, ogni atto di accusa contro un altro uomo, non subirebbe alcuna tentazione al male. Massimo Confessore ci dice che non subiremo tentazioni se noi avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché il cuore sarà mite e umile come quello di Gesù, Lui che era abitato dallo Spirito Santo, e che poteva dire: “Venite a me …  imparate da me, che sono mite e umile di cuore … ” (cfr. Mt 11,28-30). In un famoso testo della tradizione romena si legge: «Chi si farà compagno delle virtù divine, questi avrà vita ed esistenza imperitura, poiché la radice della bontà è la dolce intimità con Dio».[20] Se il nostro agire e il nostro parlare, anche nella difesa della verità di fronte al mondo, non pescano e non rimandano a quella esperienza, non sono allusive di quella realtà, non trascinano al desiderio di quella realtà, sono ancora gesti e parole veri? Senza questa verità, i cuori possono intendersi, il mistero di Dio può apparire nella sua bellezza, la chiesa è ancora sacramento godibile di salvezza?

La chiesa cattolica[21]

Al significato primitivo di universale[22] si aggiunse quello di ‘la grande Chiesa’ in contrapposizione alle sette eretiche. Nella sua autocomprensione la Chiesa si definisce cattolica secondo quattro aspetti strettamente interdipendenti. Come testimone della Tradizione riporto la definizione di Cirillo di Gerusalemme: “Si chiama cattolica perché si diffonde per tutto il mondo da un confine all’altro della terra; perché insegna universalmente e con esattezza tutti i principi che giovano alla conoscenza degli uomini nelle cose visibili ed invisibili, celesti e terrestri; perché è subordinato al suo culto tutto il genere umano, capi e sudditi, dotti e indotti; perché sana e cura da per tutto ogni specie di peccati dell’anima e del corpo che si commettono. Essa ha in sé ogni conclamata virtù nelle opere, nelle parole e in ogni carisma spirituale”.[23]

Rispetto alla cattolicità vorrei sottolineare solo due aspetti, in diretta dipendenza dalla comunione dei santi e dalla remissione dei peccati. Anzitutto il fatto che la cattolicità (secondo l’accezione greca del termine, καθ᾿ ὅλον, ‘secondo l’insieme’, tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza) allude alla dimensione familiare con Dio che attraversa tutti i tempi, sebbene la percezione di essere a casa propria nella Chiesa non sia così condivisa: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19). Nella serie dei riti di preparazione al battesimo, una volta verificata la serietà dell’impegno dei candidati, si iscrivevano i nomi in un certo registro, chiamato ‘il libro della vita’ (cf Fil 4,3; Ap 3,5; 21,27): era l’iscrizione alla Chiesa celeste, il ‘libro della cittadinanza’ dove sono registrati i cittadini di Sion. Eloquenti le bellissime immagini del salmo 87: «Le sue fondamenta sono sui monti santi; il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose stupende, città di Dio. Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: “L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda”. Il Signore scriverà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”». Il salmo è una vera e propria epifania ecclesiale.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo, adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore.[24] Davanti a Gesù, Figlio di Dio e figlio dell’uomo – dice il salmo, eco del pensiero di Dio – chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, da qualsiasi parte proceda, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà del mondo e della storia. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione diventa divina. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio però è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

La conseguenza tutta speciale del fatto che il Vangelo è l’eredità delle genti, è che la cattolicità comprende anche il tempo. Anche il futuro fa parte della Tradizione. La nostra responsabilità apostolica si estende anche al futuro. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Se io sono così miope che per il mio schema mentale impedisco ad un altro, che ha un’altra storia, un’altra cultura, un altro orientamento, di poter accedere al vangelo, a tutto il vangelo, sono un cattivo testimone. L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Se il Vangelo è promesso alle genti, fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Figlio di Dio è manchevole, resta limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

