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La scoperta della fede, della fede nel Signore Gesù, si fa contemporaneamente scoperta della benevolenza di cui abbiamo bisogno per vivere e scoperta della sapienza del cuore, frutto di una fede che si è tradotta in esperienza di alleanza intessuta dall’amore di Dio per noi, che ci precede e ci orienta. 

Terzo di quattro brevi articoli sul tema: “Parole chiavi della vita spirituale oggi”, per la rivista “In caritate Christi”, delle Suore Elisabettine di Padova, anno 2010.

3) Relazione/comunione

Una preghiera liturgica interpreta assai bene gli aneliti profondi dei cuori: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere” [1]. È il desiderio che il Volto del Signore si riveli nel suo splendore al nostro come al cuore di tutti. E questo splendore è lo splendore dell’amore per noi, fonte della nostra dignità.  

Dalla percezione di questa realtà gustata nel cuore sale l’inno di s. Paolo: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo… ” (Ef 1,3). Si tratta di una benedizione larga, onnicomprensiva, oltre la quale non c’è più nulla di significativo per il cuore, il quale non sopporta che qualcosa possa sussistere fuori di essa. È la stessa benedizione che Gesù ci insegna con la preghiera del Padre nostro, benedizione nella quale poter comprendere tutta la nostra vita, la nostra storia, la storia dei nostri fratelli, la nostra storia comune. La missione che Gesù affida ai suoi apostoli mira a rivelare, a rendere percepibile, a far gustare ai cuori quella benedizione perché si radichino in essa e non possano più vivere se non a partire da e dentro di essa.  

Spesso non ci si accorge – ed è la ragione per cui, invece che imparare a vivere un’esperienza nella fede, si finisce per costruire solo un discorso sulla fede – che qui si celano anche la fonte dei nostri sogni, le radici del nostro cuore. La scoperta della fede, della fede nel Signore Gesù, si fa contemporaneamente scoperta della benevolenza di cui abbiamo bisogno per vivere e scoperta della sapienza del cuore, frutto di una fede che si è tradotta in esperienza di alleanza intessuta dall’amore di Dio per noi, che ci precede e ci orienta.

Nessuno sceglie di venire al mondo né può scegliere la mamma da cui nascere. L’unica possibilità di vivere in libertà la vita che ci è data è quella di viverla da dentro un’alleanza che ce la rende amica e favorevole. Per un discepolo di Cristo, come godere di quell’alleanza se non in Lui che ce l’ha rivelata in tutta la sua intensità, estensione e profondità?

L’esperienza della benevolenza

Nella grande esperienza religiosa del popolo di Israele Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. La confessione di fede comporta la stessa logica. Dire “io credo” significa prima di tutto dire: benedico colui che ha fatto questo e questo per me, mi fido delle sue promesse. La proclamazione delle Scritture come la celebrazione liturgica sono percepite dai cuori come memoriale dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia che diventa sacra, storia di salvezza.

Se per Israele si coglie Dio solo a partire dai suoi interventi di salvezza a favore del popolo, tanto che Dio diventa il Dio di Israele, per i cristiani lo si può cogliere ormai solo alla luce della risurrezione di Gesù che sigilla l’iniziativa di Dio in favore degli uomini (cfr. 1Gv 4,10), tanto che Dio diventa il Padre di Gesù, rendendo manifesto, nella sua insondabile profondità, tutto il mistero dell’amore divino lungo l’intero arco della storia, dalle origini del mondo fino alla parusia. Amore, che Paolo riassume nell’esperienza: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32); letteralmente,  “Dio ha fatto grazia di sé a voi in Cristo” . Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo.

L’unica perfezione desiderabile allora per il cuore, l’unico ideale di santità possibile, è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera tradizione: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[2].

La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione: compiere cioè quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. E la santità dell’uomo non si risolve che nella decisione di assumere quel compito, nella risposta a quell’appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini. Tanto che ogni forma di tentazione del maligno si risolve nell’insidiare l’unità restaurata da Cristo che ci fa membra gli uni degli altri. I peccati infatti insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Non per nulla i doni dello Spirito, elencati da Paolo in Gal 5,22: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” hanno tutti a che fare con la relazione fraterna, sacramento della paternità di Dio.

 

Il dono della pace

Detto con altre parole, l’esperienza dell’amore di Dio si risolve nel dono della pace che il Signore Gesù è per noi e porta a noi. Quando l’apostolo esorta: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20), vuol dire: lasciatevi invadere da questo fiume di pace, lasciate che questo fiume di pace risani i vostri cuori. Ed è esattamente quello che avviene ai cuori quando si lasciano incontrare dal Signore Gesù. Ed è, insieme, il contenuto della stessa missione della chiesa, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Senza questa riconciliazione, l’uomo rimane in balia delle sue ossessioni. Così la pace non è semplicemente uno star bene con se stessi, bensì risponde al bisogno dei cuori di vivere dentro un’alleanza con la vita che diventa possibile nella benevolenza divina sperimentata dentro e oltre la propria storia personale, al di là delle ferite e delle rivendicazioni di cui soffre la nostra struttura psichica e relazionale. Come se ci ri-accogliessimo nuovamente, guariti e restituiti, nella nostra umanità. Il livello spirituale torna ad essere percepito come strutturante le stesse dinamiche psicologiche[3].

