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Diocesi di Torino. VI Corso triennale di formazione ecumenica. Le Chiese ortodosse dell’Europa dell’est. Conferenza di p. Elia Citterio dell’11 novembre 2006. Pubblicato in A. Roccucci (a cura di), “Chiese e culture nell’Est europeo. Prospettive di dialogo”, Milano 2007, Paoline, pp. 101-138.


  1. SINTESI STORICA

Nel contesto allargato di una storia europea, quale ruolo è riservato alla Romania? L’interesse per questa nazione, la sua storia, le sue tradizioni, va oggi crescendo, come testimonia la recente mostra nei Musei Vaticani dedicata a Stefano il Grande – Ponte tra Oriente e Occidente (1 ottobre-31 ottobre 2004), in concomitanza con le iniziative intraprese a livello europeo per la celebrazione della figura del principe romeno Stefano il Grande, recentemente canonizzato dalla Chiesa ortodossa romena. Salito al trono della Moldavia nel 1457, vi regnò fino al 1504. L’aver fermato l’avanzata ottomana gli valse il titolo di confessore della fede e lo consacrò strenuo difensore della cristianità, come testimoniato anche in una lettera del Papa Sisto IV (1471-1484) che lo definisce “vero atleta della fede cristiana”[1].

Tra i primi atti di Giovanni Paolo II si pone la lettera apostolica Egregiae virtutis (31 dicembre 1980) con  la quale egli volle collocare a fianco di s. Benedetto[2], quali patroni d’Europa, i santi fratelli Cirillo e Metodio, e non tanto perché apostoli delle genti slave, ma in quanto missionari greci che, provenendo dal mondo constantinopolitano, ne hanno portato la tradizione religiosa e culturale nel cuore dell’Europa, aprendo una nuova splendida pagina nella storia di quest’ultima. Se la ricezione da Vjačeslav Ivanov dell’idea di chiesa quale corpo a due polmoni, quello orientale e quello occidentale, si presenta come il definitivo abbandono di qualsivoglia esemplarità latina o paradigmaticità romana, l’enciclica Slavorum Apostoli (2 giugno 1985)[3] costituisce la proclamazione, dinanzi all’intera comunione cattolica, del profondo significato ecclesiale insito nell’incontro tra le due tradizioni, greca e latina, realizzatosi con i fratelli tessalonicesi nell’area centro-orientale europea. Rivolgendosi il 2 gennaio 1986 ai presidenti delle Conferenze episcopali europee papa Wojtyła si sarebbe spinto ad affermare che «le due tradizioni sono, da sole, in qualche modo imperfette; è incontrandosi che possono reciprocamente completarsi ed offrire una interpretazione meno inadeguata del «mistero nascosto da secoli e da generazioni ma ora manifestato ai santi» (Col 1,26).

In tale contesto allargato di storia europea, la Romania gioca un ruolo sui generis. Lo spazio romeno è stato concretamente segnato da dinamiche storiche che gli hanno conferito una configurazione del tutto specifica. Realtà che altrove in Europa si concepiscono come poli di una tensione dialettica, qui hanno elaborato lungo la storia forme di sintesi, talvolta estremamente vitali e creative, come ben mostra l’opera svolta nell’ambito della Chiesa unita dall’intellettualità della Scuola di Blaj, i cui contributi elaborati nell’età dei Lumi in contatto con i centri culturali della Mitteleuropa asburgica poterono essere sentiti come patrimonio comune dall’intera nazione anche nel contesto dei voivodati ortodossi oltre i Carpazi. Considerato nella prospettiva della storia religiosa, quello che era spazio di frontiera tra “sistemi” (osservato dai centri di irradiazione della Cristianità latina e del Commonwealth bizantino non può essere ritenuto che una lontana propaggine e l’estrema periferia dei rispettivi “sistemi”) non soltanto diviene specchio fedele dell’Europa nella sua articolata globalità, ma sembra in qualche modo prefigurare il cammino che l’Europa stessa, dopo il crollo del comunismo nel 1989, ha intrapreso verso forme sempre più ampie di integrazione[4].

Nel complesso delle diversità che caratterizzano la storia politico-culturale della Romania, associata com’è, verso sud, al mondo balcanico dominato dall’influenza religiosa e artistica di Bisanzio e più tardi dell’impero ottomano e, verso nord, espo­sta al mondo germanico e ungherese, 1’elemento che fornisce il principio di unità è dovuto proprio alla latinità impressa dalla conquista di Traiano nel 106 d.C. e mai venuta meno. Aggregata al potente impero bulgaro dello zar Simeone (893-927) l’antica Dacia entra nell’orbita culturale di Bisanzio. La Chiesa romena adotta la liturgia nella lingua slava che gli inventori dell’alfabeto slavo, Cirillo e Metodio, avevano inutilmente creato per la Moravia, ma che i loro discepoli Cle­mente di Ochrida e Naum avevano introdotto in Bulgaria. La lingua romena si arricchisce di un nutrito vocabolario slavo, ma conserva inalterata la sua struttura latina. L’originaria “romanità”, che la lingua avrebbe fedelmente perpetuato attraverso i secoli, era stata di fatto ricondotta dall’espansione bulgara nel grande alveo della tradizione ecclesiastica bizantino-slava, della quale questi “Romani” d’area danubiano-carpatica divennero a tal punto compartecipi da risultarne indelebilmente segnati nella loro identità, tanto religiosa quanto culturale. Se nel Cinquecento i resoconti dei viaggiatori occidentali potevano rimarcare la salda consapevolezza presente tra i romeni «d’essere discesi da colonia romana», tale ascendenza era peraltro affermata da questo popolo all’interno di una identità storica che era venuta sviluppandosi su altri fondamenti. Verso il XIII secolo il riflusso delle orde tatare dalle pianure danubiane favorisce il ritorno della popolazione romena dalla Transilvania verso sud, verso il Danubio e il mar Nero. Sotto 1’autorità di voievodi[5], poi entrati nella leggenda, sorgono i principati di Valacchia, con Radu Negru e Basarab, e di Molda­via, con Dragoş e Bogdan. Sul finire del secolo XIV si rendono indipendenti dal dominio ungherese, ma appena un secolo dopo devono fare i conti con 1’invasione ottomana. A differenza però delle altre regioni balcaniche, i principati romeni, pur pagando un tributo in denaro, conservano un’effettiva autonomia inter­na e la possibilità di crescere ne1 loro sviluppo culturale e religioso. Anzi, da questo punto di vista, i secoli di vassallag­gio all’impero turco, specialmente i secoli XVI e XVII, registrano un momento di vero splendore. Le corti principesche di Sucea­va e poi di Iaşi, capitale della Moldavia e di Curtea de Argeş, Tîrgovişte e poi di Bucarest, capitale della Valacchia, conduco­no vita brillante e lussuosa, vengono fondati in gran numero chie­se e monasteri, si producono capolavori artistici nel campo dell’architettura, della pittura e della miniatura[6]. Se la liturgia resta sempre slava, a partire dal secolo XVI si cominciano a tradurre i testi sacri dallo slavonico in romeno. L’impresa di Mihai Vi­teazul (1593-1601) nel 1600 di riunire in un unico stato i principati di Valac­chia, Transilvania e Moldavia[7], benché di breve durata, rinforza la coscienza nazionale. Con il secolo XVII assistiamo al trionfo definitivo della lingua del popolo nella chiesa e nelle creazioni letterarie, soppiantando lo slavonico, anche se la scrittura della lingua romena conserverà i caratteri cirillici fino al 1860, quan­do verranno sostituiti con quelli latini.

Nubi minacciose accompagnano lo spuntare del secolo XVIII. Il tentativo dei principi Constantin Brâncoveanu (1688-1714), in Valacchia, e Dimitrie Cantemir (1693, 1710-1711), in Moldavia, per scuotersi di dosso il giogo della Sublime Porta, sfocia nell’occupazione turca dei principati, nel loro più stretto inserimento nel sistema ottomano, e nell’installazione di “go­spodari” nominati dal sultano tra gli esponenti delle grandi famiglie greche del quartiere del Fa­nar di Costantinopoli, da cui 1’espressione “regime fanariota” per designare questo periodo. Molto diversa, ma non meno complessa, si presenta la situazione della Transilvania. Dal 1438 si era venuto affermando in essa il regime costituzionale delle Tre “Nazioni”, che riconosceva pienezza di diritti politici unicamente alla nobiltà ungherese (nella quale erano inglobati anche i nobili romeni: si pensi al re d’Ungheria Mattia Corvino), alla comunità dei Sassoni e al popolo nobiliare dei Székelyek. Dopo la disfatta di Móhacs nel 1526 ad opera dei Turchi, il regno d’Ungheria si frantumò e la Transilvania, che ne era parte, divenne (unitamente ai territori occidentali delle Partes Regni Hungariae) un principato vassallo della Porta. Con la diffusione della Riforma la comunità dei Sassoni aderì al luteranesimo, la nobiltà ungherese – eccettuate alcune rare famiglie, rimaste cattoliche – costituì una propria Chiesa calvinista, a fianco della quale si instaurò anche una comunità antitrinitaria con proprio vescovo-sovrintendente; quest’ultima corrente radicale della Riforma penetrò anche tra i Székelyek, nel cui ambito peraltro consistente si conservò la presenza cattolica, con propri preti ed un convento francescano. Le restanti istituzioni cattoliche del principato (sedi episcopali, monasteri, conventi, collegiate) furono soppresse e i loro beni dispersi. La Chiesa ortodossa dei Romeni continuò a sussistere ma, priva di tutela giuridico-istituzionale, fu sottoposta già negli anni ’60 del Cinquecento e di nuovo lungo il secolo XVII a forti pressioni da parte del potere principesco, che riuscì in particolare a imporre l’uso del catechismo orientato in senso protestante, a introdurre l’uso del volgare quale lingua di culto e a sottoporre il metropolita all’autorità del vescovo-sovrintendente calvinista. Tale situazione cessò con l’ingresso del principato nel sistema imperiale asburgico, ratificata dalla Dieta nel 1688. Da allora la pressione confessionale calvinista cessò d’avere il supporto del potere politico e il cattolicesimo ritrovò legittimazione a fianco delle tre confessioni protestanti. Con la nomina dei metropoliti ortodossi Teofil Seremi (1692-1697) e Atanasie Anghel (1698-1713) prevalse l’orientamento a garantire l’identità ecclesiastica dei romeni tramite l’unione della loro Chiesa orientale con la Chiesa di Roma, collegando a tale atto anche l’attribuzione al clero unito dello statuto istituzionale riconosciuto al clero cattolico. L’opposizione delle Tre “Nazioni” vanificò in gran parte quest’ultimo aspetto, pur approvato dall’imperatore. Ciononostante la Chiesa Unita o greco-cattolica di Transilvania, con le sue scuole fondate alla metà del Settecento nella sede episcopale di Blaj (la “Piccola Roma”), avrebbe giocato un ruolo decisivo nella formazione dell’identità culturale e della coscienza nazionale dei romeni di Transilvania (e non solo). Impossibilitata dagli ordinamenti istituzionali del principato a intervenire sullo statuto politico della nazione romena, l’autorità imperiale riuscì ad assicurarne la piena autonomia ecclesiastica, istituendo nel 1850 la metropolia greco-cattolica di Blaj (ratificata canonicamente nel 1853), seguita nel 1864 dalla metropolia ortodossa con sede a Sibiu.