Il secondo aspetto della cattolicità che vorrei sottolineare è l’universalità della missione della Chiesa quanto alle sue condizioni di esercizio. È importante intuire che il senso della testimonianza evangelica ruota attorno a tre elementi:

  1. a) richiama l’annuncio di cui ci è fatto dono. La frequentazione delle Scritture, nel respiro della grande tradizione della Chiesa, dà la coscienza di partecipare a una storia più grande di noi, fatti segno di una grazia che, se è data a noi, non è semplicemente per noi. La capacità di annuncio, che fa da perno alla missione, implica che il nostro porci nel mondo, prima che al mondo, esprima la gioia per qualcosa che ci è stato affidato.
  2. b) si alimenta con l’intercessione. La prima forma di responsabilità nei confronti dei nostri fratelli non è giocata davanti a loro, ma davanti a Dio. Esprime la tensione interiore di un movimento che pesca nel desiderio di Dio per la salvezza di tutti e che poi accompagniamo con la nostra testimonianza. L’intercessione è la condizione di fondo che permette di finalizzare ogni impegno e fatica a che all’uomo appaia esperibile la prossimità di Dio. Induce noi a non mescolare mai interessi nostri all’opera di Dio e favorisce negli uomini la ricevibilità dell’annuncio e della testimonianza di cui portiamo la responsabilità. Risponde alla domanda: è forse possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Come dice Paolo: “Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari” (1Ts 2,8). Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di offrire una rivelazione vissuta e vivente che può suscitare una risposta, un lasciarsi prendere dalla nostalgia di Dio, che già tutti portano racchiusa in loro.
  3. c) si traduce in testimonianza. Cosa è realmente in gioco nella testimonianza cristiana? Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, dopo aver ricordato loro le prove che li attenderanno, li esorta a non avere timore: temete Dio e non gli uomini! (cfr. Mt 10,26-28). Dicendo loro che “nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto, è come se dicesse: per quanto gli uomini cerchino di contrastarvi, se non cedete alla violenza ricordate al mondo che l’amore di Dio è più forte. L’amore di Dio non riguarda gli uni o gli altri semplicemente, ma gli uni in rapporto agli altri, perché a tutti venga partecipato e dentro ciascuno si accresca con la testimonianza degli uni per gli altri. Evidentemente Gesù non intende dire che  verremo risparmiati, che non subiremo violenza o morte. Vuol dire più concretamente che Dio sarà con noi anche nella morte, che Dio è implicato nella nostra morte e quello che c’era di segreto nella nostra vita sarà manifestato. Tanti esempi di testimoni moderni sono lì a ricordarcelo.

La tradizione insegna che la carità ha bisogno di un custode attento e intelligente. Così vedere i propri peccati e non accusare il fratello riassume la forza di una santa associazione: l’umiltà della carità. In questo si sostanzia l’arte divina del servire, un servire la propria vocazione all’umanità, le cui esigenze si possono esprimere così: custodire la bellezza delle creature condividendo il perdono ricevuto, liberare la dignità di tutti non mettendosi sopra nessuno. Allora la fatica comune del vivere, con la mortificazione delle nostre illusioni e dei nostri sogni di esibizione, si risolverà nella fatica delle beatitudini evangeliche, che  rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita. Così la Chiesa garantisce la vivacità della trasmissione della fede alle nuove generazioni, in tutto il mondo, per ogni tipo di persona e di storia personale.

Conclusione

A questo punto non posso non rammentare la bellissima descrizione della Chiesa riportata nella lettera agli Ebrei: “Quelli infatti che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro…” (Eb 6,4-5).  I credenti in Cristo vengono definiti come: gli illuminati (battesimo), quelli che hanno gustato il dono celeste (eucaristia), sono diventati partecipi dello Spirito Santo (vita nello Spirito), hanno gustato la buona [bella] parola di Dio e le meraviglie [energie – potenze] del mondo futuro. Questo perché, come riporta sempre la stessa lettera: “Poiché anche a noi, al pari di quelli, è stata annunciata una buona novella: purtroppo però a quelli la parola udita non giovò in nulla, non essendo rimasti uniti grazie alla fede con coloro che avevano ascoltato” (Eb 4,2). Solo chi resta unito (συγκεκερασμένους, dal verbo συγκεράννυμι, com-misceo, coniungo) a coloro che hanno ascoltato ottiene la visione, arriva alla salvezza. È la dimensione ecclesiale della fede che si è tradotta in vita condivisa.

