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Articolo di p. Elia Citterio apparso su “CONSACRAZIONE E SERVIZIO”, settembre 2009, n. 9, 65-71.

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Considerando l’apporto della tradizione benedettina alla civiltà medievale, gli storici sottolineano in genere due aspetti: l’opera di salvataggio che i monaci hanno compiuto della letteratura classica e l’opera di dissodamento di terre incolte, soprattutto dei cistercensi nei secoli XI e XII. Alla domanda: “in che rapporto sono questi aspetti con quella che è la ragion d’essere dell’esperienza monastica?”, Jean Leclercq rispondeva: “La vita monastica è un affare d’amore fra l’uomo e Cristo, nello spirito di Dio. Tutto il resto sono sottoprodotti” e aggiungeva che era la preghiera a rendere necessaria la cultura.[1]

Gregorio il Taumaturgo ricorda con entusiasmo la scuola di Origene a Cesarea: “È per questo che nulla ci restava segreto, nulla nascosto e inaccessibile; al contrario, ci era possibile imparare ogni scienza, barbara o greca, mistica o politica, divina e umana, poiché, in tutta libertà, tenevamo conto di tutto e tutto scrutavamo, ci riempivamo di tutto e godevamo dei beni dell’anima”[2]. Rispondendo a Celso che accusava i cristiani di non avere una filosofia degna di questo nome, Origene proclamava che il cristianesimo è sforzo di ricerca, che al cristiano è richiesto un vero esercizio di intelligenza.[3]

Al tempo della grande Scolastica, quando l’intelligenza della fede era andata maturando sull’entusiasmo della riscoperta delle radici evangeliche nell’esperienza di s. Domenico e di s. Francesco, se Bonaventura, francescano, si lamentava con i teologi che mescolavano le tesi filosofiche alla sacra dottrina, annacquandone la potenza, Tommaso, domenicano, rispondeva notando che non si trattava di mescolare l’acqua al vino ma di convertire in vino l’acqua. Bonaventura si preoccupava di difendere la fede perché l’uomo potesse gustare la vera sapienza e avere la vita, mentre Tommaso era attirato dalla profondità del mistero che si svela allo sguardo dell’uomo e di cui costituisce la beatitudine; non però semplicemente quella di conoscere, come se il meglio dell’uomo consistesse semplicemente nel suo intelligere, senza tener conto dell’intensità del suo desiderio e del suo amore, ma di conoscere Colui che si ama, con quello sguardo che proviene dall’intelligenza dello spirito tutto teso alla comunione.

Ho ricordato questi tre momenti significativi nella storia dell’esperienza cristiana per sottolineare come la credibilità di un credente anche oggi si giochi sulla tensione contemplativa della sua esperienza. La dinamica spirituale non è duale, ma ternaria. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere, nel senso che la dinamica dell’intelligenza di fede si struttura in: conoscere – fare – vedere oppure in: sapere – agire – conoscere. Come per l’intelligenza delle Scritture, la dinamica non si riduce ad un capire per poi mettere in pratica, ma più precisamente: leggere – praticare – comprendere e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare. Come a dire: l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo e di ogni spiritualismo.

Senza esercizio di intelligenza si può coltivare la tensione contemplativa? É l’esperienza dell’incontro con Dio che fonda il nostro stesso essere, il nostro relazionarci come persone, la nostra stessa percezione del mondo. Trovo che oggi l’esperienza cristiana delle nostre comunità di credenti sia troppo appiattita su un ‘fare’ o sulla preoccupazione di una certa omologazione sociale, del ‘successo’ del fare. Si è come perso il fascino di una visione, di cui occorre ridare l’accesso ai cuori. La questione urgente è quella di imparare a riappropriarci di una sapienza che viene dall’alto, capace di trasmetterci la rivelazione del volto di Dio e di custodire i nostri cuori. L’amore alla cultura va collocata qui, nell’intersezione tra la rivelazione di Dio e la fame di senso e di relazione dei cuori.

 

La forza dell’intelligenza nella fede.

Nella Chiesa l’intelligenza si è sempre esercitata attorno alla parola di Dio, parola che custodisce e la verità di Dio e la verità dell’uomo. Quando Gesù, alla fine del vangelo di Matteo proclama: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18) si riferisce ad un duplice potere: anzitutto, dalla parte di Dio, al potere di rivelare il vero Volto di Dio, espresso dalle parole di Giovanni che risuonano allora in tutto il loro realismo: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). In secondo luogo, dalla parte dell’uomo, si riferisce al potere di compiere i desideri  dell’uomo, di soddisfare la sua fame di conoscenza e di relazione in pienezza e verità.

