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Mosca, 22-24 settembre 1999. Intervento di p. Elia Citterio, pubblicato in Tradizione della Chiesa e Tradizione della scuola. Atti del simposio teologico internazionale (in russo), Mosca 2002, ed. Istituto superiore di scienze religiose s. Filarete di Mosca, pp. 92-122.


1       introduzione

Il tema che mi è stato proposto eccede le mie conoscenze e, se ho accettato l’invito, di cui ringrazio per la cortesia e la stima dimostratemi, l’ho fatto per l’opportunità che mi veniva offerta di ripensare in chiave positiva, come mi è stato espressamente richiesto, la tradizione occidentale dell’intelligenza della fede. Il mio intervento vuol essere una riflessione appunto sul valore del nesso ‘Tradizione-Scuola’ nel contesto di una fede vissuta dalla cristianità occidentale, in specie di confessione cattolica, secondo quello che io ritengo essere l’apporto originale di questa parte di mondo, sviluppatosi separatamente, anche se non indipendentemente, dall’oriente cristiano.

Parlare della fede significa parlare della percezione del mistero di Dio; in particolare, parlare della fede di una chiesa significa alludere alla visione che essa si è fatta e continua a farsi del mistero di Dio, in Cristo, secondo la potenza dello Spirito Santo. Schematizzando, mi sembra che la fede dica essenzialmente tre cose:

1) anzitutto, visione. Fede come “non il fondamento della confessione di tutti, ma quella potenza spirituale che sostiene il cuore con la luce dell’intelligenza”[1]. Nella tradizione ebraica è detto che la forza del Messia non è quella di annunciare solamente, ma di far vedere. E l’immagine più incisiva che ho trovato della fede come visione è quella del passo di 2 Re 6,17, dove il profeta, circondato dall’esercito arameo, non dispera dell’aiuto del Signore, diversamente dal suo servo in preda all’angoscia: “Eliseo pregò così: « Signore, apri i suoi occhi; egli veda ». Il Signore aprì gli occhi del servo, che vide. Ecco, il monte era pieno di cavalli e di carri di fuoco intorno a Eliseo”. Come una chiesa ha coltivato e coltiva la sapienza di una visione che riveli ai cuori il volto di Dio e lo splendore delle creature? Il motto dell’Ordine domenicano è “verità”, ma non la sua difesa, piuttosto la sua percezione[2]. È la verità di una tradizione e di una scuola che, prima di preoccuparsi di difenderla contro qualcuno, si sforza di coglierla, di gustarla e farla gustare, di amarla e testimoniarla .

2) in secondo luogo, dice relazione, non possesso. Lo sforzo della fede è uno sforzo di ‘memoria’, una tensione della memoria. Dal comando di Dio al popolo d’Israele “guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita” (Deut 4,9) a quello di Gesù ai suoi discepoli “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19), la memoria dei credenti è agita da quello Spirito promesso da Gesù alla sua chiesa: “Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26). Fare ‘memoria’ di Dio lungo la storia significa tenere aperta la nostra storia alla salvezza che viene da Lui, significa sperimentare in una ampiezza senza confini e in una fraternità sempre da realizzare quel suo ‘far grazia di Sé a noi in Cristo’, come dice Paolo: “… perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato [ in greco=ha fatto grazia di Sé] a voi in Cristo” (Ef 4,32). È il mistero della santità della chiesa, vissuta non in funzione dell’esercizio di un potere, che sa troppo di questo mondo, ma in funzione dell’intimità di un rapporto, in ragione cioè della remissività del cuore alla rivelazione del mistero di Dio e del suo progetto di comunione con gli uomini. Da qui prende vigore e sostanza  ogni ideale di evangelizzazione e quindi di testimonianza della fede nel mondo. Come una chiesa ha percepito e dato ragione di questi nessi nella sua storia?

3) in terzo luogo, fede dice cammino, non meta. Cammino che dia ragione delle aspirazioni del nostro cuore, che risponda alle attese ed alle domande ineludibili e supreme dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Cammino dove le svolte decisive nella storia del pensiero umano sono sempre momenti privilegiati di una comprensione nuova ed approfondita del mistero cristiano capace di liberare contemporaneamente cuore ed intelligenza del credente per individuare, nell’umanità, nuove possibilità razionali ed etiche. Di quali speranze, di quale speranza per il mondo è stata ed è portatrice una chiesa?

Tutte queste domande nascono dentro un’immagine di chiesa sancta simul et semper purificanda [3], riscoperta nella coscienza dei fedeli, per l’azione del concilio Vaticano II, nella sua dimensione misterica prima di ogni definizione giuridica che aveva fatto prevalere una ecclesiologia dove tutto era pensato sotto l’obbligazione della legge, facendo perdere di vista la realtà del suo costituirsi e agire nella storia dell’uomo e per l’uomo. Una chiesa che rinnovi l’esperienza della Pentecoste mediante l’annuncio del Vangelo nelle circostanze attuali della storia è una chiesa che “non si preoccupa più di proteggere i diritti di un Dio ‘sempre più dissomigliante’ che assilla, sin dal concilio Lateranense IV (1215) la coscienza dell’Occidente, ma desidera rendere prossimo il Dio santo che si rivela ‘sempre più umano’. La Chiesa rinuncia così ad un sapere sicuro sulla società per lasciarsi raggiungere dalla vocazione umana che la supera. Si dà un ruolo più modesto, ad immagine del Dio di cui è testimone”[4].

Una precisazione ancora sui termini usati. Di per sé le espressioni ‘Tradizione della Chiesa’ e ‘tradizione della scuola’ non si equivalgono affatto. Riferito alla Chiesa, Tradizione, con la T maiuscola, allude non soltanto alla trasmissione della Rivelazione come un insegnamento o una dottrina, ma anche e soprattutto come una esperienza di Dio nel Cristo e nello Spirito. Corrisponde al Vangelo stesso trasmesso di generazione in generazione nella e per la Chiesa. È la Tradizione che viene dagli apostoli, ricevuta con tutti i frutti che essa ha prodotto. La Chiesa in effetti trasmette tutto ciò che è; essa stessa è la Tradizione vivente nel presente, che però è ricca del passato colto nella sua fecondità e continuamente aperta al futuro finché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,28). Il termine tradizione (con la t minuscola) indica il processo di trasmissione; usato al plurale designa la diversità delle forme di espressione, sottolinea la differenza nell’unità e nello stesso tempo designa l’insieme di una eredità a partire da una esperienza fondante che cresce nel tempo e determina l’orientamento di un modo di pensare, di un modo di sentire, di un modo di praticare, di un modo di vivere. Si può parlare così delle tradizioni dottrinali, teologiche, mistiche, spirituali, religiose, culturali, all’interno della stessa esperienza cristiana, come espressioni dell’unica vita della Chiesa[5]. A tale significato,  il termine ‘scuola’ aggiunge l’elaborazione riflessa, l’autocoscienza dottrinale o spirituale che via via si è costruita rispondendo all’ispirazione dell’esperienza originaria e alle sollecitazioni della storia, costituendosi come una vera e propria eredità capace di indicare uno dei modi possibili di vivere ed approfondire l’esperienza cristiana nella Chiesa. In questo ambito, scuola può stare per corrente, movimento, tendenza, facendo sempre riferimento alla coscienza di una elaborazione riflessa.     

Dando uno sguardo sintetico e per forza di cose sommario alla storia dell’occidente, ravviserei tre momenti-chiave che hanno segnato profondamente e durevolmente l’esperienza religiosa di questa parte della cristianità nel secondo millennio. Il primo momento, che io definirei teologico-creativo, lo colloco nei secoli XII-XIII, con il sorgere degli Ordini mendicanti, francescano e domenicano, e l’affermarsi della grande scolastica; un secondo momento, che chiamerei spirituale-apostolico, nel secolo XVI, con la nascita dei grandi Ordini religiosi caratterizzati da un forte zelo apostolico, nel periodo che comunemente viene definito della Controriforma cattolica, ma che sarebbe più esatto denominare della Riforma cattolica; infine, un terzo momento, che denominerei ecclesiale-ecumenico, nel secolo  XX, con la crisi modernista ed il risveglio della coscienza ecclesiale, ad opera del concilio Vaticano II, con lo sviluppo della teologia biblica, con il ritorno alla tradizione patristica e la fiducia in un dialogo con l’esperienza contemporanea.