Nei due principati danubiani di Moldavia e Valacchia il risveglio di una coscienza nazionale, sotto la spinta delle idee libertarie dell’Europa dei Lumi, lievitò progressivamente assieme ai tentativi di liberazione dei po­poli balcanici dal dominio ottomano. Unificati i due principati nel 1859 nella persona del principe Ion Cuza, dal 1862 si avviò la loro fusione in unico principato di Romania; il parlamento di quest’ultimo nel 1877 – nel contesto della guerra russo-turca – dichiarò l’indipendenza dalla Porta, indipendenza internazionalmente riconosciuta nel 1878. Seguì nel 1881 la proclamazione del Regno. Alla fusione politica dei due principati si affiancò l’unione delle due metropolie in un unico organismo ecclesiastico, retto dal metropolita-primate di Bucarest, autocefalo dal 1885. Nel 1918 si costituì la “grande Ro­mania”, con l’aggregazione della Transilvania, della Bessarabia e della Bucovina al “Vecchio Regno”. In particolare l’unione della Transilvania fu qui proclamata in un’assemblea il 1° Dicembre per bocca del vescovo greco-cattolico Iuliu Hossu. La successiva costituzione del 1923 riconobbe, a fianco della preminente Chiesa ortodossa, la Chiesa greco-cattolica quale Chiesa nazionale minoritaria. Nel 1925 la cattedra primaziale ortodossa di Bucarest veniva elevata al rango di Patriarcato. Dopo cessioni territoriali nei con­fronti delle potenze confinanti, la Romania uscì sconfitta dalla seconda guerra mondiale e fu integrata nel sistema egemonico moscovita, con l’imposizione di istituzioni politiche, sociali ed economiche prese a prestito dall’Unione Sovietica. La cattività comunista, specie con la deriva del cosiddetto “socialismo dinastico” di un despota quale Nicola Ceausescu, a partire dal 1975, ha lasciato ferite profonde nel paese, le cui conseguenze si fanno sentire anche dopo la rivoluzione del 1989[8].

  1. LA TRADIZIONE ESICASTA ROMENA

Davanti alla storia dell’evoluzione del cristianesimo nelle regioni romene, si ha 1’impressione che, se 1’elemento portante di quel­la evoluzione, come del resto in genere nell’oriente cristiano, è dato dal monachesimo, non si tratta però di un monachesimo come parte a sé stante, separato dal resto del mondo e della chiesa. Si tratta di un monachesimo come fermento, in vera osmosi con un popolo e capace di ispirare tutta una cultura. Di questo mo­nachesimo, poi, il carattere più specifico che emerge è la sua ispi­razione esicasta. La fortuna che conobbe in Romania il termine “esicasta”, in romeno sihastru, è unica in tutta 1’ortodossia. Ne fanno testimonianza le innumerevoli denominazioni di montagne, col­line, fiumi e località con termini di origine monastica, che ri­cordano per lo più il nome di tale o tal altro monaco esicasta vissuto in quei paraggi.

L’appellativo “esicasta” deriva dal greco hesychía, termine che designa uno stato di calma, pace, solitudine, silenzio, assenza di ogni forma di agitazione tanto esteriore che interiore. Nel­l’ambito della spiritualità cristiana con la parola “esicasmo” ci si riferisce oggi ad almeno due fenomeni distinti. Il primo concer­ne quel particolare orientamento spirituale che coincide con le origini stesse del monachesimo orientale e che può essere defi­nito come un orientamento essenzialmente contemplativo che pone la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la pre­ghiera continua. Definisce cioè lo stile di vita dei Padri del deserto egiziano («L’opera dell’hesychia è restare seduti nella propria cella con timore e conoscenza di Dio»[9]), e trova la sua espressione teorica in diversi “filoni” della spiritualità antica, specie nella scuola sinaitica (Giovanni Climaco, Esichio di Batos, Filoteo Sinaita). A Giovanni Climaco risale il detto sempre citato: «L’esichia è la perpetua adorazione in presenza di Dio: che il ricordo di Gesù si unisca al tuo respiro, e allora tu conoscerai l’utilità dell’esichia»[10]. Il secondo riguarda quel particolare metodo di preghiera, basato sull’invocazione incessante del nome di Ge­sù, la cui forma venne codificata negli ambienti monastici del Monte Athos nei secoli XIII e XIV. In tale contesto il termine esicasmo si estende fino a comprendere sia il movimento di rin­novamento spirituale in seno al quale quel metodo di preghiera si sviluppò e si precisò grazie soprattutto alla figura di Gregorio il Sinaita, sia la sintesi filosofico-teologica elaborata da Grego­rio Palamas per difendere e sostenere quanti si servivano pro­prio di quel metodo. Tutti e due i fenomeni legati al termine esicasmo hanno avuto grande influenza sulla spiritualità della Chiesa romena. Essi però sono stati assunti e fusi in modo vivo e originale, tanto che si parla a buon diritto della “tradizione esicasta romena” come di un fenomeno tipico, sviluppatosi fin dalle origini stesse del cristianesimo nelle terre romene e perdu­rante fino ai nostri giorni[11]. Il sorgere e lo svilupparsi di un numero così impressionante di esicasteri, fenomeno pressoché unico nel mondo cristiano, tro­va anzitutto la sua giustificazione in una particolare sensibilità dell’animo romeno, che sente profondamente connaturale 1’ideale di hesychía ricercata in seno alla natura. Ciò ha permesso al popolo romeno di vivere nei Carpazi, vera colonna vertebrale della loro stessa esistenza lun­go i secoli, «come in una grandiosa cattedrale, come in un mera­viglioso “esicastero naturale”»[12]. Ed è per questo che ai piedi del­le montagne, da Tismana fino al nord della Moldavia, sorge il maggior numero dei monasteri.

Le comunità esicaste rappresentano degli importanti punti di riferimento non solo in relazione alla diffusione e allo sviluppo del monachesimo, ma anche per la popolazione cristiana nel suo insieme. Si calcola che almeno trecento esicasteri abbiano dato origine ad altrettanti in­sediamenti di villaggi e siano così scomparsi senza lasciare traccia[13]. D’altra parte, sul luogo di esicasteri precedenti sorse la maggioranza dei monasteri romeni. Per farsene un’idea, basti pensare che di almeno ottocento monasteri, lungo la storia, si è potuta stabilire un’origine siffatta. Il fenomeno di trasforma­zione degli esicasteri in monasteri assume notevoli proporzioni soprattutto a partire dal secolo XIV con 1’opera di san Nicode­mo di Tismana[14]. Il rinnovamento portato da Nicodemo di Tismana coincide­va con 1’azione di profondi fermenti spirituali già ormai diffusi dal movimento esicasta che aveva avuto in Gregorio il Sinaita (1255-1346) e Gregorio Palamas (1296-1359) i suoi insigni mae­stri. La presenza di monaci romeni alla Paroria, nel regno bul­garo, nell’insediamento esicasta fondato da Gregorio il Sinaita e sull’Athos, specie a Kutlumus, ricostruito grazie agli aiuti del principe Vladislav I Voda, rendono naturale il travaso nei terri­tori romeni di quei fermenti così caratteristici di quell’epoca. I metropoliti e i principi romeni non si impegnarono soltanto nella costruzione di nuovi monasteri, ma cercarono anche di “or­ganizzare” la folta schiera dei sihastri, raggruppandoli e impo­nendo loro una vita comunitaria secondo la tradizione dei mo­nasteri athoniti, promuovendo il passaggio dalla vita idioritmi­ca in minuscole comunità alla vita cenobitica in grandi monasteri. Insieme a tale tendenza, che conoscerà sviluppi prosperi, anche se a fasi alterne, persisterà sempre viva, pur subendo profonde modificazioni, quella “tradizione esicasta” che costituisce come l’humus più genuino della sensibilità monastica romena. Senza ripercorrerne le linee di evoluzione, si può notare come, pur proseguendo nella tendenza di trasfor­mare gli esicasteri in monasteri, si assista tuttavia all’aumento del numero totale di nuovi insediamenti esicasti. Ciò si spiega con il fatto che ogni monastero tende a costruire uno, due o più esicasteri per i propri monaci. Allo scopo di trovare un ritmo di vita più tranquillo che i grandi monasteri non potevano offri­re, i monaci si addentravano di tanto in tanto nelle vicine fore­ste. Si costruivano delle celle e ben presto attorno a queste pren­deva inizio 1’esicastero. La zona che conosce il più alto numero di nuove fondazioni è quella di Buzău. Con i suoi cin­quanta insediamenti esicasti, nel sec. XVII, la regione sub-carpatica di Buzău-­Vrancea costituiva uno dei più fiorenti centri di vita esicasta che permetterà la nascita e lo sviluppo del movimento di rinnovamento spirituale del secolo successivo avviato a Poiana Mărului dallo stareţ Basilio[15]. Il sorprendente moltiplicarsi di tanti esicasteri segnalava tut­tavia un’incipiente crisi nella vita comunitaria dei grandi mona­steri. I monaci si allontanavano dalle loro comunità per fuggire le preoccupazioni materiali ed economiche che inevitabilmente procuravano le grandi proprietà fondiarie che si venivano a co­stituire attorno ai monasteri. La crisi si fa sentire più pesantemente nel secolo XVIII. Sem­pre indicativo 1’alto numero di nuovi esicasteri fondati: in Mol­davia, ad esempio, sono ottantatré contro solo quattro mona­steri; in Valacchia, novantatré contro quattordici monasteri. I grandi monasteri incontravano sempre maggiore difficoltà nel­l’amministrazione dei terreni e delle dipendenze e nel contem­po si trovavano aggravati dalla politica del nuovo regime fana­riota che perseguiva il disegno di “inchinare” i monasteri all’e­stero. Se pensiamo poi alle numerose guerre e devastazioni che in quello stesso periodo la terra romena dovette subire, possia­mo immaginare come si andasse verso un esaurimento morale e materiale. La Provvidenza aveva disposto però le cose diversamente, suscitando un insperato quanto prodigioso rinnovamento.