Proprio la condivisione di fondo nella percezione del mondo di Dio che irrompe nella nostra storia, nella capacità di aprire il tempo all’eterno, nello stupore di fronte all’agire di Dio nel tempo e nella storia, ci fa difetto oggi! Ci fa difetto il gusto delle meraviglie, delle energie del mondo futuro, che otteniamo con la comunione dei santi e la remissione dei peccati. La tendenza rivendicativa individualistica della sensibilità odierna sembra il male di fondo che può venir guarito dall’esperienza ecclesiale della confidenza in Dio. L’eliminazione di ogni pretesa di innocenza nei confronti di Dio purifica quella miriade di pretese che abbiamo l’uno verso l’altro e che intralciano il buon corso dei rapporti umani. Più l’uomo si scopre peccatore, meno accampa pretese verso il mondo e gli uomini.

Il percorso è quello tracciato dalla preghiera del Padre nostro dal fondo al principio. Non ci accorgiamo che quello che diciamo per primo in realtà è il punto verso cui aneliamo: liberi dal male e dalla tentazione, perché abbiamo un cuore risplendente del perdono dato ai nostri fratelli, per la misericordia ricevuta e per essere un unico corpo con il Signore Gesù che è diventato nostro cibo, sapienza e gusto, capaci di compiere il volere di Dio vivendo il mistero della fraternità nella potenza dello Spirito, facendo risplendere in tutta la sua gloria la santità di Dio, che si rivela come Padre di noi tutti, come Padre del Figlio suo Gesù Cristo. Ed è appunto in lui che possiamo compiere tutto il percorso per avere la vita, la vita vera, assunti in quell’amore di Dio che costituisce il dono divino della vita. Realizzare la propria vocazione significa contemporaneamente godere di quella pienezza alla quale si anela e godere di quella umanità senza divisioni di cui si ha nostalgia. Qui possiamo anche comprendere i sogni dell’uomo perché in Dio hanno le loro radici. Perché – e la cosa sorprende non poco – se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora vuol dire che ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che proprio Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare e che lascia in eredità alla sua Chiesa dandoci il suo Spirito.

Faremo nostra allora la risposta di Gregorio di Nissa alla domanda di cosa sia il regno di Dio:

«Altrove è detto: “Mi hai dato la gioia nel mio cuore” (Sal 4,8). E il Signore dice: “Il regno dei cieli si trova dentro di voi” (Lc 17,21). Qual è il regno dei cieli che secondo lui si trova dentro di noi? Di cos’altro si può trattare, se non della gioia che si riversa dall’alto nelle anime tramite lo Spirito? Essa è come l’immagine, la garanzia e la prova della gioia eterna di cui godranno le anime dei santi nel secolo che attendono»[25].

La gioia è in rapporto con il mistero della rivelazione del segreto di Dio: la comunione con gli uomini. Come la sua gioia è quella di stare con i figli degli uomini, così la gioia per gli uomini è stare con Dio. Ma non si può stare con Dio, che è Creatore e Padre, se non insieme a tutti i fratelli. L’opera dello Spirito Santo è l’edificazione di un’umanità che vive solidale e dal tendere a questo deriva la gioia: è questo il mistero della Chiesa, sacramento universale di salvezza.

Si realizza per i credenti il detto di Gesù: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14) intendendo, secondo una glossa bizantina[26]: tutti i discepoli, in quanto partecipi della vita del Messia, sono essi stessi ‘luce del mondo’. Non dice però: voi siete luci, ma voi siete luce, perché tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo.