  • PRIMO MOMENTO teologico-creativo: I SECOLI XII-XIII[6]

Nel suo volume La Teologia come scienza. La Teologia nel XIII secolo, Milano 1971 (1a ed. francese, Parigi 1957), padre Marie-Dominique Chenu, domenicano, cita in esergo un passo del primo libro della Politica di Aristotele: “Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine … se ne avrebbe una visione quanto mai chiara”[7]. Così l’illustre storico della teologia medievale coglieva la nascita della teologia come scienza all’introdursi della epistemologia aristotelica in occidente nel sec. XIII. Con i suoi confratelli al Saulchoir, la prestigiosa casa di studio dei padri domenicani, attorno agli anni 1920-1930, applicando il metodo che aveva proposto e praticato il p. Lagrange per lo studio della S. Scrittura alla Scuola Biblica di Gerusalemme, tolse Tommaso d’Aquino dal suo piedistallo per farlo tornare in terra vivo e pensante nella sua stessa fede, tra gli uomini e nella loro cultura[8]. In effetti, nel loro impiego comune, i termini ‘scolastica’, ‘scolastico’, suscitano spesso un’immagine di cose ripetute con pedanteria, astruse e sottili, secondo le critiche che dal rinascimento in poi furono portate contro il sistema di pensiero e di insegnamento che caratterizza il medio evo, misconoscendo la creatività di un pensiero e di una teologia le cui acquisizioni sono entrate a far parte del comune universo mentale occidentale.

Lutero, che conosceva bene i teologi scolastici nominalisti dell’ultimo medioevo, specie Gabriel Biel (†1495), nel 1517 enuncia una serie di tesi ‘contra scholasticam theologiam ’; Erasmo, l’umanista, denuncia il suo ‘linguaggio barbaro’ e la ‘contaminazione’ con la filosofia pagana. Le critiche aspre ed ingenerose al concetto di ‘analogia entis ’ di un teologo come Barth (1886-1968) e di un filosofo come Heidegger (1889-1976) sono rivelatrici dell’equivoco intorno alla scolastica. Un moderno non si trova a suo agio davanti ad un’opera della scolastica. La struttura dei ragionamenti, la divisione dei testi, la monotonia delle formule e dei procedimenti impiegati gliela rendono ostica e rischierebbe di non accorgersi nemmeno dell’estrema varietà di uomini e di generazioni che hanno caratterizzato la scolastica, da un s. Anselmo d’Aosta (†1109) a un Guglielmo d’Ockham (†1349), con un dialettico come Abelardo (†1142) e un autore mistico come Riccardo di s. Vittore (†1173), insieme ai grandi del sec. XIII, s. Alberto Magno (†1280), s. Bonaventura (†1274) e s. Tommaso d’Aquino (†1274).

Per uno scolastico pensare è un ‘mestiere’, le cui leggi sono minuziosamente fissate. Leggi della grammatica[9], prima di tutto, quasi promossa alla dignità di disciplina filosofica. I maestri delle università medievali operano secondo le tecniche professionali della scuola. I loro stessi sermoni sono scolastici e la Chiesa accoglierà i più grandi tra loro come ‘Dottori’, dopo i ‘Padri’.

Lo scolastico è anche e ancor più un dialettico. La dialettica, l’arte di costituire e di utilizzare gli strumenti della discussione, l’arte di convincere o di confutare l’avversario, è assai più di uno strumento della critica al servizio della scienza; si inserisce nel tessuto stesso dell’intelligenza e fornirà, ad Anselmo come a Mastro Eckhart (†1327), rigore logico alle più elevate intuizioni speculative. In s. Tommaso il senso del relativismo dei metodi ed il realismo psicologico manterranno nel suo ruolo strumentale il formalismo dialettico e quando Capponi della Porretta, nel sec. XVI, pretenderà ridurre la Somma teologica dell’Aquinate in formule sillogistiche, tradirà il suo maestro e la stessa teologia riducendo il testo ad una armatura dialettica[10]. Ora, quello che dà la fisionomia specifica al lavoro scolastico, è l’applicazione della dialettica all’intelligenza di un testo. È qui che si rivela, nella sua struttura mentale e letteraria, il tratto saliente della scolastica sia in filosofia che in teologia: una forma razionale di pensiero che si elabora coscientemente e volutamente a partire da un testo stimato in quanto facente autorità. Una volta venuta meno la necessità o la convenienza del ricorso al principio di autorità, cessa la scolastica[11]. Se la Scuola lavora su testi e pratica il metodo di autorità, la causa risiede nella evoluzione stessa della civiltà occidentale e dei suoi metodi di lavoro. Le tappe dello sviluppo culturale nel medio evo occidentale dipendono da una scoperta progressiva dell’eredità letteraria, scientifica ed estetica dell’Antichità greco-latina. La rinascita carolingia nel sec. IX, la scolastica dei sec. XII-XIII, il rinascimento del sec. XV, sono i grandi nodi storici. L’imitazione degli Antichi[12] è la base della cultura e, nella pedagogia delle Scuole, il principio primo del lavoro. Il prototipo del lavoro intellettuale è il ‘commentario’: il passato si iscrive nel presente del pensiero grazie all’esposizione dei testi ‘autentici’, anche quando, sul commentario letterale, prevarrà la letteratura delle questioni e delle dispute. L’opera di Tommaso d’Aquino, ad esempio, comporta anzitutto dei commentari: del maestro delle sentenze Pietro Lombardo (†1160), di Aristotele (†322a.C.), di Boezio (†524), di Dionigi l’Areopagita (V-VI sec.). Il metodo di autorità si combina molto bene con una confidenza nella ragione. In effetti, nel medio evo, l’equilibrio tra fede e ragione è assai diverso da quello imposto dai clichés apologetici del sec. XIX e si definisce non per la spartizione delle sovranità ma per una interferenza attenta alle risorse e ai metodi tanto in filosofia quanto in teologia. I maestri parigini protestano contro quanti ‘procedono filosoficamente in teologia e teologicamente in logica’.   

Ed infine, va sottolineata la potenza d’invenzione nella scolastica. Gli uomini che hanno costruito le cattedrali non potevano ridursi a commentari; hanno costruito le ‘Somme’. L’imitazione degli Antichi non ha soffocato l’ispirazione, soprattutto l’ispirazione religiosa. Rinascita ed evangelismo furono creatori di un’epoca di cui s. Francesco d’Assisi (1182-1226) e s. Tommaso d’Aquino (1225-1274) sono stati i maestri. Tradizione (il termine non era ancora appesantito dalle controversie protestanti) e progresso erano vissuti come un tutt’uno. Significativa l’immagine usata da Bernardo, il maestro delle giovani generazioni della scuola di Chartres: “Noi vediamo più lontano dei nostri avi, siamo nani sulle spalle di giganti”[13]. Giovanni di Salisbury (1110-1180) aveva scritto: “Ogni metodo è apertura per inventare. La scienza non coglie il suo frutto presso chi non ha il gusto della ricerca”[14]. E Gilberto di Tournai così insegna nel suo De modo addiscendi : “Non troveremo mai la verità se ci accontentiamo di quello che è già stato trovato. Coloro che hanno scritto prima di noi non sono per noi dei padroni, ma guide. La verità è aperta a tutti”[15].

Se s. Tommaso è un filosofo scolastico, non lo è perché sostiene un certo numero di tesi comunemente accettate in una ‘philosophia perennis ’ o perché costruisce un accordo tra ragione e fede, ma perché, maestro nella lettura degli Antichi (Aristotele, Dionigi l’Areopagita), fa proprio tutto il capitale della ragione antica e lo sfrutta secondo le risorse della dialettica, che la logica e la psicologia aristoteliche tengono al riparo da vane sottigliezze. Ma soprattutto è un teologo scolastico. La controversia antiprotestante, poi antirazionalista, ha smembrato, per le esigenze della polemica, l’unità interiore del sapere teologico nella quale lavoravano e respiravano Tommaso e i suoi contemporanei. Maestro in teologia, commentava le Scritture e questo corso di esegesi dottrinale non costituiva solamente il suo insegnamento ufficiale, bensì il terreno da cui saliva la linfa alla sua scienza. Sebbene le citazioni scritturistiche di cui è disseminata la sua opera spesso sono semplicemente decorative alla maniera del tempo, è però la sostanza stessa del suo lavoro che risulta scritturistica. La sua teologia si nutre di quell’evangelismo che costituisce l’anima della rinascita dei secoli XII-XIII. Di qui quella statura perfetta e quella ricchezza spirituale il cui principio è la fiducia della fede nelle risorse della ragione, dalla dialettica alla metafisica. Va colto qui il carattere proprio della teologia scolastica, in particolare il capitale permanente del tomismo, un bel frutto della sola rinascita riuscita nella cristianità occidentale.