Ma prima di delineare i contorni di quel rinnovamento, vorrei sottolineare subito una impressione generale. Quando io penso all’esicasmo romeno, penso soprattutto ad un atteggiamento dell’anima che lo contraddistingue. Un aneddoto mi sembra particolarmente espressivo. È riportato dal fratello di p. Galaction, il famoso stareţ di Sihăstria, p. Cleopa, recentemente scomparso:

«Un giorno padre Galaction pose questa domanda a un eremi­ta che aveva incontrato per caso nella foresta: “Ditemi, pa­dre: quando verrà la fine del mondo?” E quel sant’uomo, so­spirando, rispose: “Lo vuoi sapere, padre Galaction? Quan­do non ci sarà più sentiero tra 1’uomo e il suo vicino!”» [16].

Quando gli uomi­ni pretenderanno di vivere dietro steccati egoistici, chiuderan­no i cuori 1’uno nei confronti dell’altro, si scorderanno l’amore, il servizio reciproco, in una parola la “comunione”, la vita si svuo­terà di senso, il mondo sarà giunto alla sua fine. La mirabile espressione dell’anonimo sihastru interpreta a fondo il tratto forse più saliente di un modo di intendere la vita, 1’im­pegno religioso, la cultura, che da sempre ha caratterizzato la spiritualità del popolo romeno lungo la sua storia. Un rapporto molto stretto e naturale lega fra loro monaci e fedeli, tutti respirano lo stesso clima spirituale. La Moldavia, dove si conserva ancora intatta la struttura tradizionale del villaggio di cui il monastero rappresenta come l’appendice naturale e nello stesso tempo il centro vitale unificante, tale simbiosi ha sempre prodotto notevoli frutti culturali e spirituali. Ancora oggi questo fatto costituisce una delle caratteristiche più vistose ed originali della società romena, distinguendosi da questo punto di vista anche dagli altri paesi ortodossi.

Ho pensato di ravvisare la fonte di queste due caratteristiche che si richiamano a vicenda, una di tipo più interiore (la vita come comunione), l’altra di tipo più socio-religioso (la stretta osmosi tra fedeli e monachesimo), in ciò che il famoso Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio, ha chiamato dulceaţa lui Dumnezeu: «rădăcina bunătăţilor iasti dulceaţa lui Dumnezeu»[17]. Il passo completo suona: «Chi si farà compagno delle virtù divine, questi avrà vita ed esistenza imperitura, poiché la radice della bontà è la dolce intimità con Dio». Dulceaţa dumnezeiasca comporta una dimensione, un timbro, che tocca la natura stessa delle terre romene, la spiritualità, la stessa celebrazione liturgica ed il canto, gli uomini. Denota una visione, rivela un’esperienza interiore specifica, quella che è maturata nel clima della tradizione esicasta che ha permeato profondamente lo spazio spirituale dell’oriente, in particolare romeno. Un uomo spirituale riuscito, oserei dire, nella tradizione romena diventa blînd (mite, mansueto, dolce), si riveste di blîndeţe, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore. Questo tratto è sopravvissuto a tutte le ferite della storia, forse proprio in ragione di una risposta, a livello spirituale, a tali ferite, ieri come oggi.

  1. IL SECOLO XVIII

L’inizio dell’azione di rinnovamento prende le mosse con lo stareţ Basilio di Poiana Mărului (1692-1767) e continua, su scala allargata, con il suo discepolo e amico Paisij Veličkovskij (1722-1794)[18]. Il 1700 è l’epoca dell’illuminismo e della rivoluzione francese nell’Europa occidentale, il secolo delle riforme di Pietro il Grande in Russia, con i Balcani sotto il giogo dei Turchi, nel continuo scontro tra le potenze che si contendono la supremazia nell’Europa orientale: l’impero ottomano, l’Austria e la Russia. Nella prima metà del sec. XVIII, nelle regioni della Podolia e della Volinia, prende avvio il movimento chassidico[19]. Dal punto di vista del clima tra le varie Chiese, nel 1700, a differenza del 1600, si assiste ad un accentuato ripiegamento confessionale dominato dalla corrente apologetica e polemica diretta soprattutto contro la cattolicità latina. Basti pensare all’enciclica del 1755 del patriarca Cirillo V di Costantinopoli nella quale si dichiara la nullità dei sacramenti amministrati dalla Chiesa di Roma.

Ora, proprio con il XVIII secolo i territori dei principati ro­meni diventano il centro dell’ortodossia dove viva permane la tradizione patristica orientale, a differenza degli altri paesi nei quali la cultura della fede ortodossa ha le ali tarpate per la poli­tica antiecclesiastica degli zar o per la dominazione turca[20]. Il fe­nomeno di osmosi tra i territori romeni e le terre russe, ucraine in particolare, assume proporzioni considerevoli. In effetti, sul finire del sec. XVII, con il molti­plicarsi in Russia delle misure restrittive nei confronti del mo­nachesimo nella linea di una politica di controllo dei beni eccle­siastici e a causa di una politica di uniatismo perseguita dai po­lacchi in Ucraina, si determinò un flusso di emigrazione monastica russo-ucraina verso i territori romeni, dove i principi si distin­guevano nello zelo per il sostegno alla chiesa e al monachesimo. Quando il giovane Paisij, alla ricerca della tradizione viva dei Padri, emigra dall’Ucraina, sua terra natale e arriva nei paesi romeni nel 1743, è già stato preceduto da tutta una generazione di suoi compa­trioti, i quali, nel clima di elevata cultura ortodossa dell’ambiente romeno, hanno potuto portare a maturazione i germi di geniali­tà e spiritualità loro propri[21]. Le skiti visitate da Paisij, vale a di­re Dălhăuţi, Traişteni e Cîrnul, sono tutte sotto 1’influenza del­lo stareţ Basilio di Poiana Mărului, anch’egli emigrato dall’U­craina e diventato ormai un punto di riferimento per tutti. Nelle comunità che a lui si richiamavano, alla pratica esicasta era uni­to lo studio dei Padri, i cui testi lo scriptorium di Poiana Măru­lui, la skite fondata da Basilio nel 1733, si incaricava di ricopia­re e di diffondere tanto in lingua slavonica che romena. Fatto unico nella storia dell’esicasmo romeno, Basilio aveva fondato una sorta di confederazione di oltre dieci esicasteri legati a Poiana Mărului. Non è all’Athos, dove pure risiede per diciassette an­ni, dal 1746 al 1763, che Paisij Veličkovskij respira la tradizio­ne esicasta. L’Athos costituisce solo il riferimento ideale e il “de­posito” degli scritti patristici che si premurerà di scandagliare con zelo infaticabile. Il modello di vita, 1’esempio vivente della tradizione esicasta, Paisij lo scopre e lo farà rifiorire su larga scala nei principati romeni nei suoi monasteri di Dragomirna, Secu e Neamţ, in Moldavia, dando vita a tutto quel poderoso movi­mento spirituale che gli storici denomineranno “paisianesimo”. Un suo biografo riassume così l’esperienza dei tre anni passati nelle skiti della Muntenia:

«Da quei Padri ha compreso cos’è la vera obbedienza, da cui nasce la vera umiltà, nella quale si arriva a far morire la propria volontà e la propria opinione personale, anche nei confronti di tutte le cose di questo mondo, fatto che costituisce l’inizio e la fine interminabile della vera opera monastica; che cos’è l’attenzione e la vera pace della mente, la preghiera attenta compiuta soprattutto nel cuore»[22].

Nell’introdurre la biografia del beato stareţ Paisij Veličkovskij, Grigorie Dascălul[23] traccia una panoramica storica dello sviluppo del monachesimo partendo dai Padri dei deserti egiziani Antonio, Macario, Pacomio, proseguendo con i Padri dei deserti di Palestina Eutimio, Saba e Teodosio, con lo sviluppo in Tracia e Macedonia come anche a Costantinopoli e dintorni per arrivare all’Athos. Di qui il monachesimo si irradia in Russia con Antonio e Teodosio delle Grotte, arriva poi in Valacchia e in Moldavia, «regioni ortodosse tranquille, allorché principi ferventi hanno fatto erigere i santi monasteri che adornano questi luoghi come le stelle il cielo» per giungere all’evento di oggi, alla venuta di questo beato stareţ Paisij. Ecco le parole precise di Grigorie:

«Mostrerò invece come e quando, con la venuta di questo beato stareţ e il costituirsi di questa grande comunità, si sia dato avvio, secondo la benevola provvidenza dell’Altissimo, ad un’opera che ora non ha riscontro in tutta l’Ortodossia, perché resti nota anche ai posteri un’opera divina come questa, a gloria di Dio e per loro utilità»[24].

Quando il principe Costantino Moruzi, d’accordo con il metropolita Gabriele, ordina a Paisij di trasferirsi a Neamţ, dà la seguente motivazione: «Questo monastero è stato concesso alla vostra comunità non soltanto per la vostra fondazione, ma anche perché diventi il modello per gli altri monasteri, secondo il vostro ordinamento di vita»[25]. La decisione del principe era stata sollecitata involontariamente da Paisij stesso perché dal monastero di Secu gli si era rivolto per avere sovvenzioni al fine di costruire altri quattro grossi edifici per i bisogni della comunità che si stava ingrossando. Aveva bisogno di una sartoria, di una calzoleria, di una tessitoria e di un ambiente per l’insegnamento ai giovani monaci della lingua greca per renderli capaci di tradurre libri utili all’anima. Il particolare interessante, che desumiamo da una lettera dello stesso Paisij[26], è dato dal fatto che l’ambiente per l’insegnamento della lingua greca era riservato a p. Ilarion, romeno, con studi all’Accademia s. Saba di Bucarest, entrato nella comunità paisiana a Dragomirna e diventato, insieme al più anziano Macarie, anche lui romeno, il “grecista” della comunità, l’uomo di fiducia di Paisij nel lavoro di traduzione dei testi patristici. I primi discepoli di Paisij all’Athos sono tutti romeni, i suoi primi “maestri” in fatto di traduzioni dal greco sono romeni (Macarie e Ilarion). Va ascritto indubbiamente alle autorità ecclesiastiche e civili romene l’accortezza di avergli offerto le strutture più adatte al fine di sfruttare al meglio la carica spirituale e culturale di cui era portatrice la sua opera e che aveva trovato, in territorio romeno e nella tradizione romena, l’humus ideale per il suo sviluppo.