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[1] CCC 823-829.

[2] Pietro SORCI, Le formulazioni simboliche, in Giovanni GIORGIO e Maria PASTRELLO, a cura, Credo la remissione dei peccati, Bologna 2011, EDB, p.28-29.

[3] Per una esposizione della ricchezza della tradizione nella confessione della fede si veda Santos SABUGAL, Io credo. La fede della Chiesa. Il simbolo della fede, storia e interpretazione, Roma 1990, Edizioni Dehoniane. In particolare, alla pag. 950, dove l’autore osserva che, mentre il primitivo interrogatorio battesimale professa di “credere nello (= eis + acc) Spirito Santo (che opera) nella (= en + ab) santa Chiesa”, riportando la citazione di Ippolito, Trad. Apost., 21, gli altri Simboli esprimono senza distinzione la fede “nello Spirito Santo” e “nella santa Chiesa”. La fede nella Chiesa equivale a credere nello Spirito Santo che agisce in essa. Più in generale, significa assentire personalmente alla rivelazione di Dio nella Chiesa. Sempre attuale l’indagine storica di John Norman D. KELLY, I simboli di fede della Chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso del credo, Napoli 1987, Edizioni Dehoniane.

[4] Per la messa a punto sugli articoli che qui più ci interessano, si veda a cura di Clara AIOSA e Giovanni GIORGIO, Credo la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, Bologna 2011, EDB e a cura di Giovanni GIORGIO e Maria PASTRELLO, Credo la remissione dei peccati, Bologna 2011, EDB.

[5] Citazione da Giacomo BIFFI, La sposa chiacchierata. Invito all’ecclesiocentrismo, Milano 1999, Jaca Book, p. 24.

[6] Si veda Maria CAMPATELLI, Il battesimo. Ogni giorno alle fonti della vita nuova, Roma 2007, Lipa, p. 55.

[7] Cfr. Daniel ANGE, Dalla Trinità all’Eucarestia. L’icona della Trinità di Rublev, Milano 1989, 2° ed., Ancora.

[8] CCC 946-959.

[9] Si vedano i bellissimi passi di Agostino sulla tipologia Adamo-Eva, Cristo-Chiesa, in Santos SABUGAL, Io credo. La fede della Chiesa. Il simbolo della fede, storia e interpretazione, Roma 1990, Edizioni Dehoniane, pag. 980-982.

[10] “Tutti i giusti, a partire da Adamo, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale”, LG 2.

[11] “Essere non di questo mondo non significa non essere nel mondo, non essere qui, ma significa avere un proprio essere interiore libero dalle cose di questo mondo, al di sopra delle cose di questo mondo, e dunque avere in sé il segno della vittoria sul mondo e vincerlo (Gv 16,33; Ap 2,21; 5,5). La trascendenza al mondo dell’essere e l’immanenza al mondo dell’azione: questo significa essere santi o essere non di questo mondo”: Pavel A. FLORENSKIJ, Il concetto di chiesa nella sacra Scrittura, a cura di N. VALENTINI e L. ZAK, Cinisello Balsamo MI 2008, San Paolo, p. 198.

[12] Regola bollata, X, in FF 104.

[13] CCC 976-983.

[14] Canone eucaristico II e III.

[15] S. AGOSTINO, Discorsi, II/1 (51-85), Roma 1982, Città nuova (Opere di sant’Agostino, edizione latino-italiana, parte III: Discorsi, vol. XXX/1), Disc. 57, 7, pp. 171-173.

[16] Il verbo ἐνεφύσησεν (insufflò, alitò), parola unica nel NT, ricorre due volte nell’AT: Dio, soffiandogli dentro il suo alito vitale, crea l’uomo (Gen 2,7; Sap 15,11) e fa risorgere le sue ossa aride (Ez 37,9). È lo Spirito della nuova ed eterna alleanza, stipulata nel perdono (Ger 31,33), che ci dà un cuore nuovo.