Non si comprenderebbe il fenomeno della scolastica senza tener conto di alcune coordinate storiche: il ruolo dell’università, l’ingresso di Aristotele, l’evangelismo. L’università, creazione del nuovo ordine nel passaggio dal feudo ai comuni, dove la vitalità economica e culturale appartiene ormai alle città, è forse la più significativa istituzione della nuova cristianità. Le antiche scuole monastiche ed episcopali, sebbene producano ancora figure ed opere di grande levatura, subiscono un declassamento istituzionale. La Chiesa si trova di casa nelle sedi universitarie; a volte è il papato stesso che intraprende l’iniziativa di creare centri universitari, come a Tolosa, Siena, Pavia; in ogni caso favorisce il diritto di associazione e libera l’istituzione dal conservatorismo locale dell’antica scuola episcopale. In effetti, la mobilità e la centralizzazione dei nuovi ordini religiosi, con il loro carattere internazionale, rispondono adeguatamente alla evoluzione della società e della Chiesa. L’inglese Alessandro di Hales, il tedesco Alberto Magno, gli italiani Bonaventura e Tommaso d’Aquino, faranno di Parigi[16] la capitale intellettuale della cristianità. L’opera di un s. Tommaso non è concepibile che dentro questo universalismo. Evidentemente, la facoltà di teologia è l’anima dell’istituzione universitaria e la ragion d’essere della giurisdizione della Chiesa. È un fatto nuovo nella Chiesa che una corporazione di professori patentati, provvisti della ‘licentia docendi ’ abbia nella chiesa l’incarico ed il mandato di insegnare la dottrina rivelata. Si tratta di professori, di professionisti della scuola, impegnati nell’elaborazione di un sapere il cui titolo giuridico dipende dalla corporazione e non è una funzione gerarchica, situazione che l’oriente non conoscerà, come non conoscerà il fenomeno della scolastica in modo così esteso. I ‘magistri ’ hanno titolo ufficiale per esporre la fede e la dottrina; la loro soluzione, una volta discussa la questione, è autorizzata. Ma non sono ‘auctoritates ’, nel senso decisivo del magistero ecclesiastico; sono un ‘luogo teologico’ [17]. La Scuola esiste nella Chiesa, al di sotto dei Padri nella fede. La teologia si stacca dalla pastoralità, ed è un rischio grosso, ma il genio e la santità, comunque la fede in chi fa teologia, domineranno il mestiere, anche se questo resterà lo strumento normale. Basta rifarsi alla Summa contra Gentiles di Tommaso o all’ Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura  per accorgersi che i valori spirituali più genuini hanno potuto esprimersi in quella tecnicità di scuola.

L’ingresso di Aristotele[18] nel XIII secolo a Parigi, così come lo sviluppo del diritto romano a Bologna nel XII secolo, sono i due cardini di quel nuovo movimento degli spiriti che interessa tanto la società civile quanto quella ecclesiastica, che contraddistingue tanto gli esiti più fecondi come quelli più nefasti. Finché Aristotele, letto sulla guida di Boezio, si limitava alle Categorie e al De interpretatione, l’apprezzamento cristiano rimaneva discreto; con la scoperta degli Analitici e dei Topici si scopre l’arte del pensare. Ma più che la ragione, fu prima di tutto la natura che Aristotele rivela agli spiriti. In effetti saranno per primi i medici che l’accoglieranno, gli spiriti curiosi delle scienze. Nel 1210 sono i suoi ‘libri de naturali philosophia ’ che saranno proibiti e Tolosa, nel 1229, proprio quei libri interpreta e diffonde, in rivalità con Parigi. Una doppia curiosità suscita nelle intelligenze medievali la natura aristotelica: contro uno spiritualismo idealista, che l’agostinismo tradizionale favoriva, lo sguardo dell’uomo si rivolge al mondo sensibile, ad investigare le leggi della vita e del cosmo e, contemporaneamente, coglie la potenza d’intelligibilità che porta il concetto di una natura, principio interno ad ogni essere e ragione sufficiente delle sue operazioni. Appare così un mondo reale, un mondo intelligibile: nasce la fisica e via via tutte le scienze. La scoperta di Aristotele sancisce definitivamente l’acquisizione che risulterà capitale per tutta la scolastica: questa fisica include il realismo ontologico ed epistemologico. Ma l’universo aristotelico appariva in se stesso inconciliabile con la concezione cristiana del mondo, dell’uomo e di Dio: senza creazione, senza provvidenza, una perfezione morale senza l’apertura alla dimensione religiosa. La scienza contro la sapienza cristiana! S. Bonaventura    riassume bene la resistenza ad Aristotele in terra cristiana, anche contro s. Tommaso[19]. Soltanto nel 1255 tutta l’opera dello Stagirita ha diritto di cittadinanza a Parigi, ma le polemiche sono incandescenti. Eppure, l’opera precipua di Tommaso, coraggiosa e creativa, benché non accolta subito (vedi le condanne di certe sue proposizioni nel 1270 e nel 1277) sarà quella di attrarre l’aristotelismo nell’orbita del pensiero cristiano. Per seguirlo ed apprezzarne l’impresa, occorre scoprire la sorgente a cui attinge. È a Tommaso come frate predicatore, come seguace di s. Domenico, che occorre rifarsi. L’Ordine domenicano, come quello francescano, rispondeva ai bisogni della nuova società che emergeva dallo scomporsi della società feudale. Le istituzioni ecclesiastiche, secolari e monastiche, troppo impastate con l’antico ordine, erano impreparate ad offrire le condizioni umane e religiose delle libertà appena conquistate. La lungimiranza del papa Innocenzo III (1198-1216) offrì le opportunità istituzionali a queste ‘fraternità predicanti’ che la povertà evangelica teneva al riparo dalle seduzioni dei tempi nuovi e dall’ingombro del regime feudale. Il monastero passa dalle valli solitarie al centro delle città. S. Domenico fonda i suoi conventi nelle città universitarie, le Università saranno il luogo ideale per reclutare i suoi figli. Non sarà il clero secolare ad accogliere Aristotele con l’idea, nel 1231, di una edizione purgata delle sue opere, ma questi maestri ‘predicatori’, animati da uno spirito nuovo e fecondo. L’adozione di Aristotele nella cristianità è l’opera magistrale di una teologia nel pieno possesso della sua fede, non semplicemente l’opzione razionale tra filosofie concorrenti. Lo slancio parte da una aspirazione religiosa, il cui ideale, negli ordini mendicanti, non è che il ritorno alla Chiesa primitiva. Il programma dei ‘riformatori’, preoccupati del rinnovamento della chiesa, a partire da s. Pier  Damiani (1007-1072), è costituito dalla ‘vita apostolica’: vita comune, predicazione itinerante, istruzione popolare basata più sulla testimonianza, fraternità. I ‘poveri di Cristo’ ed i predicatori itineranti pullulano da ogni parte, pur con tutte le intemperanze di cui si fanno portatori e che l’istituzione fatica a regolamentare. Un s. Francesco d’Assisi incarna nella santità questo nuovo spirito e s. Domenico, ‘vir evangelicus ’, fonda un ‘ordo praedicatorum ’ secondo le costituzioni dei comuni e delle corporazioni. Il convento di Saint-Jacques, a Parigi, quando nel 1240 si apre all’insegnamento della Fisica di Aristotele, si trova contemporaneamente impegnato nella ‘Concordanza della Bibbia’, parola per parola, condotta sotto la direzione di Ugo di s. Caro, dove lo studio sistematico delle Scritture era la base dell’insegnamento e godeva del primo posto nella stima degli studenti e dei regolamenti scolastici[20]. Il ‘magister in theologia ’ è ancora un ‘magister in sacra pagina ’: qui risiede l’equilibrio spirituale e scientifico dei grandi teologi. Alla Scrittura è abbinato il ricorso ai Padri, non solo ai florilegi, ma ai testi completi, sebbene in traduzione latina. Se Aristotele viene tradotto e commentato, lo stesso vale per Dionigi Areopagita. Roberto Grossatesta (1175-1253) traduce numerosi testi patristici greci dei primi secoli, dalle lettere di s. Ignazio al De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno[21]. Inoltre, l’espansione missionaria della cristianità evoca la fioritura primitiva del Vangelo e pone alla riflessione teologica i problemi di una conquista spirituale che le armi dei re cristiani non possono compiere. Il Contra Gentiles di Tommaso è contemporaneo alle fondazioni di scuole di lingua araba ad opera dei domenicani e dei francescani. A questo ‘evangelismo’ non mancano programmi di riforma, tanto che uno di essi, uscito dal convento di Saint-Jacques, preparato da Umberto di Romans e sottomesso ufficialmente al concilio di Lione del 1274, sarà ripreso nel sec. XVIII dai protestanti per appoggiare le loro rivendicazioni[22].