È d’altronde significativo che agli apostoli venga affidato il dono della pace e che siano inviati a due a due. La pace è quella che deriva dal fatto di sapere che Dio ha fatto grazia di sé, in Gesù, agli uomini; è quella stessa pace che viene offerta a nostra volta ai fratelli perché non si accetta di possedere nulla che possa impedire in qualche modo ad altri la fruizione di quel tesoro, condividendo con tutti quel dono. Quella pace ha un volto misterioso, invisibile, che riluce nel nostro cuore ed è il volto del Signore Gesù. Ma ha anche un volto visibile, constatabile, amabile, che è quello della fraternità condivisa. Che cosa possono insegnare gli apostoli agli uomini se semplicemente ripetono le parole del Signore? Le ripetono, sì, ma con potenza, con la potenza di coloro che possono mostrare come siano diventate efficaci per il loro cuore. E l’efficacia appare dalla fraternità condivisa. Ecco perché sono mandati ad annunciare la Buona Novella non da soli, ma a due a due.

Il dono della pace risponde direttamente alla nostalgia di una relazione profonda che si esplicita nell’anelito all’innocenza, nel bisogno di accoglienza e nel desiderio di pienezza. Ogni strumento o mezzo per realizzare da parte nostra una pretesa di innocenza (basti pensare al nostro bisogno di difenderci continuamente di fronte a Dio e agli uomini, che i Padri chiamavano spirito di autogiustificazione), di accoglienza (alludo al nostro bisogno di affetto, di benevolenza, avvertiti come un diritto esigito sugli altri) e di pienezza (come se la vita ci dovesse qualcosa) non si risolve, in ultima analisi, che nella ricerca del potere di piegare cose e persone al nostro fine, fallendo evidentemente lo scopo. L’unico modo che abbiamo di vivere quella nostalgia è di accoglierci perdonati, di vivere riconciliati e di godere perciò di quella pienezza di vita che ci raggiunge solo in quel far grazia di sé da parte di Dio, a noi, in Cristo.

La fede non è che la coscienza dell’alleanza con Dio che ci viene rivelata proprio nel perdono del nostro peccato e nella capacità a vivere in comunione con lui; il miracolo che si impone al nostro cuore è proprio quello di vivere il perdono al fratello come un segno di quella vita divina di cui siamo diventati partecipi.

Se ci domandassimo: qual è l’opera propria dello Spirito Santo nei nostri cuori? La risposta non è che una: la fraternità realizzata. Tutta la liturgia lo proclama solennemente. Basta leggere i canoni eucaristici, al momento della preghiera di epiclesi: “Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”; “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”[4]. Lo stesso mistero dell’eucaristia indirizza là. Qual è la virtù specifica dell’eucaristia, si chiede Agostino? “La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti a essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo”[5]. In effetti, l’amen che rispondiamo alle parole ‘Corpo di Cristo’ proferite dal sacerdote al momento della comunione significa: sì, riconosco di far parte di quel corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l’unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell’agire del cuore, il frutto agognato. Tra l’altro, è per questo che il sacramento del servizio espresso dalla lavanda dei piedi nell’ultima cena non è in funzione di una solidarietà o di una generosità umana, ma in funzione dello splendore del mistero di Cristo, profumo della conoscenza del Cristo. Qui riceve tutta la sua potenza il comandamento dell’amore al prossimo.

E quando, recitando il Padre nostro, domandiamo:  “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”, chiediamo di poter vivere in modo da celebrare il Signore in grande concordia, nell’amore e nella pace, al modo degli angeli in cielo perché là non vi è orgoglio né invidia, ma amore e sincerità vicendevole[6]. Cielo è la dimora adorante di Dio, terra è tutto ciò che è segnato dal peccato e dalla divisione. I nostri cuori sono ancora terra e noi preghiamo che questa terra finalmente diventi tutta cielo, dove godere della comunione con Dio e con i fratelli in pienezza. Il cielo è il nostro cuore, che diventa dimora di Dio; e segno della sua presenza in noi è appunto la fraternità. Quando s. Paolo (cfr. Col 1,9-12) dice che le opere devono portare il frutto della conoscenza del Signore allude a questo ‘mistero della fraternità’ come rivelazione di Dio, perché la conoscenza del Signore è la condivisione del suo segreto, del suo desiderio di comunione con gli uomini.

Tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito, è indirizzata a questo. Parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita con lui e diventa fonte di vita per tutti. Prima si fa la scoperta di quel che comporta l’incontro col Signore Gesù (cfr. Mt 11,28-30); poi si compie in noi la sua promessa (cfr. Gv 14,21-23), consapevoli che “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).

 

p. ELIA CITTERIO

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[1] Colletta della domenica XV del tempo ordinario, ciclo B.

[2] Regola bollata, X, in  FF 104.

[3] Ed anche come farmaco di guarigione per le medesime, come si può leggere in V. FRANKL, Uno psicologo nei lager, Milano 1998, Ares; La sofferenza di una vita senza senso, Leumann 1978, Elle di Ci.

[4] Canone eucaristico II e III.

[5] S. AGOSTINO, Discorsi, II/1 (51-85), Roma 1982, Città nuova (Opere di sant’Agostino, edizione latino-italiana, parte III: Discorsi, vol. XXX/1), Disc. 57, 7, pp. 171-173.

[6] È lo pseudo-Macario a commentare così l’espressione ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’: “affinché i fratelli vivano insieme in grande concordia, nell’amore e nella pace, al modo degli angeli in cielo; là non vi è orgoglio né invidia, ma amore e sincerità vicendevole….Qualsiasi cosa facciano, devono rimanere nella carità vicendevole e nella gioia”, cfr. PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco. Omelie spirituali (collezione II), Bose 1995, Qiqajon, Omelia 3, p. 75.