[17] Mi sembra interessante segnalare la riflessione di Robert SPAEMANN, La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, Siena 2008, Cantagalli, pagg. 172-175, dove, cercando di proporre una comprensione rinnovata del peccato originale, dice: “Che la salvezza di ogni uomo scaturisca dal sacrificio di Cristo, però, è un’idea la cui plausibilità è indissolubilmente collegata a una colpa collettiva. Ma questa colpa collettiva non consiste nel fatto che l’umanità sarebbe, per così dire, una comunità solidale nella colpa, ma consiste, al contrario, nel fatto che per causa di una colpa ha cessato di essere una comunità solidale. “Un tempo eravate non popolo” (1Pt 2,10) dice san Pietro, e Isaia, citato da Pietro: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada” (Is 53,6). Il peccato originale non è una qualità positiva che ogni uomo eredita dai suoi antenati, ma è l’assenza di una qualità che avrebbe dovuto ereditare. Questa qualità mancante è l’appartenenza a una comunità di salvezza. L’umanità non è più una comunità di salvezza. Nascere in seno all’umanità non è nascere in seno a una comunità di salvezza, in seno a un popolo di Dio” (p. 173).

[18] CIPRIANO. Trattati. Introduzione, traduzione e note a cura di Antonella CERRETINI, Roma 2004, Città nuova (Collana di testi patristici, 175): La preghiera del Signore, 22, p. 164.

[19] MASSIMO CONFESSORE, Commento al Padre nostro, in Elia CITTERIO, La vita spirituale, i suoi segreti, Bologna 2005, EDB, p. 231.

[20] Si tratta del famoso testo di Neagoe BASARAB, Come vivere e praticare l’esichia. Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio. Traduzione, studio introduttivo e note a cura di Adriana MITESCU, Roma 1993, Bulzoni, p. 69. Il passo è tratto dal cap. V, “Discorso sul timore e l’amore di Dio”, conservato solo nella stesura romena.

[21] CCC 830-856.

[22] Dalla Lumen Gentium: “E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale” (LG 1); “Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi” (cfr. Gv 11,52) (LG 13); “E invero il Cristo, quando fu levato in alto da terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di lui costituì il suo corpo, che è la Chiesa, quale sacramento universale della salvezza” (LG 48).

[23] Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Le catechesi ai misteri. Traduzione, introduzione e note a cura di A. QUACQUARELLI, Roma 1977, Città Nuova: Catechesi XVIII prebattesimale, n. 23, pag. 40. Nella versione latina di PG 33, 1043-1044: “Catholica enimvero [seu universalis] vocatur eo quod per totum orbem ab extremis terrae finibus ad extremos usque fines diffusa est. Et quia universe et absque defectu docet omnia quae in hominum notitiam venire debent dogmata, sive de visibilibus et invisibilibus, sive de coelestibus et terrestribus rebus. Tum etiam eo, quod omne hominum genus recto cultui subjiciat, principes et privatos, doctos et imperitos. Ac denique, quia generaliter quidem omne peccatorum genus quae per animam et corpus perpetrantur, curat et sanat; eodem vero omne possidet, quovis nomine significetur, virtutis genus, in factis et verbis, et spiritualibus cujusvis specie donis”.

[24] L’invio dello Spirito a Pentecoste unisce tutti nella stessa lode. Si veda Elia CITTERIO, L’intelligenza spirituale delle Scritture, Bologna 2008, EDB, pagg. 242-250.

[25] GREGORIO DI NISSA, Fine professione e perfezione del cristiano, Traduzione, introduzione e note a cura di Salvatore Lilla, Roma 1979, Città nuova (Testi patristici, 15): Il fine cristiano, p. 55.

[26] Cfr. Alberto MELLO, Evangile selon saint Matthieu. Commentaire midrashique et narratif, Paris 1999, Cerf (lectio divina, 179), p. 118.