I maestri parigini, a metà del secolo XIII, sono coscienti dell’impresa di costruire una teologia in scienza assumendo al proprio servizio la ragione aristotelica, ma dentro una fede matura che non teme l’investigazione più esigente,  forse soprattutto perché erano coscienti del pericolo che minacciava tale equilibrio, che in seguito scadrà o in razionalismo o in idealismo.

In modo sintetico, possiamo affermare che s. Francesco d’Assisi, che ha voluto spingere l’imitazione del Signore Gesù Cristo nella sua umiltà e povertà, scopre che nel nulla della povertà tutto diviene per l’uomo un dono oltre la nuda esistenza, perché ha riconosciuto in ogni cosa con tutta verità un suo libero regalo d’amore. L’uomo della lode di Dio si fa povero per poter sperimentare tutto l’essere come irradiante amore di Dio. Tommaso, pur così diverso dalla sensibilità francescana, con la capitale distinzione tra esse ed essentia, non fa che tradurre in posizione filosofica e teologica la stessa esperienza tanto da far scrivere a Balthasar: “Avendo Tommaso concepito l’esse come la non-sussistente pienezza e perfezione di ogni realtà e come massima ‘similitudine della divina bontà’, e non potendo di conseguenza Dio essere assolutamente più designato come l’essere delle cose, sia pure come loro causa efficiente, esemplare e finale, Dio viene in una nuova e più radicale maniera relegato oltre e sopra ogni essere mondano, e oltre ogni calcolabilità e finalizzazione a partire dalle strutture reali ed ideali del mondo, come davvero e seriamente Tutt’Altro” [23]. È la celebrazione della gloria del Dio vivente della Bibbia, nel mistero della sua libertà di creatore e del suo amore per le creature, ed insieme della realtà del reale, di quel mistero dell’essere che avvolge ogni cosa e sovrasta ogni umana pensabilità, mistero gravido dello stesso mistero di Dio. È la sapienza della visione di Dio nella Tradizione, reinterpretata e rivissuta dallo spirito medievale. Di qui scaturisce, con la scoperta del ‘soggetto’ che inizia con Abelardo, fino alla morale dell’intenzione, nello sforzo di tenere unite soggettività e obiettività nella loro permanente dialettica, l’elaborazione di una filosofia della persona ad opera di s. Tommaso. L’esigenza evangelica, secondo cui i precetti della legge sono a servizio della libertà dello Spirito, come dispositivi per la sua intelligenza e il suo compimento, è la fonte di ispirazione della riflessione sugli atti umani, dove ogni obbligo è transustanziato dalla legge nuova della carità[24].

  • secondo momento spirituale-apostolico: secolo XVI[25]

Due date significative introducono al sec. XVI: il 1492 e il 1498. Nel 1492, con la caduta di Granada, Isabella di Castiglia si assicura l’unificazione della Spagna cristiana contro i Mori con il risultato che, a occidente, l’Islam è definitivamente bloccato; si scoprono le Americhe: sono aperte nuove vie di comunicazione e di commercio, si avvia un nuovo dinamismo economico e sociale  insieme al fenomeno della colonizzazione, la chiesa vive un forte slancio missionario; con l’editto di quell’anno, gli ebrei sono costretti a scegliere o la conversione o l’espulsione. Il 1498 è l’anno dell’impiccagione e del rogo del domenicano Girolamo Savonarola, a Firenze, profeta visionario e riformatore della chiesa e della società, precursore delle istanze della Riforma. Tutto il secolo è segnato dalla Riforma protestante (Lutero ha profondamente segnato la storia, la sua opera ha fatto scuola e ha iniziato una tradizione) e da quella cattolica, denominata anche Controriforma per il suo accentuato carattere antiprotestante (l’avvenimento di riferimento è il concilio di Trento, 1545-1563).

L’effetto storico più rilevante, dal punto di vista religioso, è che la Riforma protestante ha posto un termine alla situazione di cristianità unificata, propria del Medioevo. L’Europa e, al suo seguito, i continenti che essa scopre nel suo movimento espansionistico, vivranno ormai nella divisione religiosa, sebbene la formazione delle confessioni si sia attuata in un lungo processo durato oltre 100 anni. Nasce il «cattolicesimo», in opposizione alla «cristianità» precedente. La Chiesa si è sempre definita come «cattolica» a partire da Ignazio di Antiochia e la «Cattolica» da sant’Agostino, nel senso di quel qualificativo presente nel Simbolo di fede. Il sostantivo «cattolicesimo» le conferisce ormai de facto un significato confessionale, vale a dire di una Chiesa cristiana in mezzo alle altre. Su questo cattolicesimo l’autorità gerarchica si farà sentire con sempre maggior fermezza, allo scopo di mantenerla nella sua coesione e nella sua unità. Tra Trento e il Vaticano I non vi saranno convocazioni conciliari nella chiesa cattolica. Nei tempi moderni il concilio di Trento resterà dunque la referenza dogmatica principale della chiesa cattolica, mentre l’autorità dottrinale sarà sempre più questione del pontefice romano e solo secondariamente quella dei vescovi.

La divisione opera anche a livello statale creando nuovi conflitti. L’unità della religione nell’ambito di una organizzazione statale era, in quel tempo, ancor ovvia per tutti. Poiché non si poteva più salvare l’unità della religione in tutto l’impero, la si assicurò per i singoli territori, riconoscendo ai rispettivi sovrani il diritto di determinare la confessione dei loro sudditi: cuius regio, eius et religio. Allorché la cristianità fu effettivamente suddivisa in confessioni, ciascheduna di queste si considerò universale, come la vera e propria chiesa, e trattò conseguentemente tutte le altre da eretiche. Ci si attenne saldamente al concetto tradizionale dell’unità della chiesa e al suo insegnamento espresso in dogmi vincolanti. Deviarne significava cadere nel delitto di eresia.

Il fatto però era che l’ignoranza in materia di fede, l’abbandono religioso e la rilassatezza dei costumi imperavano in tutte le confessioni. Si trattava di radicare di nuovo in larghi strati della popolazione il cristianesimo in generale, inteso come vita e dottrina, ricorrendo ad una illuminazione della coscienza. Con quali mezzi? Mediante Confessioni ridotte a formule, a catechismi. Nel mondo cattolico si fece ricorso ai decreti del concilio di Trento sui quali è stato  modellato il Catechismus Romanus del 1566. Si voleva e si è riusciti a superare l’incertezza dottrinale, ma condizionati dalla polemica. Ed è un dato che peserà sullo sviluppo di tutta la teologia.

la spiritualità dei tempi moderni.

Se l’elaborazione e la formulazione della dottrina risentivano della controversia protestante, il vigore della spiritualità traeva la sua potenza dalle radici di sempre: dalla scoperta del vangelo e della legge della carità. Sono proprie dei tempi le condizioni e l’accentuazione come vedremo subito.

Gli antecedenti di questo movimento sono da ricercarsi nelle ‘Confraternite’ e ‘Compagnie’ largamente diffuse in Italia fin dal secolo XV dove si trovano gli inizi di un’interiorità più profonda e di una dedizione non comune agli scopi caritativi (Compagnie del divino Amore, Oratorio dell’eterna Sapienza, Compagnie del santissimo Sacramento, ecc.). Santificazione propria ed apostolato erano strettamente congiunti nella Fraternitas divini amoris sub divi Hieronymi protectione, creata a Genova nel 1497 dal laico Ettore Vernazza (ca. 1470‑1524) sotto l’influsso di santa Caterina di Genova (1447-1510). Suo scopo era quello di «radicare e piantare nei cuori l’amor di Dio, cioè la carità». «Chi vuole appartenervi deve essere umile di cuore e deve porre ogni suo pensiero e ogni sua speranza in Dio». Anelito di perfezione, pratiche religiose e servizio degli infermi vi erano strettamente connessi. La confraternita aveva cura di un ospedale per incurabili creato anch’esso dal Vernazza, sul cui modello sorsero, sin dalla fine del secolo, altre istituzioni analoghe a Savona, Bologna, Roma e Napoli.