Con Paisij –  e questa è una vera rivoluzione! – la “vita comune”, scuola impareggiabile della vera obbedienza, dalla quale fiorisce l’umiltà, giunge ad essere il vero luogo della pratica esicasta, senza cui si finirebbe per fraintenderla[27]. Ora, la vera forza di Paisij sta nel mettere in mano ai suoi discepoli la chiave per comprendere dall’interno ciò che li esorta a praticare. In questo contesto riceve tutto il suo significato la lettura assidua ed amorosa delle Scritture e dei Padri insieme alle pratiche della confessione quotidiana dei pensieri e la preghiera di Gesù. Lo scrutare, giorno e notte, le Scritture e gli scritti patristici, è la risposta di Paisij alla mancanza di guide sperimentate. Risposta così seria e impegnativa che lo studio dei testi patristici, unito allo sforzo di tradurli in slavo ecclesiastico e in romeno, è diventato poco a poco l’attività principale del nostro stareţ, il fondamento, il punto di forza della sua opera, attività che trovava in ambiente romeno il suo supporto più efficace. Quello che però resta come grandioso nella coscienza dei suoi discepoli non sarà il risultato di questo immenso lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici, bensì lo scopo e la vitalità spirituale con cui era vissuto tale compito. È risaputa la grande importanza e la diffusione che ha goduto nel mondo slavo il Dobrotoljubie, la versione slavonica della Filocalia edita a Mosca nel 1793, undici anni dopo l’edizione greca di Venezia. Nessuna delle cinque biografie conosciute di Paisij, composte dai suoi discepoli circa una ventina d’anni dopo la sua morte, ne fa menzione. Eppure tutti unanimemente sottolineano la straordinaria fecondità del lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici ad opera del nostro starets, lavoro che costituisce il contesto più diretto di quel rinnovamento monastico che ha così colpito i contemporanei.

Con Paisij, uomo di profonda esperienza spirituale e guida carismatica, la vita monastica torna ad essere vissuta come un ideale appassionante capace di forgiare uomini e comunità fino a plasmare l’intera vita ecclesiale. Paisij immette nella vita del cenobio la linfa della spiritualità esicasta. La riscoperta della Scrittura e dei Padri va di pari passo con la riscoperta della preghiera di Gesù. Averle poste a fondamento della vita cenobitica, con tutte le conseguenze che comportavano nell’organizzazione della vita comunitaria e dell’ascesi personale, è l’essenza del grande rinnovamento portato da Paisij. A Dragomirna la sua occupazione principale consisteva proprio nel “servizio della parola” – espressione che usano i suoi discepoli! – , nel preparare cioè i capitoli serali per la comunità dove leggeva e spiegava i testi che andava traducendo insieme ai suoi più stretti collaboratori, tutti romeni. L’introduzione di quei capitoli serali, in cui si affrontavano i temi della battaglia interiore sulla base dell’esegesi delle Scritture e dell’insegnamento dei Padri, che sono valsi a Paisij il titolo di “bocca d’oro” della Moldavia, il giovane Paisij li aveva visti praticare nelle skiti della Valacchia già negli anni 1743-46. Li riprende, li regola e li anima sulla base di tutto quel lavoro di traduzione e correzione di testi patristici, soprattutto “filocalici”, che andava organizzando. Come già ricordato, fin dal 1769, a Dragomirna, il monaco Rafail poteva raccogliere in una voluminosa antologia di 626 pagine una serie di testi sulla preghiera di Gesù, frutto di traduzioni romene antiche e nuove, comprendente gli autori della famosa “Filocalia”, più due autori moderni, vale a dire l’opera di Nil Sorskij e dello stareţ Basilio di Poiana Mărului.

Proprio nell’impresa a cui si era accinto Paisij, che si presentava irta di difficoltà, risulta assai significativo l’apporto dell’ambiente romeno. Riscontrando numerosi errori nei testi slavonici di cui disponeva, aveva pensato di correggerli confrontando tra loro i vari manoscritti. Comprese presto che sarebbe stato necessario risalire all’originale greco, ma lui non conosceva bene il greco. Si affida allora a Macario, suo discepolo, di nazionalità romena, che aveva studiato all’Accademia san Saba di Bucarest con il professore greco Alessandro Turnavitis. Inizia così a lavorare a traduzioni in slavonico sul modello delle versioni romene preparate da Macario e dall’altro grecista di Dragomirna, il monaco Ilarion. Più tardi, a Neamţ, arriva a costituire una vera e propria scuola di traduttori, con la preoccupazione di preparare le nuove leve. Invia infatti all’Accademia di Bucarest i monaci Gherontie, romeno e Doroteo, russo. Paisij lavorava quasi esclusivamente alle traduzioni in slavonico, mentre lasciava al nutrito gruppetto di grecisti romeni il compito delle traduzioni in romeno. Con gli anni il metodo di lavoro si era perfezionato in norme rigorose. Si doveva prima stabilire il testo originale autentico valutando le diverse recensioni manoscritte, quindi si procedeva ad una traduzione piuttosto letterale per evitare la soggettività del traduttore, per arrivare poi ad una revisione finale. Anche gli strumenti di lavoro si erano notevolmente perfezionati: disponeva di dizionari, grammatiche, di manuali di paleografia, con regole fisse per la trascrizione e la traslitterazione da una lingua all’altra.

La parte più cospicua nel lavoro di traduzione dei testi patristici era sostenuta dai traduttori romeni. Scriveva Paisij in una sua lettera:

«Iniziai il mio lavoro nel modo seguente: posi a mia guida e istruzione la traduzione dei testi patristici che i nostri amati fratelli, lo ieromonaco Macario e Ilarione il Didascalo, esperti nella traduzione e istruiti, avevano fatto per me alla Santa Montagna dal greco antico in romeno, loro lingua natale. Il fratello Macario tradusse una parte dei libri mentre si trovava all’Athos, e un’altra parte a Dragomirna; ugualmente, anche l’onorato Didascalo, il fratello Ilarione, tradusse una parte di essi presso la nostra comunità. Considerando senza dubbio questa loro traduzione vera sotto ogni riguardo, cominciai a correggere i testi patristici che avevo presso di me …»[28].

Il metropolita Grigorie Dăscalul, nella sua biografia paisiana, annota espressamente che solo Paisij e Doroteo traducevano dal greco in slavo, ma numerosi erano i traduttori romeni che traducevano nella loro lingua materna dal greco e dallo slavo. E nomina, tra gli altri, indicando anche le opere tradotte, pubblicate e non: Macarie, autore pure di una Gramatica rumânească (1772), Ilarion, Gherontie, Ştefan, Isaac[29].

In Romania lo spirito paisiano trionfa nella stessa organizza­zione della chiesa. Personalità ecclesiastiche di prim’ordine im­bevute di quello spirito, quali Beniamino Costachi, metropolita di Moldavia e Gregorio Dăscalul, tonsurato monaco dallo stes­so Paisij, suo biografo e futuro metropolita di Valacchia, pro­mossero ed estesero oltre la cerchia dei monasteri il rinnovamento scaturito dall’opera di Paisij tanto sul piano spirituale che cul­turale. Riorganizzano i monasteri, creano scuole, si impegnano a fondo in una vasta azione di promozione di traduzioni e stam­pa di libri (è opera di Beniamino Costachi 1’installazione a Neamţ della stamperia con la volontà di diffondere i lavori di traduzio­ne della comunità di Paisij), rivivificano le strutture ecclesiasti­che duramente provate dalle guerre e dall’occupazione zarista del 1808-1812 e successivamente dai moti rivoluzionari del 1821. Rifiorisce il monachesimo di tipo cenobitico sotto 1’influenza del modello paisiano, a differenza dei secoli precedenti dove preva­leva il riferimento all’esicastero. Particolarmente attivo 1’influsso paisiano nei monasteri e skiti di Agapia, Văratec, Bisericani, Rîsca, Vovidenia, Pocrov, Tărcau, in Moldavia, tanto che ver­so la metà del 1800 quasi tutti i monasteri seguono la “Regola” di Paisij.

In Valacchia la sua opera è continuata da un suo grande di­scepolo, lo starets Giorgio, originario della Transilvania. Di pas­saggio a Bucarest per 1’Athos dopo aver lasciato Neamţ nel 1781, lo starets Giorgio accoglie 1’invito del metropolita Gregorio II di costituire una comunità monastica sul tipo di quella paisiana e sceglie di stabilirsi in una skite ormai abbandonata alle porte di Bucarest, Cernica, presto trasformata in un grande cenobio. Nel 1794 gli viene affidata anche la guida del vicino grande mo­nastero di Căldăruşani. Nel suo Testamento, una specie di rego­la di vita per le comunità che a lui si richiamano, rivendica al suo maestro Paisij tre carismi specifici: il dono della preghiera del cuore; il dono di guidare una moltitudine di fratelli; il dono, assai raro, di tenere insieme i fratelli di varie nazionalità[30]. Lo starets Giorgio non ritiene di poterseli attribuire e quindi invi­ta i fratelli della sua comunità a dedicarsi alla preghiera di Ge­sù, ma non in modo esclusivo, almeno fin tanto che non ci si sia purificati da tutte le passioni; limita a centotré il numero dei fratelli della comunità (numero che dopo di lui verrà superato ampiamente); considera la possibilità che i monaci romeni, rus­si e greci vivano separatamente, senza per questo diminuire nell’amore reciproco (ma intanto che lui è vivo la comunità resta unita). L’accento tende a spostarsi sullo sforzo ascetico e sulla vita attiva; la linfa, comunque, deriva dallo stesso spirito pai­siano, sebbene, nella letteratura romena, la tendenza di Cerni­ca sia normalmente indicata in senso specifico: “la spiritualità cernicana”. L’esponente più celebre di tale spiritualità sarà san Callinico, monaco a Cernica per quarantatré anni e poi vescovo di Rîmnic. Con la preghiera e 1’ascesi, unisce 1’amore per la sua comunità, che sotto la sua guida arriva fino a trecentocinquanta fratelli, con la preoccupazione per i poveri e l’attività pastorale. A lui dobbiamo la costruzione del monastero di Frăsinei dove, sul modello athonita, introduce regole di vita severe (ricordia­mo che, ancora oggi, Frăsinei è l’unico monastero romeno dove resta interdetto 1’accesso alle donne, come nei monasteri atho­niti). Liberandosi dalle pas­sioni con 1’ascesi, si possono coltivare le virtù della dolcezza, dell’umiltà e dell’amore che fanno superare 1’egoismo, dedican­dosi alle varie attività senza che venga minimamente impedita una fervente vita di comunione con Dio.