Dio, creando l’uomo, l’ha posto in un giardino, nel paradiso terrestre “perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). Ora, la terra di quel giardino allude alla terra del cuore; coltivare il giardino significa coltivare la terra del cuore, significa coltivarsi, verbo da cui deriva il termine cultura. Il lavoro e la fatica non appartengono al peccato, perché lo precedono; appartengono al vivere, allo sviluppo, alla realizzazione di quello che si è ma non si è ancora rivelato. L’uomo è chiamato a passare da essere semplicemente individuo a diventare persona e volersi persona è volersi responsabili dell’esercizio di una libertà donata, che ha bisogno per realizzarsi di un lavorio costante e fecondo. La pigrizia, in questo senso, è il rifiuto della propria vocazione a diventare umani. Il contrario della pigrizia non è certo l’attivismo, ma proprio la cultura, intesa come ricerca di senso e di trasfigurazione della vita nel mondo. Culto e cultura sono termini imparentati, come a dire che la cultura riguarda la coltivazione della radicale capacità di meraviglia dell’uomo in tutti gli aspetti del vivere, personale e sociale, immanente e trascendente. Come dice il salmo: “Benedetto il Signore Dio, il Dio di Israele, egli solo compie meraviglie, benedetto per sempre il suo Nome di gloria, tutta la terra sia piena della sua gloria” (Sal 72, 18-19)[4]. La benedizione non celebra semplicemente Dio, ma celebra l’amore di Dio per il suo popolo, l’amore che costituisce la gloria di Dio per l’uomo, eredità per il popolo, perché tutti i popoli ne possano godere. La Presenza divina non può che risplendere in una vita umana che la lasci trasparire. E quando, come in Gesù, l’umanità non può che testimoniare che Dio è il suo vero e unico io, la trasparenza è totale. Per questo, la benedizione che da lui sale al Padre e discende a noi è piena, compiuta, per tutta l’umanità. In quella benedizione l’uomo di tutti i tempi e di tutte le latitudini scopre la sua dignità e la sua gloria, la sua vita, quella che non ha mai fine, che il mondo non può soffocare né corrompere.

Più questa percezione è forte e profonda, più si sta solidali con la sete di senso e di verità che ha sempre animato l’umanità. La cultura, in tutte le sue molteplici forme, non fa che illustrare la ricerca di quella dignità e gloria che ossessionano i sogni dell’uomo nel tentativo, sempre rinnovato, di oltrepassare i surrogati per accedere alla verità.

 

Cultura e fede

La bellezza della fede non è mai scontata perché va continuamente espressa nella lingua della cultura degli uomini, di tutti gli uomini, per tradurre in valori vitali e assimilabili le verità ricevute e condivise che professa. L’opera di traduzione concerne tre ambiti strettamente correlati dove l’esercizio di intelligenza richiesto è continuamente sollecitato a formulare domande pertinenti, oltre l’apparenza e la banalità, dentro un’esperienza di fede vivace. L’uomo va intercettato nel suo bisogno di farsi una visione, di vivere una relazione, di delineare un cammino.

  1. a) Visione, anzitutto. Nella tradizione ebraica è detto che la forza del Messia non è quella di annunciare solamente, ma di far vedere. La fede che si fa interlocutrice e promotrice di cultura non è tanto “il fondamento della confessione di tutti, ma quella potenza spirituale che sostiene il cuore con la luce dell’intelligenza” [5]. Se gli uomini di oggi, concentrandosi sulle proprie vite individuali, hanno perso la visione più ampia di un’appartenenza ad un insieme significativo e fonte di significato, sarà inevitabile uno scadimento della tensione etica, che rafforza la chiusura d’orizzonti sull’io, sempre più in balia delle sue ossessioni. La fede invece allude a una visione che riveli ai cuori il volto di Dio e lo splendore delle creature. Ricordo il motto dell’Ordine domenicano: verità, ma non la sua difesa, piuttosto la sua percezione.[6] Non dimenticando, nonostante le amnesie e l’intorpidimento delle intelligenze nei vari periodi storici, che quella verità comporta la tensione specifica di portare la vita, portare alla vita.
  2. b) Relazione. La verità, come la fede, dice relazione, non possesso. Lo sforzo della fede è uno sforzo di memoria, una tensione della memoria. Fare memoria di Dio lungo la storia significa tenere aperta la nostra storia alla salvezza che viene da Lui, significa sperimentare in una ampiezza senza confini e in una fraternità sempre da realizzare quel suo ‘far grazia di sé a noi in Cristo’, come dice Paolo: “… perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato [=ha fatto grazia di sé] a voi in Cristo” (Ef 4,32). La fraternità, prima di tutto, è fraternità di ricerca, di condivisione, di solidarietà in umanità, sempre e comunque.
  3. c) Cammino, non meta. Cammino che dia ragione delle aspirazioni del nostro cuore, che risponda alle attese ed alle domande ineludibili e supreme dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Cammino dove le svolte decisive nella storia del pensiero umano sono sempre momenti privilegiati di una comprensione nuova ed approfondita del mistero cristiano, capace di liberare contemporaneamente cuore ed intelligenza del credente per individuare, nell’umanità, nuove possibilità razionali ed etiche.

