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La ‘vita spirituale’ non riguarda lo sforzo nostro di acquisire qualcosa, ma allude principalmente all’accoglienza, alla scoperta di un dinamismo che muove e impegna in una relazione. Allude a un ‘vigore’, un ‘calore’, un ‘principio vitale’ che si esprime nella capacità di vivere una relazione di comunione. 

Primo di quattro brevi articoli sul tema: “Parole chiavi della vita spirituale oggi”, per la rivista “In caritate Christi”, delle Suore Elisabettine di Padova, anno 2010.


1. Segreto/mistero

La domanda di fondo potrebbe suonare: come vivere la vita spirituale, la vita nello Spirito? Come tornare a percepirla, ad accoglierla, ad assecondarla nel nostro vivere quotidiano? Il mio suggerimento di riflessione riguarda il nostro disporci a viverla in abbondanza, secondo la duplice promessa di Gesù: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10); “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,10).

Anzitutto, credo sia necessario un rovesciamento di prospettiva. La ‘vita spirituale’ non riguarda lo sforzo nostro di acquisire qualcosa, ma allude principalmente all’accoglienza, alla scoperta di un dinamismo che muove e impegna in una relazione. Allude a un ‘vigore’, un ‘calore’, un ‘principio vitale’ che si esprime nella capacità di vivere una relazione di comunione. Fondamentalmente, la vita spirituale si gioca in rapporto a queste tre cose:

1) alla rivelazione del mistero di Dio. In primo piano non sta mai il riferimento a noi, ma a ciò che ci viene da Dio: è la Parola di Dio a definirci e a farci scoprire a noi stessi;

2) alla collaborazione con Dio perché si realizzi il suo sogno di stare in comunione con gli uomini, condividendo i suoi segreti e i suoi sentimenti verso i suoi figli. Di quel ‘sogno’  è intessuta la vita del Signore Gesù e di quel ‘sogno’ parlano i nostri aneliti più profondi. L’azione nostra si situa come ‘reazione alla Presenza’ più che come volontà di ottenimento;

3) alla realizzazione della vocazione all’umanità. Nasciamo uomini, ma dobbiamo diventare umani, conforme al volere di Dio, secondo il suo progetto.

E dove possiamo vedere tutto questo all’opera? Proprio in Gesù, nel Figlio di Dio fatto uomo. Dal punto di vista del cristianesimo, quando parliamo di vita spirituale intendiamo prima di tutto ‘vita cristiana’. Ci riferiamo cioè a quella vita che Gesù Cristo ha vissuto, quella vita che è stata la salvezza di tutta l’umanità, quella vita che si è mostrata davvero la vita nuova, l’unica vita aperta alla vita eterna, alla vita in Dio, di cui Gesù ci ha fatto partecipi con il dono dello Spirito. Gesù ha avuto una vita umana compresa tra una nascita e una morte, una vita in cui è stato pienamente e totalmente uomo. La fede cristiana ha sempre portato con fierezza questo scandalo di fronte alle religioni e di fronte all’Antico Testamento stesso; è l’inaudito, ma è la buona notizia, il vangelo, Dio si è umanizzato. Se l’oriente, con Atanasio, dice: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio” e l’occidente preferisce dire: “Dio si è fatto uomo per salvare l’uomo”, la comprensione d’insieme può essere formulata: Dio si è fatto uomo perché l’uomo si umanizzi come Dio l’aveva creato, diventando in tutto conforme al Figlio. Concepire, sentire e vivere così l’avventura spirituale permette di superare la divisione interiore che insidia la realizzazione dei nostri desideri più profondi, divisione che ci trova oscillanti tra lo spiritualismo o il devozionalismo e il moralismo o la rigidità.

La liturgia, nella festività natalizia, ci ricorda tramite Paolo che con Gesù “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”, “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tt 2,11; 3,4). Con la nascita di Gesù, con il Figlio di Dio fatto uomo, questa ‘apparizione’ è diventata visibile, toccabile. Potremmo intendere: proprio la vita umana di Gesù rivela la bellezza di Dio; proprio la pratica di umanità conforme alla volontà di Dio, in Gesù, racconta la salvezza e il progetto di Dio su tutta l’umanità.

Per noi diventa essenziale cogliere e condividere la ‘pratica di umanità’ di Gesù nella sua dinamica specifica e nella sua condivisibilità, una volta che acconsentiamo a seguirlo. Sia la dinamica che la sua condivisibilità dipendono da due accessi precisi: occorre entrare nella dinamica dello Spirito che muove il Figlio ad abbassarsi, a consegnarsi (il movimento ha cioè una direzione precisa) e occorre accettare la natura pasquale della relazione (chi accetta di morire può vivere).

I termini che trovo più adatti a esprimere sia la natura che la dinamica della vita che viene da Dio sono quelli di ‘segreto’ e ‘mistero’. Esiste una relazione profonda tra i due. Mistero non indica qualcosa che non si può capire o spiegare, ma si riferisce innanzitutto a un invito da parte di Dio a partecipare a una realtà che lui rivela. Quando nella liturgia eucaristica viene proclamato: “Mistero della fede”, non si vuol dire: “É una realtà di cui non ci possiamo capacitare con la ragione”, bensì una realtà che accogliamo nella fede e di cui siamo chiamati a diventare partecipi. Segreto, invece, allude alla visione del cuore, visione di sé, di Dio, del mondo, nella fede; allude alla rivelazione di Dio che parla al nostro cuore sotto l’aspetto della sua volontà di amore per noi.