In Russia il rinnovamento paisiano conosce lentamente ma stabilmente un progresso continuo fino a confluire in quella che verrà denominata la grande tradizione degli starcy di Optina, vero centro di irradiazione dell’eredità paisiana, con una profonda eco culturale religiosa e letteraria[31]. In Romania invece, dopo un rapido percorso ascendente, segue un lento ma sicuro declino. Quel contesto specifico in cui Paisij è venuto modellando la sua esperienza, vale a dire il fatto del grande numero di fratelli che vivevano radunati in un’unica comunità (come stareţ dei monasteri di Secu e Neamţ aveva la guida di circa un migliaio di monaci) ed il fatto che tali fratelli fossero di provenienza e di popoli diversi (romeni, ucraini, russi, bulgari, serbi, greci) non ha retto alla prova del tempo. Forse per le mutate circostanze storiche sopraggiunte sul finire della vita di Paisij con la Moldavia occupata dall’esercito russo, con le tensioni ecclesiastiche che si erano scatenate, con l’insorgere di un nuovo spirito nazionale, se non nazionalistico?[32] O forse per la diminuita tensione interiore della comunità paisiana stessa? Il fatto è che, venendo meno quelle due caratteristiche, viene meno sicuramente quel fascino che aveva attirato tanti e suscitato tanta ammirazione.

  1. FECONDITÀ E DEBOLEZZE DI UNA TRADIZIONE

È abitudine diffusa far risalire i frutti del rinnovamento esicasta nella Chiesa ortodossa dei tempi moderni, a quel movimento fiorito in seno alla Chiesa greca, in particolare all’Athos, nel secolo XVIII, denominato movimento dei kollibades, di cui Macario di Corinto e Nicodemo Agiorita, gli editori della Filocalia greca e di numerose altre opere patristiche, liturgiche, innografiche, ascetiche, canoniche, costituiscono gli esponenti di maggior spicco[33]. Eppure le vie per le quali il rinnovamento esicasta ha contagiato i paesi ortodossi ed ha lambito, nel secolo scorso, anche il mondo cattolico, sono riconducibili ad un altro contesto, quello di Paisij Veličkovskij e dei suoi discepoli russi, con la mediazione dell’ambiente e della tradizione romena, fino ad oggi quasi completamente in ombra. Se prendiamo come simbolo di quel rinnovamento la Filocalia, non ci si può riferire ad essa come ad un libro sul quale istruirsi ed imparare a pregare. Prima che essere un libro, la Filocalia è stata l’esperienza quotidiana di una comunità di fratelli, con tutta l’efficacia che una realtà vivente comporta. In tal senso la Filocalia, per Paisij e per i suoi discepoli, non rappresenta soltanto il “deposito” della sapienza di una tradizione, ma il riverbero di un’esperienza sotto gli occhi di tutti, almeno per due generazioni. È questa “vitalità spirituale”, che raccorda la pratica monastica e la vita fraterna sulla centralità della rivelazione cristiana, che consiste in quel «far grazia di sé a noi in Cristo» (Ef 4,32) da parte di Dio, ad aver prodotto tanti frutti. Tutto l’insegnamento era basato sulle Scritture e sui Padri, letti con amorevole sollecitudine e acribia, ma solo allo scopo di imparare a stare sottomessi l’uno all’altro e crescere nell’intelligenza spirituale del mistero di Dio. E se la pratica della preghiera di Gesù veniva privilegiata, lo era perché quella pratica si raccordava direttamente alla radicalità del mistero della rivelazione cristiana, portava cioè a sperimentare il far grazia di sé da parte di Dio, in Cristo, al cuore peccatore, sottomesso a tutti. Ma qui ravviso proprio quella caratteristica a cui sopra accennavo, tipica della tradizione romena e, direi, dell’esperienza romena della tradizione comune: l’uomo spirituale riuscito diventa blînd, si riveste di blîndeţe, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore, dove tutti vanno a cercare quella dulceaţa dumnezeiasca, radice di ogni bontà e fonte di speranza per il faticoso vivere quotidiano. È questo il tessuto connettivo spirituale che lega monachesimo e fedeli, così tipico della Romania e che così “normalmente” ha potuto recepire la fecondità dell’opera paisiana e che può giocare un ruolo di fermento ancora oggi in seno alle chiese ed alle comunità. Quando viene però a mancare la consistenza teologico-spirituale, il radicamento nella tradizione, oppure si indulge ad una visione “ideologica” o “nazionalistica” di quella stessa tradizione, quel tipo di tessuto connettivo tende ad assumere un valore di autodifesa, di chiusura difensiva, perché impoverito ormai della sua fecondità[34].  

  La costituzione del cenacolo del Roveto ardente nel monastero Antim, a Bucarest, tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, ripropone la vitalità di una tradizione che cerca di rispondere alle nuove sfide. A Bucarest, dopo anni di incontri e conferenze tra un gruppo di intellettuali, laici ed ecclesiastici, interessati ed entusiasmati dalla riscoperta della tradizione ortodossa ed in particolare della tradizione esicasta, nei primi anni ’40 si costituisce una Associazione assolutamente originale, “Il Roveto Ardente” (Rugul Aprins)[35], per iniziativa di Sandu Tudor (Alexandru Teodorescu), poeta e saggista, segnato da un viaggio all’Athos nel 1929, monaco poi nel 1944 al monastero Antim con il nome di Agaton, arrestato e condannato ai lavori forzati nel lager sul Canale Danubio-Mar Nero nel 1948-49, monaco del grande abito con il nome di Daniil nel 1952 a Sihăstria e poi a Rărău, nel nord della Moldavia, quindi imprigionato come del resto tutti gli altri nel 1958 e morto nella terribile prigione di Aiud verso il 1961.  Gli incontri avvengono tra il monastero Antim e quello di Cernica, nei dintorni di Bucarest. L’elenco dei partecipanti è assai significativo per l’ambiente romeno di quell’ epoca. Accanto a letterati come Sandu Tudor, al poeta Vasile Voiculescu, al prosatore Ion Marin Sadoveanu, al filosofo Mircea Vulcănescu, al critico letterario Tudor Vianu, al bizantinista Alexandru Elian, al musicista Paul Constantinescu che ha musicato la formula della preghiera di Gesù, si trovavano molti scienziati, matematici e fisici importanti come Alexandru Mironescu, Dan Barbilian (anche importante poeta con lo pseudonimo Ion Barbu), Octav Onicescu, Mihai Neculce, medici come I. Plăcinţeanu, Valentin Poenaru, il filosofo logico Anton Dumitriu, l’architetto Constantin Joja, i generali Gheorghe Stratilescu, Gheorghe Iorgulescu, Constantin Manolache. Numerosi anche gli studenti di allora: André Scrima[36], Roman Braga[37], Felix Dubneac, Nicolae Bordaşiu, Nicolae Nicolau, etc. Tra i monaci che frequentano il gruppo, il più importante è p. Sofian Boghiu che secondo p. Scrima è stato il confessore di Antim, ma vi era anche p. Petroniu Tănase, il futuro igumeno del monastero Prodromu del Monte Athos e p. Arsenie Papacioc, oggi uno degli ultimi grandi padri spirituali del paese. Senza farvi parte hanno frequentato il gruppo anche lo scrittore Valeriu Anania, oggi vescovo Bartolomeo di Cluj, e specialmente il teologo p. Dumitru Stăniloae. La sua edizione della Filocalia apparsa in quel tempo (i primi 4 volumi sono stati pubblicati a Sibiu tra il 1946 ed il 1948) è stata accolta con grande entusiasmo, come un evento provvidenziale, dai membri del gruppo, sebbene questi avessero già avuto tra le mani le antiche traduzioni romene dei testi filocalici che si trovavano nelle biblioteche dei monasteri e soprattutto all’Accademia romena. Di grande importanza per gli intellettuali di Bucarest è risultato il trasferimento di p. Dumitru Stǎniloae da Sibiu a Bucarest dove presenta un corso di mistica ortodossa all’Università, (pubblicato poi nel terzo volume della Teologia Morale Ortodossa nel 1981). Sebbene p. Stăniloae non appartenesse al movimento del “Roveto Ardente” e lo frequentasse raramente, il gruppo ha approfittato pienamente della sua produzione editoriale. I partecipanti si riunivano all’inizio ogni domenica, dopo la liturgia, poi più tardi, la sera, dopo il vespro, per ascoltare delle conferenze e discutere sui temi di spiritualità, tutti connessi col grande tema della divinizzazione dell’uomo tramite la preghiera ininterrotta del Nome di Gesù.  La conferenza che ha dato avvio alle riunioni del gruppo è stata presentata da Sandu Tudor stesso e aveva come titolo “Il viaggio verso il luogo del cuore”.

L’avvenimento, percepito come una rivelazione in quegli anni, è la comparsa di p. Ioan Kulygin, rifugiato da Valaam, monaco di Optina Pustyn, vero centro spirituale per la Russia del sec. XIX, erede e animatore del movimento a cui Paisij Veličkovskij aveva dato l’avvio proprio in Romania nel sec. XVIII[38]. Dopo la chiusura del monastero e varie peripezie, era entrato al servizio del metropolita di Rostov che con l’esercito romeno si stava ritirando davanti all’avanzata dell’armata rossa. Trova rifugio a Cernica nel 1943 fino al gennaio del 1947 quando di nuovo sarà consegnato ai sovietici e di lui si perdono le tracce. Nella sua valigia porta numerosi testi della tradizione russa, che presto verranno tradotti in romeno da p. Gheorghe Roşca, rifugiato di Bessarabia che conosceva perfettamente il russo e diffusi in un samizdat ante litteram. Ricordo in particolare la famosa antologia Che cos’è la preghiera di Gesù secondo la tradizione della chiesa ortodossa, edita a Serdobol nel 1938 a cura del monastero di Valaam. Con la venuta di questo starec, tutto il gruppo ha avvertito di potersi ricollegare ad una tradizione vivente, ad una vera “paternità spirituale”. Quando, con il 1948, il regime comunista scioglieva ogni associazione che non dipendesse direttamente da esso, anche Il Roveto Ardente fu sciolto e le riunioni si tennero con un numero più stretto di persone, ad Antim o in case private fino ad arrivare al 1958, l’anno del processo e delle condanne al carcere duro per quasi tutti i componenti del gruppo. Il dramma del Roveto Ardente diventava il dramma dell’intero paese: volendo stroncare ogni forma di opposizione al comunismo, si voleva “sradicare” ogni tentativo di opposizione spirituale sia laica che ecclesiale. Ma la linfa che aveva nutrito ed entusiasmato quel gruppo continuerà a scorrere sotterranea e ad alimentare figure come quelle di p. Paisie Olaru e p. Cleopa Ilie di Sihăstria, recentemente scomparsi, veri testimoni della tradizione esicasta romena.