Tutte supera per importanza la confraternita romana, designata abitualmente come Oratorio del Divino Amore che  impegnava i suoi membri, laici e chierici, alla partecipazione frequente alla celebrazione della Messa, alla confessione e comunione frequente, all’assiduità alla preghiera, alla visita degli infermi e alla loro assistenza nell’Ospedale degli Incurabili[26].  

L ‘importanza di questi circoli riformatori è dovuta al fatto che dal loro contesto scaturiscono i nuovi Ordini religiosi che saranno poi i sostenitori più ferventi e tenaci della riforma tridentina.

In pochi anni sorgono in effetti vari Ordini chiamati dei ‘Chierici regolari’,  denominazione che si riferisce ad istituti religiosi clericali, i quali, con la professione dei consigli evangelici, non seguono alcuna regola monastica e si dedicano alle più varie forme di apostolato. Si propugnava un ritorno alle origini apostoliche basato sulla piena rinuncia dei beni e decisamente rivolto all’apostolato. Nascono i Teatini, i Barnabiti, i Somaschi, i Gesuiti. E più tardi, i Camilliani, gli Scolopi. I Teatini, fondati a Roma da S. Gaetano da Thiene nel 1524 ( è un teatino, Lorenzo Scupoli, l’autore del libro ascetico-spirituale tra i  più letti nei tempi moderni,  Il combattimento spirituale, Venezia 1589, continuamente ristampato e tradotto con adattamenti anche in greco da s. Nicodemo Aghiorita ed in russo da Teofane il Recluso); i Barnabiti (Chierici regolari di s. Paolo), fondati da s. Antonio Maria Zaccaria a Milano nel 1533, coadiuvati dall’istituto femminile delle Angeliche, fondato nel 1530 da Ludovica Torelli (i barnabiti saranno i collaboratori di spicco di s. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano e instancabile animatore delle riforme tridentine, soprattutto per quanto riguarda la vita sacerdotale e le strutture ecclesiastiche nella sua immensa diocesi); i Somaschi (Compagnia dei servi dei poveri) fondati nel 1534 a Venezia da s. Girolamo Emiliani (impegnati in attività caritative a favore dei poveri, degli orfani, delle categorie più bisognose); i Gesuiti (Compagnia di Gesù) fondati a Parigi nel 1534 da s. Ignazio di Loyola ed approvati come Ordine a Roma nel 1540; i Camilliani (Ministri degli infermi) fondati a Roma nel 1582 da s. Camillo de Lellis (impegnati nella cura degli ammalati); gli Scolopi (Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie) fondati a Roma nel 1617 da s. Giuseppe Calasanzio (impegnati nell’educazione dei giovani, con la fondazione di scuole gratuite per i ragazzi, che tanti meriti hanno avuto nel campo dell’istruzione insieme ai Fratelli delle Scuole cristiane, fondati successivamente da s. Giovanni Battista de la Salle [1651-1719] e rinomati formatori di maestri qualificati). A questi vanno aggiunte le fondazioni femminili. Ricordo solo l’iniziativa di s. Angela Merici (1470/5-1540) che costituisce un audace tentativo di inserire nel mondo, e non tra le mura di un chiostro, vergini consacrate fondando a Desenzano sul lago di Garda, nel 1535, con 28 compagne la Compagnia delle Dimesse di S. Orsola.

Il centro di irradiazione della forza spirituale proviene però dalla Spagna. Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, insieme a s. Teresa di Avila (1515-1582) e a s. Giovanni della Croce (1542-1591), riformatori dell’Ordine carmelitano, grandi mistici e fecondi scrittori, ne sono gli assi portanti. La loro eredità ha fatto scuola ed ha segnato profondamente e durevolmente tutta la spiritualità moderna mantenendo intatta fino a noi la potenza della loro esperienza e del loro insegnamento. Se l’Italia non ha conosciuto l’interruzione della crisi protestante nell’evoluzione della sua spiritualità, ha dovuto però fare i conti con quegli aspetti paganeggianti dello spirito rinascimentale. La Spagna, invece, vive il suo siglo de oro passando direttamente dal tardo medioevo alla gloria del periodo barocco. La figura emblematica di questo si può ravvisare in Filippo II, potente re di Spagna e dei territori oltreoceano tra il 1559 e il 1598, contemporaneo di s. Teresa d’Avila e di El Greco, che vive a San Lorenzo de El Escorial, una sorta di reggia-monastero, simbolo della sua grandezza e della sua visione cristiana del mondo.

Un vivo ascetismo basato sulla guerra contro se stessi (la vita spirituale è combattimento), un rinnovato fervore per l’orazione (la meditazione discorsiva e affettiva, con una predilezione per la passione del Signore) e per la vita liturgica (molto raccomandata la comunione frequente), da cui prende le mosse un forte zelo evangelico-apostolico, in un clima di generale riforma della chiesa e dei costumi, sono le caratteristiche essenziali comuni della spiritualità moderna. Il clima dei primi ‘Chierici Regolari’, in generale, si riassume nella mortificazione interiore, ma per arrivare alla gioiosa tranquillità dell’anima; nell’amore puro per Dio nel senso che la santità proviene dal fatto di agire solamente per essere graditi a Dio e non in rapporto all’importanza delle azioni; nella  meditazione della vita e soprattutto della passione di Gesù Cristo, modello di tutte le virtù e nello stesso tempo motivo principale e pressante per praticarle; nella comunione frequente, spirituale o sacramentale, come mezzo efficace di progresso spirituale. Ignazio di Loyola[27] integra tutti questi elementi nella sua visione ed esperienza spirituale, mantenendo una forte accentuazione di stampo ascetico-pratico. La sua genialità consiste nell’aver ‘dimostrato’ che la contemplazione poteva reggere interiormente e autenticamente anche in un apostolato attivo nella chiesa e nel mondo, senza bisogno di chiudersi in un monachesimo puro. Libera il suo Ordine da ogni vincolo di regola monastica orientandolo decisamente all’apostolato. Erede della spiritualità tedesco-olandese del sec. XV, della spiritualità della ‘devotio moderna’ che ha nella Imitazione di Cristo il suo testo più significativo, della grande tradizione benedettina che conosce attraverso l’Ejercitatorio de la vida espiritual dell’abate di Monserrat, Garcia de Cisneros, con i suoi Esercizi spirituali, un capolavoro di pedagogia spirituale, dispiega il mistero cristiano dell’esistenza umana storica, universale e personale affinché l’esercitante vi si apra ed incontri il Cristo, ne resti rischiarato dalla sua manifestazione ed impari ad inserirsi nella sua piena Verità che è Vita. È un cammino condotto con esercizi pratici, convenienti alla vita personale dell’esercitante, dove la preghiera accompagna l’apertura di spirito e sottomette continuamente il cuore all’azione trasformante dello Spirito. Spiritualità attiva e metodica. Ignazio, consacrando il suo Ordine al servizio della Chiesa, esigeva una preghiera continua: trovare Dio in tutto, profittare di tutto per salire a Dio, riempire di Dio le potenze e i sentimenti. La mortificazione, con la sua funzione purificatrice e la purezza d’intenzione la quale fa sì che si incontri Dio in tutte le cose, realizzano nell’apostolato lo spirito di preghiera. Ignazio non è certo il primo che parli di ‘metodi’ nella vita spirituale e nell’orazione, ma li integra in un metodo generale che sono gli Esercizi spirituali, un tempo di lavoro spirituale intenso per mettere l’anima in certe disposizioni interiori ben determinate, in funzione di una scelta di vita specifica.          S. Ignazio e i suoi figli, avendo eretto la meditazione a metodo essenziale di formazione ed avendola resa popolare e pratica, tradotta in esercizi da fare seguendo un certo ordine e un certo metodo, ha segnato assai profondamente la spiritualità  cattolica.