 

Fedeltà e creatività.

Le prime generazioni cristiane sono vissute nello stupore dell’amore di Dio per noi, rivelato in Cristo, amore nel quale i nostri Padri hanno radicato le ragioni di un vivere che funzionino come radici di umanità nuova. La fecondità, normativa, del loro atteggiamento è stata quella di coniugare fedeltà alla rivelazione e creatività. A esempio, non si riflette mai a sufficienza sul fatto che la Scrittura interpreta il peccato in termini di idolatria: un uomo adorante (ecco l’energia positiva in gioco), che scambia per Dio piccoli idoli fasulli (ecco il prevalere della maschera, l’uomo esteriore, schiavo) invece di adorare il Dio vivente (fonte della sua dignità, in cui riconoscere il suo destino e la possibilità di realizzare in pienezza la verità del suo essere insieme ai suoi fratelli). Il discorso evidentemente non vale solo in rapporto al peccato, ma si può estendere anche ai condizionamenti di ogni tipo, personali e storici, culturali e di sensibilità, di cui tutti fanno le spese nel bene e nel male, volenti ο nolenti, ora come sempre. Come rapportarsi di fronte ad essi? Prendiamo l’ascesi del corpo oggi. Sarebbe sufficiente contrastare l’esaltazione odierna del corpo con la risposta tradizionale del disprezzo del corpo, quando tutta la sensibilità odierna è tesa al recupero dell’armonia con il proprio corpo, con l’ambiente? D’altra parte, basterebbe forse adeguarsi alla moda senza tener conto della saggezza di sempre?

Procedere né per contrapposizioni né per adeguamenti, ma per compimenti (del resto, non è forse a questo che ci induce il comportamento di Paolo nel suo discorso davanti all’Areopago?, cf. At 17,22-31), significa adottare lo stesso metodo dei nostri Padri che, fondandosi sulle Scritture, hanno avvicinato il mistero dell’uomo in rapporto a Dio in quell’ottica. Lo sforzo, a partire da una positività di fondo, è sempre quello di cogliere l’esperienza interiore che soggiace ai condizionamenti ed alla sensibilità per riscattarne l’anelito di fondo, l’energia positiva e compierla in verità, in Cristo. Un’operazione del genere è sempre indispensabile se vogliamo che la coscienza non fatichi a ritrovare nelle norme di sempre significatività e rilevanza. L’eredità dei nostri Padri può venire assimilata in tutta la sua perenne vitalità proprio nella misura di una riflessione creativa attorno a questo nodo cruciale, in sintonia con il sentire comune della Chiesa. Non è forse questo il compito di una cultura che ardisca di chiamarsi cristiana, in solidarietà con le ansietà e la ricerca degli uomini, nostri fratelli?

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[1] Interviste con Dom Jean Leclercq, a cura di V. Cattana, Seregno 1995, Abbazia san Benedetto, p. 14. Jean Leclercq (1911-1993), monaco benedettino di Clervaux in Lussenburgo, acuto studioso del Medio evo, autore di L’amour des lettres et le désir de Dieu (1957, tradotto in italiano: Cultura umanistica e desiderio di Dio, Firenze 1983, 2° ed., Sansoni). Nel mio intervento uso il termine cultura come tensione dell’intelligenza al senso del vivere e del morire.

[2] GREGOIRE LE THAUMATURGE, Remerciement à Origène suivi de La lettre d’Origène à Grégoire. Paris 1969, Cerf (Sources Chrétiennes, 148: XV,182).

[3] Si veda ORIGENE, Philocalie, 1-20. Sur les Ecritures et la lettre à Africanus sur l’histoire de Suzanne, Paris 1983, cerf (SC 302), paragrafi 16-18.

[4] Versione del Salterio di Bose, Monastero di Bose 2008, Qiqajon, p. 177.

[5] Isacco Siro, omelia 12 (redazione greca)

[6] Si veda la bellissima lettera dell’allora Maestro dell’Ordine, Fr. Timothy Radcliffe, ai domenicani : La  perenne sorgente della speranza. Lo studio e l’annuncio della buona novella, Roma 1995.