Proprio queste due figure, insieme a molte altre, del resto, ho avuto la grazia di conoscere personalmente. Il p. Paisie Olaru (1897-1990), uomo dolcissimo, un vero duhovnic nel senso più tradizionale e tecnico del termine: un padre spirituale e un padre confessore per vocazione. Dal 1922 si era rifugiato solitario a Cozancea, nel distretto di Botoşani, accogliendo man mano tanti figli spirituali, tra i quali anche quello che diventerà il suo figlio spirituale più illustre, il p. Ilie Cleopa. Credo sia l’esempio più unico che raro della vocazione a “confessore” che la Chiesa sarà costretta a riconoscere ordinandolo sacerdote nel 1947 per evitare che i fedeli, usciti dalla sua stanza ormai consolati e benedetti, pensino che non hanno più bisogno di ricevere il sacramento del perdono. E subito dopo viene chiamato a Slatina come confessore della comunità che, insieme a p. Cleopa, là si era trasferita da Sihăstria su ingiunzione del patriarca Justinian che voleva rinnovare il monachesimo[39]. Quando p. Cleopa torna a Sihăstria, anche p. Paisie lo segue e lì vi resta fino alla fine della vita, con la parentesi tra il 1973 e il 1985 nel romitorio di Sihla, a pochi chilometri da Sihăstria. Era normale trovarlo di giorno e di notte nella sua cella rivestito con la stola sacerdotale, senza tonaca per essere più libero nei movimenti a causa di una infermità agli occhi, in attesa dei penitenti. Ho assistito stupito ad una scena che non doveva essere rara a Sihla. Aspettavo di entrare da lui insieme ad alcune donne che erano venute dai villaggi vicini per la confessione. Notavo che una signora chiudeva la porta appena entrava una nuova penitente, ma per socchiuderla dopo poco e stare insieme alle altre ad origliare, quando ancora la penitente era dentro. Non mi sembrava un’azione molto ortodossa! Accortasi della mia meraviglia, mi dice tranquilla e gioiosa: «Quando la nostra compagna dice i suoi peccati, chiudiamo la porta; ma quando parla p. Paisie, perché non ascoltarlo tutte insieme? Così riceviamo più parole sante». La sua benedizione, con le mani ferme sul mio capo e su quello del mio confratello, durata almeno una buona mezz’ora, mi accompagna ancora oggi. Con un tono ed un fare dolci, rammentando tutti gli episodi salienti della vita del profeta Elia come sono narrati nel libro dei Re, mi ha indicato i doni di Dio per me e come io avrei dovuto rispondervi. I suoi pensieri e i pensieri delle Sante Scritture erano diventati un tutt’uno; la sua parola evocava qualcosa che ti toccava dentro perché non semplicemente sua. Era davvero una parola spirituale.

Il figlio spirituale più illustre di p. Paisie, come ho appena ricordato, è il famoso p. Cleopa Ilie, davvero conosciuto in tutta la Romania, al quale venivano in numero foltissimo monaci e fedeli, intellettuali e dignitari ecclesiastici. È deceduto da poco, nel dicembre 1998, a Sihăstria, all’età di 86 anni. In lui si incrociano i destini di molti, in lui la chiesa ed i fedeli vedevano la riserva di energie per affrontare le tribolazioni e la sfida dei tempi. Dopo la caduta di Ceausescu e le dimissioni del patriarca Teoctist, poi respinte dal Santo Sinodo, la Chiesa romena aveva pensato a p. Cleopa come all’uomo capace, essendo al di sopra di ogni compromesso e di provatissima esperienza spirituale, di guidare la chiesa ferita e smarrita. Quando la delegazione patriarcale arriva a Sihăstria, p. Cleopa interroga il suo padre spirituale, p. Paisie, il quale, nella sua saggezza, gli dice semplicemente: «Qui sei padre Cleopa, laggiù il padre Ilie Cleopa». E rifiuta. E assai saggiamente.

Per cogliere l’importanza della figura di p. Cleopa (1912-1998) vale la pena di ripercorrerne brevemente la vita. Appena adolescente, insieme ai suoi due fratelli maggiori, porta al pascolo le pecore nei dintorni della skite di Cozancea, dove si era ritirato in solitudine p. Paisie, di cui diventa discepolo. Nel 1929 chiede di entrare a Sihăstria, allora retto dall’igumeno Ioanichie Moroi, un uomo severo, di stampo athonita, che aveva saputo ridare vigore spirituale al monastero. Dal 1930 al 1942, per obbedienza, è incaricato dell’ovile del monastero. Fa il pastore. Mentre porta al pascolo le pecore, divora i libri che riesce a procurarsi al monastero di Neamţ ed essendo dotato di memoria prodigiosa memorizza ogni cosa. Non sapeva allora che questo incarico, oltre che favorirlo nel cammino spirituale per l’obbedienza compiuta nella pace e per la preghiera e le letture nei lunghi tempi passati in solitudine con le sue pecore, gli avrebbe anche salvato la vita in seguito. Girovagando continuamente sui monti, ne conosceva tutti i sentieri e quando, ricercato dalla polizia, sarà avvertito di fuggire, non c’era per lui rifugio più segreto dei suoi monti. Nel 1945 viene ordinato sacerdote e nominato egumeno di Sihăstria, morendo il p. Ioanichie Moroi. Nel 1948 ha i primi guai con il regime e si ritira per sei mesi nella foresta. Poi, per intervento del patriarca Justinian, che lo vuole a Slatina per rinnovare la vita monastica, vi si trasferisce con una trentina di monaci di Sihăstria. Subito dopo lo si vorrebbe a Neamţ, il più grande monastero della Romania, ma resiste e viene lasciato a Slatina, che diventa, nei pochi anni di vita prima di venire chiuso e dispersa la comunità, un vero centro spirituale, una “accademia spirituale”, sotto la cui influenza rifioriscono anche altri monasteri: Putna, Moldoviţa, Rîşca, ed evidentemente Sihăstria e Sihla.

Verso il 1954, chiamato dal patriarca Justinian, viene a Bucarest insieme a p. Arsenie Papacioc e Sandu Tudor. Si ricrea lo stesso clima di emozioni spirituali davanti alle parole e alla testimonianza di uno stareţ romeno che parla della tradizione esicasta e della preghiera del cuore in modo del tutto naturale. P. Cleopa ritorna a Sihăstria, ma di lì a pochi anni si scatena la tempesta. Tra il 1958 e il 1964 tutti questi uomini e molti altri sono incarcerati, ad eccezione di p. Cleopa che, per la terza volta e questa volta per cinque anni  consecutivi, si rifugia nella più totale solitudine nelle foreste attorno a Neamţ. Di quegli anni il famoso stareţ dirà: «Sono i miei anni di università, l’università della preghiera»[40]. Nel 1964 verrà concessa l’amnistia, ma oramai nessuno ha più l’ardire di riprendere i contatti e poi si preparano nuove prove e afflizioni che a partire dal 1972 il regime, più subdolamente ma più pervasivamente, scatena contro la Chiesa romena. Ma la linfa che aveva nutrito ed entusiasmato quel gruppo continua a scorrere sotterranea.

Nella storia romena la comparsa di una figura “carismatica” che rinnova un centro monastico non significa solo rinnovamento della vita spirituale di quella comunità monastica, ma comporta sempre un irradiamento assai più vasto. Era stato così per Basilio di Poiana Mărului[41], lo è stato su scala più vasta per Paisij Veličkovskij. Lo è stato anche per p. Cleopa, al cui esempio, al cui insegnamento, dentro la cui potenza spirituale, tutta l’ortodossia romena, fedeli e monaci, attingevano forza e consolazione, dentro la vitalità di una tradizione che ancora si sentiva viva. Il gruppo che attorno a lui si era formato negli anni cinquanta fu disperso, ma a loro volta i discepoli, dopo la prigionia, furono i testimoni credibili di una vita spirituale che rinsaldava la gente e animava la loro chiesa, ormai impedita e, per certi versi, irretita nelle spire del regime. Ho avuto con lui lunghi colloqui, sia nella sua casetta in solitudine sopra il monastero di Sihăstria, sia in compagnia dei fedeli che lo stavano ad ascoltare per ore intere, anche nella notte. Sentivo che la sua “potenza” spirituale era ammirata, goduta; costituiva come una coltre di protezione. La domanda che si poneva, a tratti angosciante e condivisa con altri monaci romeni, era: «Sarebbero state in grado le nuove generazioni di trovare la stessa potenza o almeno la stessa vivacità spirituale? Non rischiava il monachesimo di ripararsi dietro il fascino di quest’uomo che incarnava la stessa tradizione, senza però potersi appropriare realmente della sua forza spirituale?». È quello che mi sembra sia successo negli ultimi vent’anni sia ancora sotto il regime comunista con la ricostruzione ed il ristabilimento dei monasteri come tesori d’arte, centri di storia nazionale, luoghi di tradizione e di identità, sia dopo la caduta del regime con l’affannarsi alla ricostruzione ma spesso senza il necessario rinnovamento spirituale, come invece sarebbe auspicabile[42].

Dal punto di vista della ricerca teologica, invece, a pescare profondo nell’ottica della tradizione, a riformulare in senso attuale la visione che da questa grande tradizione promana, ci ha provato p. Dumitru Stăniloae (1903-1993), sicuramente il più grande teologo romeno del sec. XX e certamente fra i maggiori dell’Ortodossia in generale. La sua “creazione” teologica si può definire, come ben ha messo in evidenza Maciej Bielawski, autore di una ricerca dottorale su di lui, una visione filocalica sul mondo[43]. Accanto a p. Florovsky (1893-1979) e a p. Justin Popovič (1894-1979), rispettivamente russo e serbo, ma indipendentemente da questi, p. Stăniloae cercò di costruire una “sintesi neopatristica”, creando un approccio esistenziale alla genuina tradizione dei Padri della Chiesa. Tutta la sua vita la dedicò a tale scopo. Importanti, nel suo lavoro, non sono le singole idee o trattazioni, bensì una visione d’insieme, una tensione di fondo positiva nel vedere Dio legato al mondo creato da Lui piuttosto che il mondo che ha perduto Dio. La teologia è appunto la fatica di vedere l’Invisibile e di guardare al mondo e all’uomo attraverso i Suoi occhi. Non semplicemente “legge” la tradizione, ma la legge in modo originale, profondo, interrogante. La visione del mondo e della vita è strettamente legata alla purificazione spirituale e all’ascesi dell’uomo ed è la visione di Dio che cambia l’intelligenza umana del mondo. Nelle sue virtù e nei suoi difetti p. Stăniloae resta legato al contesto del villaggio rurale romeno tradizionale dove era nato, vivendo in modo particolare la fusione tra Ortodossia e cultura rurale romena che riunisce una concezione poetica, una percezione del cosmo e valori morali definiti. Ha tradotto e commentato numerosi Padri della Chiesa (Massimo Confessore, Atanasio e Cirillo di Alessandria, Gregorio di Nissa, Dionigi Areopagita, nonché i testi patristici raccolti nella voluminosa edizione della sua Filocalia in 12 tomi). Una svista delle autorità statali per la censura ha permesso la pubblicazione delle sue lezioni sull’ascetica e mistica cristiana del 1947 come terzo tomo dell’opera Teologia Morale Ortodossa, avvenuta nel 1981. L’ho incontrato più volte nella sua casetta, zeppa di libri in ogni lingua (di alcuni testi patristici ero riuscito a fargli avere la copia che poi ha sfruttato per le sue traduzioni), a Bucarest, quando aveva deciso di rifiutare gli inviti all’estero per non lasciare sola l’anziana moglie, a lui devota. Teologia e vita in lui si fondevano, il suo pensare era un orientare il vivere e citare i Padri per lui era un riflettere dentro la vita. I temi della sua riflessione teologica che fanno da perno sono “persona” e “comunione”, punti nevralgici del vivere ecclesiale e sociale e della comprensione dell’uomo, sebbene lui li coniugasse in un personalismo comunitario di tipo “nazionalistico”, come se appartenesse alla vocazione romena ortodossa una misura, un’armonia che farebbe difetto ai greci come agli slavi, all’est come all’ovest, posizione evidentemente assai debole[44]. Debolezza, questa, che registro spesso nella Romania di oggi sia in campo religioso (vedi il confronto e la convivenza fra le diverse confessioni cristiane) che culturale (vedi il dibattito sulla modernità ed il rapporto con l’occidente) e che mi auguro venga superata con la fierezza di chi sa di poter contare su una tradizione ricca e preziosa e con l’umiltà di chi lotta con l’altro, come Giacobbe lottò con l’angelo, per poter chiedere una benedizione.