L’ansia di riforma della chiesa toccava anche gli antichi Ordini monastici e religiosi. Nell’Ordine carmelitano, nella Spagna del 1500, sorgono due figure eccezionali, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, riformatori efficaci del loro Ordine, nonostante i rigori dell’ Inquisizione sempre attenta a scoprire ‘novità’ inaccettabili nella dottrina e nei comportamenti, di profondissima esperienza spirituale e mistica e, quel che è nuovo, fecondissimi scrittori capaci non solo di descrivere le loro esperienze, ma di indicare la struttura del cammino spirituale in termini esperienziali. Teresa d’Avila, maestra e mistagoga, capace di introdurre i credenti alle insondabili ricchezze del mistero di Cristo, prima donna nella chiesa è stata annoverata dal papa Paolo VI nel 1970 tra i Dottori della Chiesa. Le sue opere Libro de la vida (l’autobiografia con l’analisi delle sue esperienze mistiche, del 1562 e 1565), Camino de perfección (per la formazione spirituale delle monache, del 1566, contiene il suo insegnamento ascetico), Castillo interior o Las moradas (capolavoro letterario e mistico, del 1577, contiene la descrizione e la codificazione della vita interiore), sono un’autorità nel campo della spiritualità e della mistica. Anche per Teresa l’alta vita contemplativa si manifesta in azioni di carità e di servizio di Dio: “Più l’anima è avanzata in questa orazione …più si consacra ai bisogni del prossimo, specialmente alle necessità delle anime, pronta a sacrificare mille vite pur di liberarne anche una sola dal peccato mortale” (Castillo VII, 4, 4). Giovanni della Croce[28], mistico, mistagogo e teologo, del quale nessuno dei suoi scritti fu stampato durante la sua vita, fu dichiarato Dottore della Chiesa nel 1926 a testimonianza dell’acutezza e della profondità del suo insegnamento che continua ad attrarre anche fuori dal cattolicesimo. I suoi testi Subida del monte Carmelo e Noche oscura (il trattato più profondo dell’ ascesi mistica), Cantico espiritual e Llama de amor viva (descrizione del trionfo dell’amore divino) lo rivelano non solo una guida spirituale sicura e lucida, ma anche come il maestro di una dottrina che giustifica gli atteggiamenti che consiglia, che spiega gli stati che descrive e anima lo slancio spirituale che conduce il discepolo fino alla soglia della visione.

Dall’esperienza e dalla dottrina di questi santi, espressione della loro eredità, spesso per esigenze della formazione dei novizi che si introducevano nelle comunità religiose che a loro si richiamavano, si costituiscono quelle che più tardi verranno chiamate ‘scuole di spiritualità’, tuttora assai vive e diffuse nei più vari ambienti. Benché ogni santità, nell’ordine della realizzazione, non possa che essere personale, sono relativamente poco numerose nella Chiesa le persone che sono state gratificate dallo Spirito di Dio di una visione personale della vita spirituale, che hanno colto la realtà spirituale grazie ad una intuizione nuova che, come una forza d’attrazione, conferisce agli elementi tradizionali un valore e un posto nuovi. Si tratta di diversità di accenti, non di esclusione di certi elementi. L’intuizione personale di un santo, che è alla base di ogni spiritualità nuova, diventa fonte di una gerarchia originale dei mezzi valorizzati diversamente dalla tradizione precedente, ma nel rispetto della loro integrità e della loro totalità.  Difatti l’evidenziazione delle differenze tra le varie spiritualità non può che meglio sottolineare la realtà dell’unità sostanziale di tutte le spiritualità, come della continuità della Tradizione: non è che una manifestazione dell’unità della vita della Chiesa. L’insieme delle loro diversità manifesta ancora meglio la ricchezza dell’unico messaggio evangelico e la loro varietà contribuisce a meglio manifestare la trascendenza dell’unità della Chiesa. Nella storia tuttavia si tende a sottolineare più le differenze, spesso contrapponendole, che non a viverle nel mistero della Chiesa. È proprio questo l’aspetto che tratterrà la nostra attenzione per il terzo momento che ho denominato ecclesiale-ecumenico relativo al sec. XX.

  • terzo momento ecclesiale-ecumenico: secolo XX

Il 25 gennaio 1959, festa della conversione di san Paolo, nella basilica romana di s. Paolo fuori le mura, papa Giovanni XXIII (1959-1963), eletto da appena tre mesi, annuncia davanti a un piccolo gruppo di cardinali il progetto di celebrare un concilio ecumenico. L’inatteso annuncio suscita un’ondata di entusiasmo nei cattolici che sentono di trovarsi ad un crocevia della storia. Il suo discorso inaugurale dell’ 11 ottobre 1962, Gaudet mater ecclesia, vera ‘magna charta’ del concilio, definisce lo spirito e gli intenti che guideranno l’immane lavoro che lo attende :

  • Un nuovo spirito: la fiducia della presenza di Dio operante nella storia insieme ad un nuovo modo, più rispettoso, di rapportarsi della chiesa alla coscienza altrui e alla storia degli uomini.
  • Un nuovo contesto: la chiesa deve “venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne”. È il compito dottrinale del concilio: trasmettere la dottrina cattolica nella sua integrità, senza indebolirla né alterarla, ma evitando sia l’immobilismo rivolto al passato sia l’impossibilità di concepire uno sviluppo che non sia solo ripetitivo: “È necessario che questa dottrina certa ed immutabile sia approfondita e presentata seguendo i metodi di ricerca e il modo di trasmissione usati dal pensiero moderno. Altra cosa è infatti il deposito della fede … e altra cosa è la formulazione che la riveste; …Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale” [29].
  • Un nuovo progetto: il fine ultimo della missione pastorale del concilio è l’unità di tutti i cristiani e di tutta la famiglia umana. Radicata nella storia dell’umanità, la dottrina cristiana non ha altro compito se non quello di trasformare questa umanità e orientarla verso il suo fine escatologico.

Non ci interessa ora mostrare i compimenti conciliari. Non è nemmeno necessario ricordare gli esiti tragici delle vicende del nostro secolo che sono sotto gli occhi di tutti. Ma non si può comprendere con quanta potenza abbia soffiato il vento dello Spirito su quella solenne assise conciliare se non si tiene conto della terribile crisi attraversata dalla chiesa cattolica nella prima metà del secolo dove era in atto, a partire dal concilio Vaticano I, un processo di dogmatizzazione sui fondamenti della fede esteso anche ai fondamenti della società, secondo un modello di pensiero apocalittico nel modo di rapportarsi, da una parte, al patrimonio dogmatico del cattolicesimo e, dall’altra, allo sviluppo della modernità nei suoi presupposti culturali ed etici. Con la crisi modernista[30], al di là della posta in gioco dottrinale, strenuamente e lucidamente difesa dal magistero, la chiesa cattolica ha vissuto uno dei periodi più traumatizzanti della sua storia. A partire dal 1907, con l’enciclica Pascendi di Pio X, è aleggiato sulla chiesa un’atmosfera di sospetto e di denuncia. Vengono destituiti dai loro incarichi i professori di seminario sospettati di avere qualche segreta simpatia per il modernismo e quanti restano al loro posto devono prestare il giuramento anti-modernista. Per modernismo si intende il movimento di idee, che non ebbe mai carattere di omogeneità, che auspicava un rinnovamento della chiesa cattolica alla luce dell’evoluzione della cultura moderna. I suoi esponenti, come Loisy, Tyrrel, Von Hügel, Buonaiuti, i quali sostenevano, specialmente nel campo dell’esegesi biblica e nella riflessione teologica sulla storia dei dogmi, l’esigenza di tener conto delle conquiste del metodo storico e filologico e degli stimoli delle teorie filosofiche contemporanee, furono condannati tra il 1907 e il 1910. Il modernismo, percepito dai difensori della retta fede come il crocevia di tutte le eresie, in realtà si presentava come l’esigenza di una cultura rinnovata. Il problema di fondo si può ridurre a questo: quale rapporto può intrattenere la cultura moderna con la totalità del mistero cristiano? Come si può concepire il rapporto tra storia e dogma, tra la continuità della tradizione e le nuove esigenze scientifico-culturali e l’introduzione generalizzata del metodo storico? Sembrava lecita solo una lettura bipolare della storia: la società liberale, con tutte le deviazioni di tipo filosofico, religioso, economico e sociale, in opposizione al cattolicesimo integrista, non solo baluardo della retta fede, ma anche di una ‘buona’ società. Il ricorso alla filosofia tomista[31] era visto come l’unica salvaguardia epistemologica al discorso della fede, ma l’atteggiamento di fondo era quello di arginare, di fare barriera. Il conflitto ecclesiastico del modernismo rimanda a un fatto di civiltà globale, sull’apprezzamento del quale i cattolici restavano divisi, ma le cui incidenze religiose colpivano per la loro negatività: mentre il popolo delle città e delle campagne si staccava dalla religione tradizionale, la cultura si sottraeva al controllo tradizionale della chiesa. La reazione era inevitabile e più che giustificata, ma come sempre, le reazioni ‘anti’ qualcosa individuano il disagio ma non possono costituire la risposta aperta al futuro.