Di per sé, la loro enunciazione è valida per tutti, allo stesso modo. Eppure, nulla suona in modo uguale davanti ai cuori. Nessuno prende le stesse cose allo stesso modo. Così, per ciascuno vale il suo mistero e il suo segreto. Evidentemente, non nel senso che il mistero e il segreto sono fatti su misura di ciascuno, ma solo nel senso che ciascuno è chiamato a vivere personalmente lo stesso mistero e lo stesso segreto. Le connessioni tra il mistero e il segreto vanno scoperte personalmente.

Prendiamo, ad esempio, la parabola del figlio prodigo o, meglio, del padre misericordioso, raccontata da Lc 15,11-32.  È chiaro che la comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli. Ora, cosa sarebbe successo se il figlio minore, ritornato pentito, si fosse stizzito per l’atteggiamento del fratello maggiore che non poteva accettare quel trattamento di riguardo del padre a suo favore? Se avesse preteso comprensione anche dal fratello maggiore, sarebbe stato sincero nel suo pentimento verso il padre? E se il figlio maggiore si fosse sentito solidale con il padre nella sua gioia, avrebbe potuto rivendicare qualcosa per sé? Evidentemente non si è mai trovato, insieme al padre, durante tutto il tempo dell’assenza del fratello, a dire: “speriamo ritorni … speriamo non gli capiti qualcosa di irreparabile …”. Il punto è esattamente questo: stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia, per poter godere della sua gioia. È questa la comunione con il padre, il segreto della felicità dei figli.

Se s. Paolo proclama che il ministero della chiesa è la riconciliazione, vuol dire che l’esperienza fondamentale dell’uomo è l’accoglienza del perdono di Dio, in Cristo, esperienza così fondante della ‘nuova’ umanità a noi donata in Cristo, che tutta la vita umana assume la tensione di estendere a tutto e a tutti il perdono ricevuto, nella condivisione comune. Così si fa esperienza di essere solidali con i sentimenti di Dio e si può vivere effettivamente nella comunione con lui, senza bisogno alcuno di rivendicazione. È il segreto della felicità dei figli, che si riconoscono fratelli nella comunione con la premura e la gioia del padre.

Ora, se il punto centrale della storia è questo, non sta forse qui il segreto della vita a cui aneliamo e che il vangelo descrive come la scoperta della gioia? Gioia, che ti fa vendere tutto per non perderla, per cui la fatica moltiplica le risorse, nella cui condivisione trovi il segno dell’opera dello Spirito Santo, il cui spuntare rivela la vicinanza del Regno. Ma – è il perenne ‘ma’ di fronte al mistero di Dio e della vita stessa – di quale gioia si tratta? L’apostolo Giacomo (Gc 1,2) e s. Francesco di Assisi parlano di perfetta letizia, ma in un contesto che suscita timore in noi. Si può essere lieti quando si è oltraggiati? Eppure!… A ognuno scoprire le vie per le quali la letizia, contenuto della promessa di Dio, può sgorgare dal fondo del cuore. Credo sia il senso di un vero percorso di vita spirituale.

Quando Gesù, alla fine del vangelo di Matteo proclama: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) si riferisce ad un duplice potere: anzitutto, dalla parte di Dio, al potere di rivelare il vero Volto di Dio, espresso dalle parole di Giovanni che risuonano allora in tutto il loro realismo: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). In secondo luogo, dalla parte dell’uomo, si riferisce al potere di compiere i desideri  dell’uomo, di soddisfare la sua fame di conoscenza e di relazione in pienezza e verità.

Recitando il Padre Nostro non ci accorgiamo che quello che diciamo per primo in realtà è il punto verso cui aneliamo. E per noi l’espressione diventa veritiera e significativa dopo aver compiuto il percorso che indica la preghiera dal fondo al principio: liberi dal male e dalla tentazione, perché abbiamo un cuore risplendente del perdono perfetto ai nostri fratelli, per la misericordia ricevuta e per essere un unico corpo con il Signore Gesù che è diventato nostro cibo, sapienza e gusto, capaci di compiere il volere di Dio vivendo il mistero della fraternità nella potenza dello Spirito, facendo risplendere in tutta la sua gloria la santità di Dio, che si rivela come Padre di noi tutti, come Padre del Figlio suo Gesù Cristo. Ed è appunto in lui che possiamo compiere tutto il percorso per avere la vita, la vita vera.

Per questo, ogni richiesta che innalziamo a Dio, in ultima analisi, non si risolve che in questa: dacci il tuo Figlio diletto; dacci di accogliere, di conoscere, di compatire, di vedere, di stare e di soffrire con, di godere, di amare questo Figlio diletto che per primo amò noi. Fino a poter dire, con Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Poter dire: ‘Cristo vive in me’, significa vivere il compimento della promessa di Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23), espressione che nella tradizione ha condensato il senso e lo scopo della ‘vita virtuosa’: vivere della stessa vita di Dio, in Cristo, assunti in quell’amore di Dio che costituisce il dono divino della vita, facendo il bene come compimento di un’umanità dove la presenza di Dio risplende. Significa riferirsi a un uomo che realizza la sua vocazione perché gode, sul versante divino, di quella pienezza alla quale agogna e, sul versante umano, di quella umanità senza divisioni di cui ha nostalgia. Qui possiamo comprendere i sogni dell’uomo perché in Dio hanno le loro radici. Perché – e la cosa sorprende non poco – se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora vuol dire che ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che proprio Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare.

È caratteristico che nella tradizione la disposizione di spirito richiesta per comprendere le Scritture sia definita in rapporto alla carità. La carità è intesa come dono della vita, manifestazione della santità di Dio nel mondo. In questa carità, accolta e condivisa, l’uomo conosce l’estensione della sua vocazione all’umanità; umanità, che vede risplendere nel Figlio di Dio fatto uomo, di cui tutte le Scritture parlano perché in lui si rivela il segreto di amore di Dio per i suoi figli.