 

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[1] La mostra documentava il contesto storico con uno dei volumi della pregevole Historiae Polonicae, cronaca del polacco Jan Dlugosz, dove sono riportate le vicende storiche della Moldavia con le gesta del Principe Stefano il Grande e con il prezioso Registro Vaticano 578, conservato nell’Archivio Segreto Vaticano, contenente la corrispondenza intercorsa fra Papa Sisto IV (1471-1484) e il Principe Stefano il Grande, che attesta le ottime relazioni tra la Santa Sede ed il Principato della Moldavia.

[2] Con la lettera apostolica, in forma di breve, Pacis nuntius (24 ottobre 1964), Paolo VI aveva designato san Benedetto, padre del monachesimo occidentale e latino, patrono per l’Europa. Per la lettera Egregiae virtutis, cfr. «Enchiridion Vaticanum», 7, 958-968.

[3] «Enchiridion Vaticanum», 9, 1554-1614.

[4] Si veda Cesare Alzati, Lo spazio romeno tra frontiera e integrazione in età medievale e moderna (Piccola biblioteca Gisem 16), Edizioni ETS, Pisa 2001, come pure L’unità multiforme. Oriente e Occidente nella riflessione di Giovanni Paolo II, a cura di C. Alzati e P. Locati (Ricerche Europa, 7), La Casa di Matriona, Milano  1991.

[5] Voievod era l’appellativo riservato ai principi della Valacchia e della Mol­davia come titolo onorifico. Significa in generale “capo”, “comandante (dell’esercito)”, similmente al termine slavo da cui proviene voivoda, con il quale si designava altresì il governatore di una provincia.

[6] Si veda A. Vasiliu, L’architettura dipinta. Gli affreschi moldavi nel XV e XVI secolo (Corpus bizantino), Jaca book, Milano 1998.

[7] A riguardo delle relazioni politiche tra le tre province romene si veda Ştefan Andreescu, Restitutio Daciae. Relaţiile politice dintre Ţara Românească, Moldova şi Transilvania în răstimpul 1601-1659, Albatros, Bucarest 1989.

[8] Sulla Chiesa Ortodossa Romena a quindici d’anni dalla caduta di Ceausescu si appunta la riflessione dell’articolo di Elia Citterio, Natalino Valentini e Iustin Marchiş, La testimonianza e il presente. Chiesa ortodossa romena, «Il Regno» 18/2005, 629-645.

[9] Apophtegmata, Rufus 1.

[10] Giovanni Climaco, Scala XXVII, PG 88, 1112c. Cf. P. Adnès, Hésychasme, DS VII, coll. 381-399.

[11] II monaco romeno padre Ioanichie Bălan, che per primo ha cercato di radunare e sistemare tutta una serie di dati riguar­danti la tradizione esicasta della sua patria, ha intitolato un suo recente libro che raccoglie il frutto del suo pluriennale lavoro Vetre de sihastrie româneasca, Institutul biblic, Bucarest 1982, che si potrebbe rendere con Centri di insediamento di vita esicasta romena. La parola sihastrie, dal ter­mine greco hesychastérion, indica il luogo dove vivono gli esica­sti, in romeno sihastri. Questi esicasteri hanno conosciuto una tale fortuna e sono stati così numerosi che la migliore soluzione per presentarli è parsa all’autore quella di individuare i vari centri o aree o zone geografiche che ne hanno visto fiorire stabili e importanti raggruppamenti. Vengono così descritti ben venti­quattro di questi centri distribuiti nelle cinque regioni che co­stituiscono 1’odierna Romania: Dobrogea, Moldavia, Terra Ro­mena o Ungro-Valacchia, Banat e Transilvania.

[12] Vetre de sihastrie româneasca, Institutul biblic, Bucarest 1982, p. 9.

[13] Ivi, pp. 18-19.

[14] Nicodemo di Tismana (prima metà del sec. XIV – 1406), originario pro­babilmente del sud della Serbia, monaco e poi superiore di Chilandar sull’A­thos, fonda nel 1370 in Valacchia il monastero di Vodiţa. Sospinto più a nord dall’occupazione ungherese della regione del Banat di Severin, fonda il mona­stero di Tismana dove muore il 26 dicembre 1406. Importante la sua corri­spondenza con l’ultimo patriarca di Tărnovo, Eutimio, e pregevole il suo Li­bro dei quattro vangeli, capolavoro di calligrafia, copiato tra il 1404 e il 1405 in lingua slavonica di redazione serba. Il santo Sinodo della Chiesa ortodossa romena, nel 1955, ha esteso a tutta la Romania il culto del santo.

[15] Basilio di Poiana Mărului è stato recentemente canonizzato dalla Chiesa Ortodossa Romena. La skite di Poiana Mărului (letteralmente: “radura del melo”) si trova nel comune di Jitia, distretto di Vrancea, circa 150 km a nord di Bucarest. Fu fondata dallo stareţ Basilio nel 1733, sulla cui figura si può vedere D. Raccanello, La preghiera di Gesù negli scritti di Basilio di Poiana Mărului, Alessandria 1986 (tr. romena: Rugăciunea lui Iisus în scrierile stareţului Vasile de la Poiana Mărului, Deisis, Sibiu 1996). Sulla storia e lo sviluppo dell’esicasmo in terre romene, cfr. D. Stă­niloae, Isihaşti sau sihaştrii şi rugăciunea lui Iisus în tradiţia ortodoxiei româneşti, in  Filocalia, vol. VIII, Institutul biblic, Bucarest 1979, pp. 555-587.

[16] Vedi I. Bălan, Pateric românesc, Institutul biblic, Bucarest 1980, p. 621.

[17] In romeno vedi Învăţăturile lui Neagoe Basarab către fiul său Theodosie. Texte ales şi stabilit de Florica Moisil şi Dan Zamfirescu, traducerea originalului slavon G. Mihăilă, repere istorico-literare alcătuite în redacţie de Andrei Rusu, Minerva, Bucureşti 1984, p. 125. In italiano vedi Come vivere e praticare l’esichia. Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio. Traduzione, studio introduttivo e note a cura di Adriana Mitescu, Bulzoni (Biblioteca di cultura 480), Roma 1993, p. 69. Il passo è tratto dal cap. V, “Discorso sul timore e l’amore di Dio”, conservato solo nella stesura romena.

[18] Su di lui si vedano i testi da me curati: Paisij Veličkovskij, Autobiografia di uno starets, Abbazia di Praglia 1988, Scritti monastici (tradotta in francese nella collana «Spiritualité orientale», n. 54, Abbaye de Bellefontaine 1991), ripubblicato presso le ed. Qiqajon, Magnano (BI) 1998; (in romeno: Cuviosul Paise de la Neamt, Autobiografia unui “stareţ”, urmată de Viaţa “stareţului” Paisie scrisa de monahul Mitrofan, a cura di Ioan I. Ică jr., Deisis, Sibiu 1996. Nella seconda edizione, rivista e aggiornata, il titolo suona: Autobiografia şi Vieţile unui stareţ, urmate de Aşezăminte şi alte texte, Sibiu 2002; La scuola filocalica di Paisij Veličkovskij e la Filocalia di Nicodemo Aghiorita. Un confronto, in T. Spidlik, K. Ware e Aa.Vv., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Magnano (BI) 1991, pp. 179-207; La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità in N. Kauchtschischwili, A.-AI. N. Tachiaos  e  Aa.Vv., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon , Magnano (BI) 1997, p. 97-114.

[19] Cf. Moshe Rosman, Founder of Chassidism. A quest for the historical Ba’al Shem Tov, Berkeley 1996, Univ. of California Press; Gershom David Hundert ed., Essential papers on Hasidism. Origins to present, New York-London 1991, New York Univ. Press; Ladislau Gyémánt, ed., Hasidism (Pietism) in Romania, International Conference, Cluj-Napoca, october 11-13, 1993, in «Studia Judaica», III, Editura Sincron, Cluj-Napoca 1994.

[20] Nel suo Sfinţenia – împlinirea umanului (Curs de teologie mistică) (1935-1936), ediţie îngrijită de Teodosie Paraschiv, Ed. Mitropoliei Moldovei şi Bucovinei, Iaşi 1993, cap. XVI, Rugăciunea lui Iisus, esenţa Paisianismului, Nichifor Crainic sostiene con ragione che il sec. XVIII è «veacul de aur al ortodoxiei româneşti» (p. 150).

[21] Anche nei territori ucraini, nel corso del sec. XVII, si assiste al fenomeno della fioritura di innumerevoli skiti. Un’esperienza particolarmente significativa fu quella di Iov Knjahynyc’kyj, il fondatore della skit di Manjava (una remota località sul versante ucraino dei Carpazi). Tra i testi ispiranti della Regola di Manjava incontriamo Nil Sorskij e le costituzioni pseudo-basiliane. Cf. Senyk S. (ed.), Sottomessi all’evangelo. Vita di Iov di Manjava, Testamento di Teodosio, Regola dello skytyk, Qiqajon, Magnano (BI) 2001; Id., “L’esicasmo nel mondo ucraino prima di Paisij Velichkovskij: le testimonianze della letteratura monastica”, in Amore del bello, pp. 279-288; Id., “L’hésychasme dans le monachisme ukrainien”, in «Irénikon» 62 (1989) 172-212.

[22] Cf. Isaac Dascălul, Biografia inedita dello starets Paisij il Grande, a cura di  D. Zamfirescu, «Revista fundaţiei Drăgan», n. 3-4, 1987, p. 498.