Altri movimenti agivano nel tessuto ecclesiale e la loro influenza si è fatta sentire prepotentemente con la svolta conciliare. Quegli uomini che come pastori, liturgisti, teologi, biblisti, erano stati sospettati di errore e quindi tenuti in sordina, diventano poi gli uomini di punta di una stagione nuova. L’obbedienza allo Spirito, sia da parte di questi uomini, umili e tenaci, che da parte della chiesa, ha operato il ‘miracolo’. L’opera di Dio è sempre più misteriosa di quello che gli uomini intendono lì per lì e sopravanza i progetti umani.  Da sottolineare il fatto che il rinnovamento non poteva operarsi che con un ritorno alle radici, alla Parola di Dio e alla Tradizione, ma l’aspetto nuovo che nel fondo accomunava tutti  – ed è per questo che ho denominato questo terzo momento ecclesiale-ecumenico – è da ravvisare in quello che chiamo la riscoperta dell’integralità del mistero della chiesa nella coscienza ecclesiale. Si tratti di riportare l’assoluto della Parola di Dio a fondamento della spiritualità, di reinsegnare a celebrare la Liturgia come corpo della chiesa, di leggere la Parola di Dio nel solco e nella fecondità della  Tradizione, di vivere la diversità delle tradizioni in simbiosi e nel contesto della Tradizione della Chiesa, di guardare con fiducia e rispetto alle religioni e al cammino dell’umanità pur nelle stridenti lacerazioni in atto, in realtà tutto acquista valore e forza evangelica per una nuova percezione della Chiesa, del suo essere, del suo mistero rivelato in Cristo.

Il movimento liturgico, il movimento biblico e patristico, il movimento ecumenico sono i tre campi dove questa scoperta del mistero della chiesa diventa tanto fecondo da rinnovare tutto lo spirito con cui guardare alla storia della chiesa e al mondo contemporaneo, alla formulazione dei dogmi e al confronto con il mondo moderno, all’ideale di santità aperto a tutti i credenti ed alla speranza da offrire al mondo. Il movimento liturgico riscopre la liturgia come celebrazione della chiesa, non più velata da una pietà individuale di tipo devozionale, che aveva ormai perso gran parte del suo vigore. Il movimento biblico[32] e patristico (si pensi alla Scuola di Gerusalemme dei Domenicani, alle scuole di Saulchoir con Chenu e Congar e di Fourvière con De Lubac e Daniélou, alle imprese delle prestigiose collane Unam Sanctam, Théologie, e particolarmente  delle Sources chrétiennes, frutto della collaborazione tra domenicani e gesuiti, ecc.) rinnova la sapienza teologica e l’esperienza spirituale del popolo di Dio, fondandola sulla Parola di Dio e sulla Tradizione. Il movimento ecumenico riscopre la pneumatologia, allarga le maglie delle sensibilità e degli spiriti insegnando ad orientare tutti e se stessi alla prassi caritativa evangelica.

Con il Concilio Vaticano II si è operata una trasformazione di prospettiva, di orizzonte interiore e la trasformazione opera nel senso di un allargamento, di una estensione dei confini interiori. La coscienza di essere portatori per l’uomo di un’offerta che ci precede e ci ingloba rende la Chiesa più umile e attenta. La rivelazione di Dio, che la Chiesa è chiamata ad annunciare e a testimoniare, non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo”, “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” [vedi testo greco] (Ef 4,32). Parafrasando: se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, il mondo risplenderà della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. È l’annuncio della salvezza che viene da Dio, per cui l’unica perfezione desiderabile per i credenti è quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo. È quanto dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “desiderare sopra ogni cosa di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione” [33]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. Allora perfezione, santità, testimonianza, evangelizzazione, giustizia, carità, hanno il valore di compiere un compito, rispondere a un appello, l’appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini[34]. Mi sembra questa in sintesi l’eredità della Tradizione per la Chiesa di oggi. E di qui traggo alcuni suggerimenti conclusivi proprio come segnali della fecondità di questo nuovo sentire ecclesiale accolto per grazia, che tanti frutti potrà avere per l’intera cristianità e per il mondo intero.

5       conclusione

Tutte le religioni e tutte le confessioni corrono il rischio, nell’impatto con il mondo moderno e con la cultura che veicola, di fronte alla complessità dei problemi e delle situazioni, di scadere negli opposti  o del relativismo, che nasconde una disperazione di fondo oppure del fondamentalismo, il quale nasconde invece la paura di pensare. È la paura che l’avversario la spunti dimenticandosi che la lotta con l’avversario, per la verità e la giustizia, non può che assomigliare alla lotta di Giacobbe con l’angelo. Si combatte con un avversario per chiedergli la benedizione, perché si desidera ricevere ciò che può dare. Se ci si oppone al mondo non è per cambiarlo con il nostro volere; sarebbe impresa vana, tragica, il trionfo dell’ideologia, e non della santità cristiana, ma per aprirlo allo splendore di Dio, solidali con l’umanità e con il creato.  È possibile una difesa ‘mondana’ della verità, che non si cura cioè di predisporre le condizioni per vivere nel concreto, in sé e con gli altri, la pace offerta da Dio a tutti. L’esperienza di fede ha, rispetto all’umanità del nostro cuore e dell’insieme degli uomini, un ruolo profetico che incombe su tutti i credenti, quello di suggerire sempre nuovi modi di sentire e di pensare più consoni a servire nel concreto delle situazioni storiche quel desiderio di Dio di comunione con gli uomini. L’esperienza cristiana riesce a fondare le ragioni di un’umanità in cui siano superati gli ideali semplicemente umani, sprovvisti del lievito della grazia, come ogni senso di superiorità di cultura, razza, nazione, confessione religiosa, ecc.? In questo senso la nota di  ‘cattolicità’, secondo l’accezione greca del termine (‘secondo l’insieme’ tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza) della Chiesa come è professata nel Simbolo di fede, è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo, non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. Questa ‘cattolicità’ viene mai assunta a criterio veritativo di discernimento per il nostro agire e sentire ecclesiale? E se questo non capita, bisogna dedurre che la nostra umanità non si vuol lasciare toccare più di tanto dal mistero di Dio, non vuol prendere sul serio la sua vocazione alla santità nella Chiesa?

È ancora questa ‘cattolicità’ che induce ad inserire l’elemento ‘tempo’ nella tradizione e a coniugarlo anche al futuro. Il Vangelo è l’eredità delle genti. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende la Chiesa è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È il ruolo della Chiesa nel mondo, antico e sempre nuovo, oggi riscoperto in una dimensione di fede più umile. Dio non ha abbandonato il mondo e alla Chiesa tocca il compito di testimoniarne la Presenza tra i suoi figli con la maggior trasparenza possibile. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo.

L’inno delle Lodi dell’ufficio liturgico romano  per la festa degli apostoli traduce molto bene il desiderio di evangelizzazione compreso nel mistero della Chiesa, che riguarda tutta la nostra umanità e tutti gli uomini nella complessità delle loro vicende come singoli e nazioni:

  • L’annuncio che udiste nell’ombra, gridatelo alto nel sole: è questa l’estrema consegna del Dio crocifisso e risorto.
  • E dite, ridite sui tetti la voce che parla nel cuore: apostoli siate alle genti di Cristo, salvezza e vittoria.
  • Il nuovo messaggio di vita vi ha spinti ai confini del mondo, su lunghi sentieri di croce, araldi del giorno che viene.
  • Su voi, resi saldi in eterno, s’edifica e innalza la Chiesa che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace. Amen.  Così sia!

[1] L’espressione appartiene a s. Isacco Siro, omelia 12, secondo la suddivisione adottata da Theotokis nella sua edizione del testo greco delle omelie. Nell’edizione russa, il brano corrisponde all’omelia 44. Cfr. l’ edizione inglese curata da Holy Transfiguration Monastery : The Ascetical Homilies of saint Isaac the Syrian, Boston, Mass., 1984, hom. 67, p. 330 : “… we do not mean that faith which is the basis of all men’s Confession, but the noetic strength which steadies the heart by the light of the understanding …”.

[2] Si veda la bellissima lettera del Maestro dell’Ordine, Fr. Timothy Radcliffe, ai domenicani : La perenne sorgente della speranza. Lo studio e l’annuncio della buona novella, Roma 1995, p. 23.

[3] Dalla Costituzione dogmatica sulla chiesa del Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 8.