[23] Grigorie Dascălul (1765-1834), tonsurato monaco a Neamţ da Paisij nel 1790, fino al 1802 a Bucarest alla scuola di S. Saba, di nuovo a Neamţ tra il 1802 e il 1819, poi a Căldăruşani e dal 1823 metropolita di Ungrovalacchia. Aveva ricevuto da Paisij l’obbedienza di dedicarsi alla traduzione dei testi patristici. La sua biografia dello stareţ Paisij, che porta il titolo Povestire din parte a vieţii prea cuviosului părintelui nostru Paisie, è inserita nel volume Adunare a cuvintelor celor pentru ascultare, Neamţ 1817. Ora si può leggere in D. Zamfirescu, Paisianismul, un moment românesc în istoria spiritualităţii europene, Roza vânturilor, Bucureşti 1996, pp. 117-141, come anche in Cuvinte despre ascultare, publicate de ucenicii cuviosului Paisie stareţului la mănăstirea Neamţu în anul 1817, date acum pe slovă nouă şi grai îndreptat de Virgil Cândea, Anastasia, Bucarest 1997, pp. 171-191. Ed anche in Cuviosul Paisie de la Neamt (Velicicovski), Autobiografia şi Vieţile unui stareţ, urmate de Aşezăminte şi alte texte, a cura di Ioan I. Ică jr., Deisis, Sibiu 20022 (1996), p. 333-351.

[24] D. Zamfirescu, Paisianismul,  p. 119; Cuvinte despre ascultare, p. 172.

[25] Cf. D. Zamfirescu, Paisianismul, p. 128; Cuvinte despre ascultare, p. 183.

[26] Si tratta della lettera scritta ai discepoli Ambrogio, Atanasio e Teofanie, partiti per la Russia nel 1777, dove Paisij descrive gli avvenimenti  relativi al trasferimento da Secu a Neamţ avvenuto nel 1779. Il testo si può vedere in Sf. Paisie de la Neamt, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, a cura di Valentina Pelin, Chişinău 1998, ed. Tipografia centrală, vol. I, pp. 84-98.

[27] Cf. E. Citterio, La scuola filocalica di Paisij Velichkovskij e la Filocalia di Nicodimo Aghiorita. Un confronto, in T. Spidlik, K. Ware, E. Lanne, M. Van Parys e Aa.Vv., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Magnano (BI) 1991, p. 187-8.

[28] Lettera a Teodosio, in N. Kauchtschischwili, A. -Ai. N. Tachiaos  e  Aa.Vv., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Magnano (BI) 1997, p. 289.

[29] Una rassegna completa della produzione di questi traduttori romeni e di altri ancora si trova negli studi di  N. A. Ursu, Şcoala de traducători români din obştea stareţului Paisie de la Mănăstirile Dragomirna, Secu şi Neamţ, in Românii în reînnoirea isihastă, Trinitas, Iaşi 1997, p. 39-82 e di V. Pelin, Contribuţia cărturarilor români la traducerile Şcolii paisiene, ibidem, p. 83-120.

[30] Si veda, a cura di Clement Popescu e Ioan I. Ică, il volume Vieţile, povăţuirile şi testamentele sfinţilor stareţi Gheorghe şi Calinic de la Cernica.  Monumentele spiritualităţii cernicane, Deisis, Sibiu 1999. Una parziale traduzione francese si trova in R. Joanta, Rouma­nie. Tradition et culture hésychastes (Spiritualité orientale 46), Abbaye de Bellefontaine 1987, pp. 207-212, 263-264.

[31] Si può consultare la tavola prospettica dell’irradiazione paisiana con l’elenco impressionante dei discepoli e dei monasteri sotto l’influenza di Paisij , predisposta da Cetverikov, pubblicata solo nella versione romena del vescovo Nicodim: S. Cetverikov, Paisie stareţul Mânăstirii Neamţului din Moldova. Viaţa, învăţătura şi influenţa lui aspra Bisericii Ortodoxe, Neamţ 1933. Cf. anche V. Kotelnikov, L’eremo di Optina e i Grandi della cultura russa, Casa di Matriona, Milano 1996.

[32] Si veda Ioan I. Ică, La posterità romena dello ‘starec’ Paisij in N. Kauchtschischwili, A.-Ai. N. Tachiaos , V. Pelin e Aa.Vv., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Magnano (BI) 1997, p. 245-266. Ed anche, dello stesso, Posteritatea românească a paisianismului şi dilemele ei, in Paisie De La Neamt, Autobiografia şi Vieţile unui stareţ, urmate de Aşezăminte şi alte texte, 2a ed. Deisis, Sibiu 2002, p. 55-83.

[33] Per tutti questi aspetti si veda il mio Nicodemo Agiorita, in La théologie byzantine et sa tradition, II, sous la direction de C. G. Conticello & V. Conticello, Brepols (Corpus christianorum), Turnhout 2002, p. 905-997.

[34] Pur nella stima per lo spirito con cui sono state formulate, trovo deboli le posizioni espresse da p. Stăniloae nel suo Reflexii despre spiritualitatea poporului român, Scrisul Românesc, Craiova 1992,. Non si tratta di riservare al popolo romeno l’esclusiva di una misura, di un’armonia spirituale che farebbe difetto ai greci come agli slavi, all’est come all’ovest. Nel mondo spirituale niente è esclusivo di nessuno perché tutto è grazia comune; particolare è solo il timbro dell’esperienza di uno rispetto a un altro, di un popolo rispetto ad un altro, di una tradizione rispetto ad un’altra, in simbiosi reciproca perché il mistero è il medesimo per tutti.

[35] Si veda André Scrima, Timpul rugului aprins. Maestrul spiritual în tradiţia răsăriteană. Prefaţă de Andrei Pleşu. Volumul îngrijit de Anca Manolescu, Humanitas, Bucarest 1996 [versione italiana a cura di Adalberto Mainardi: A. Scrima, Il Padre spirituale, Qiqajon, Magnano (BI) 1999]. Una buona documentazione si trova in Mihai Rădulescu, Rugul aprins. Duhovnicii ortodoxiei, sub lespezi, în gherlele comuniste, Editura Ramida, Bucureşti 1993. Una testimonianza di un altro partecipante è quella di Roman Braga (ora egumeno in un monastero ortodosso in Michigan, USA), Rugul Aprins, «Lumină lină», nr. 2 (mai 1991), pp. 117-128, ripreso nel volume Pe drumul credinţei, Mănăstirea Adormirea Maicii Domnului, HDM Press, 1995, pp. 171-183.  Si veda ancora Antonie Plămădeală, Rugul Aprins – moment de spiritualitate românească, «Sæculum. Revistă de sinteză culturală» (Sibiu 1995), serie nouă, Anul I (III), nr. 3–4 (12); Ieroschimonahul Daniil Sandu Tudor, Taina Rugului Aprins. Scrieri şi documente inedite, Anastasia, Bucarest 1999. In particolare, Ioan I. Ică Jr., Il Roveto ardente. Una fioritura dell’ideale esicasta all’alba del comunismo in Romania, in Testi e temi nella tradizione del monachesimo cristiano (Atti del simposio al Pontificio Ateneo S. Anselmo, Istituto Monastico, Roma 28 maggio-1 giugno 2002), Pontificio Ateneo S. Anselmo (Studia anselmiana, 140), Roma 2004, p. 471-488.

[36] Suo è il pregevole articolo sulla tradizione spirituale romena: Un Moine De L’Eglise Orthodoxe Roumaine, L’avénement philocalique dans l’Orthodoxie roumaine, «Istina» 5 (1958), pp. 295-328, 443-474.

[37] Roman Braga, Ogni monaco ha un suo segreto con Dio, Lipa Edizioni, Roma 1999.

[38] Cuviosul Ioan cel Străin (din arhiva Rugului Aprins), ediţie alcătuită de prof. Gheorghe Vasilescu, cu o postfaţă  de arhim. Sofian Boghiu, Anastasia (Comorile pustiei 28), Bucarest 1999.

[39] Dal punto di vista dei rapporti Stato-Chiesa, in particolare per il programma di “apostolato sociale” che il patriarca Justinian Marina ha teorizzato, si veda lo studio ben documentato di Olivier Gillet, Religion et nationalisme. L’idéologie de l’Eglise Orthodoxe Roumaine sous le régime communiste, Editions de l’Université de Bruxelles (Spiritualités et pensées libres), Bruxelles 1997, specialmente le pp. 17-45; e più in generale, per una valutazione della situazione romena sotto il regime comunista, Trevor Beeson, Discretion and valour. Religious conditions in Russia and eastern Europe, revised edition, Fortress Press, Philadelphia 1982, pp. 350-379.

[40] A questi anni risale la composizione, edita molto più tardi, di quella che è forse l’opera più “esicasta” di p. Cleopa: Urcuş spre înviere (Predici pentru monahi, Predici filocalice), Editura Mitropoliei Moldovei şi Bucovinei, Iaşi 1992, 1998. Si veda anche I. Bălan, Viaţa şi nevoinţele arhimandritului Cleopa Ilie, Editura Mitropoliei Moldovei şi Bucovinei, Iaşi 1999 (trad. italiana: Il mio padre spirituale. Vita e insegnamenti di Cleopa di Sihastria, Lipa, Roma 2002,).

[41] Si veda Dario Raccanello, La preghiera di Gesù negli scritti di Basilio di Poiana Mărului, Alessandria 1986 (tr. romena: Rugăciunea lui Iisus în scrierile stareţului Vasile de la Poiana Mărului, Deisis, Sibiu 1996).

[42] Valga per tutti l’esortazione del metropolita Serafim Joantă, Nevoia de înnoire a monahismului, «Deisis», 3-4, Sibiu 1996, pp. 24-26.

[43] Maciej Bielawski, Părintele Dumitru Stăniloae, o viziune filocalică despre lume, Deisis, Sibiu 1998. Ricchissimo di informazioni e contenente la bibliografia completa del grande teologo il volume dedicatogli per i suoi novant’anni, a cura di Ioan I. Ică jr.: Persoană şi comuniune, Editura arhiepiscopiei ortodoxe Sibiu, Sibiu 1993. Molto interessante è anche lo studio di un teologo evangelico Jürgen Henkel, Indumnezeire şi etică a iubirii în opera părintelui Dumitru Stăniloae, Deisis, Sibiu 2003.

[44] Queste vedute sono riassunte ed espresse nel suo Reflexii despre spiritualitatea poporului român, Scrisul Românesc, Craiova 1992. A livello più generale, per chi si interessa di cultura romena, è proficua per la comprensione di questo tipo di “debolezza” la lettura di Lucian Boia, Istorie şi mit în conştiinţa românească, Humanitas, Bucarest 1997.