[4] È la conclusione che i due autori, Bernard Sesboüé e Christoph Theobald, tirano alla fine dell’ampia panoramica critica della loro Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, XVI-XX secolo, Dottrina della Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Casale Monf.to (AL) 1998, p. 544. Si vedano i passi della Lumen Gentium, 40 “tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano” e della Gaudium et Spes, 11 “La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, e perciò guida la intelligenza verso soluzioni pienamente umane”.

[5] In generale seguo l’orientamento terminologico adottato nel Dictionnaire de Spiritualité 15 (1991), col. 1108-1133 (Tradition).

[6] Come saggio storico, segnalo  il vol. 5 della nuova Storia del cristianesimo, a cura di J.-M. Mayeur, Ch. et L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard, ed. italiana a cura di G. Alberigo, dal titolo Apogeo del papato ed espansione della cristianità (1054-1274), Roma 1997. Moltissimo devo agli studi di Marie-Dominique Chenu, OP, in particolare ai suoi St. Thomas d’Aquin et la théologie, Parigi 1959; Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Montréal-Parigi 1954, 2° ed.

[7] Aristotele, Politica, tr. di R. Laurenti, Bari 1966, p. 5 ( I Pol., 2, 1252a, 24-26).

[8] Si veda M.-D. CHENU, Testimonianza di un vecchio tomista, in  SCUOLA CATTOLICA 102 (1974), p. 536-537.

[9] Le arti liberali, nel Medio Evo, si dividono nel Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) e precedono lo studio della filosofia e della teologia.

[10] S. CAPPONI DELLA PORRETTA, Elucidationes formales in Summam Theologicam S. Thomae, 5 voll., Venezia 1588.

[11] E’ con Cartesio  (1596-1650) che il filosofare “cade sotto la dipendenza dell’ideale scientifico delle nuove scienze della natura e si distanzia quindi dalla teologia; solo a partire di qui sorge il desiderio di sperimentare cosa può la ragione senza l’aiuto della rivelazione”. Cfr. HANS URS VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, vol. I: la percezione della forma, Milano 1977, p. 61.

[12] E’ lo stesso principio che opera anche entro i confini della cultura islamica. La grande eredità del mondo antico, dall’oriente all’occidente, venne assorbita e ripensata dalla cultura musulmana impegnata in una grandiosa opera di recupero. In oriente, il movimento di traduzioni dal greco all’arabo, per lo più per intermediario del siriaco, aveva salvaguardato un ingente patrimonio intellettuale che era andato ad arricchire la cultura musulmana. Nei sec. XI-XII, spesso per intermediario della scuola di Toledo, di cui  Gherardo da Cremona è il più illustre rappresentante, questo patrimonio dall’arabo venne tradotto in latino. Si veda CARRETTO-LO JACONO-VENTURA, Maometto in Europa. Arabi e Turchi in occidente, 622-1922, a cura di Francesco Gabrieli, Milano 1982, in particolare p. 153-180.

[13] Di Bernardo, maestro a Chartres, non ci è restato nulla, ma ce ne dà testimonianza Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon, (ed. Webb, Oxford 1929). La citazione è tratta da Metalogicon, III, 4.

[14] Cfr. Migne, PL 199, 947 C (De septenis septem, c. 1).

[15] Citato in CHENU, Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Montréal-Paris 1954, 2° ed., p. 59.

[16] Chenu, nel suo Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Montréal-Paris 1954, 2° ed., p. 22, riporta un testo assai interessante: “Car c’est à Paris que s’accomplit le transitus hellenismi ad Christianismum. Thomas d’Irlande, 0. P., à la fin du XIII siècle, fixera ainsi (sans oublier son pays) le thème de cette histoire symbolique de la culture : « Le bienheureux Denys… vint à Paris pour faire de cette ville la mère des études, à l’instar d’Athènes. La ville de Paris, est, comme Athènes, divisée en trois parties : l’une celle des marchands, des artisans et du populaire, qu’oa appelle la grande ville (magna villa) ; l’autre, celle des nobles hommes, où est la cour du roi et l’église cathédrale, qu’on appelle la Cité ; la troisième, celle des étudiants et des collèges qu’on appelle l’Université. Les études furent d’abord transférées de la Grèce à Rome, ensuite de Rome à Paris, au temps de Charlemagne, vers l’an 800, et l’école de Paris eut quatre fondateurs : Raban, Claude, Alcuin, maître du roi Charles, et Jean surnommé Scot, né toutefois en Irlande, l’Irlande étant la grande Écosse, lequel Jean fut un des quatre commentateurs du bienheureux Denys, car ses livres ont été quatre fois commentés par Jean Scot, Jean Sarrazin, Maxime et Hugues de Saint‑Victor ». De tribus sensibus S. Scripturae, Ms. Paris Nat. 15966 (cité Hist. litt. de la France, XXX, p. 406).

[17] Una visione sistematica sui ‘luoghi teologici’ è stata formulata per primo dal teologo domenicano di Salamanca Melchior Cano (1509-1560) nella sua opera De locis theologicis, pubblicata postuma nel 1563. ‘Luogo’ è una referenza che costituisce un’autorità per la determinazione della dottrina cristiana. Cfr. BERNARD SESBOÜÉ  e CHRISTOPH THEOBALD, Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, XVI-XX secolo, Dottrina della Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Casale Monf.to (AL) 1998, p. 147-154.

[18] Aristotele, in traduzione latina dall’arabo, arriva mediato dal neoplatonismo e mescolato alla speculazione araba, specialmente quella di Avicenna (980-1037), di stirpe e di lingua persiana e poi quella di Averroé (1126-1198), filosofo di Cordova, in Andalusia.

[19] L’ultima grande opera di Bonaventura, le Collationes in Hexaemeron sive Illuminationes Ecclesiae, del 1273, non è nata dalla scuola, ma dalla preoccupazione perché essa non smarrisse la sua identità a motivo della filosofia, che aveva la sua sede nella facoltà delle arti. Bonaventura opta per la sapienza cristiana oltre la scienza, mentre Tommaso, più coraggiosamente, non distacca la scienza dalla sapienza. All’accusa “Vituperandi sunt doctores qui sacrae doctrinae philosophica documenta admiscent ”, Tommaso risponde: “Quando alterum duorum transit in dominium alterius, non reputatur mixtio, sed quando utrumque a sua natura alteratur. Unde illi qui, utuntur phílosophicis documentis in sacra doctrina redigendo in obsequium fidei, non miscent aquam vino, sed aquam convertunt in vinum ” (Exp. s. libr. Boethii de Trinitate, 2, 2, 5m). Bonaventura, nell’ottica escatologica in cui si pone,  profetizza la fine della teologia ‘razionale’ e conclude: “Prendi esempio dal beato Francesco, che predicava al Sultano; questi gli propose di fare una disputa con i suoi sacerdoti. Ma Francesco rispose che non si poteva discutere seguendo le leggi della ragione intorno alla fede, perché la fede è superiore alla ragione; e non si poteva discutere per mezzo della Scrittura, perché essi non l’avrebbero accettata. Ma piuttosto lo pregava di accendere un rogo, e vi sarebbe entrato con essi. Pertanto, non si deve mescolare nel vino della sacra Scrittura tanta acqua di filosofia, in modo da trasformare il vino in acqua; questo sarebbe un pessimo miracolo. Infatti, noi leggiamo che Cristo cambiò l’acqua in vino, e non viceversa. Da questo risulta chiaro che ai credenti si può provare la fede, non per mezzo della ragione, ma per mezzo della Scrittura e dei miracoli. Anche nella chiesa primitiva si bruciavano i libri di filosofia. Infatti non si debbono tramutare i pani in pietre ”. Vedi  S. BONAVENTURA, La sapienza cristiana. Collationes in Hexaemeron, XIX, 14 , Milano 1985, p. 265. Cfr. J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, Firenze1991.

[20] Opere analoghe nel corso di un’altra rinascita evangelica sono la ‘Complutensis ’ di Alcala, in Spagna, nel XVI sec. ed il ‘Quintuplex Psalterium ’ di Lefèvre d’Etaples (1509) a Parigi.

[21] Bisogna però precisare che l’universo mentale medievale resta ancorato teologicamente e spiritualmente all’eredità agostiniana. Agostino rappresenta in occidente la più alta e la più pura qualità cristiana e religiosa sia in campo teologico che antropologico. In contesto pedagogico, per tutti, nel sec. XIII, s. Agostino non è soltanto un maestro, ma il maestro della cultura cristiana.

[22] UMBERTO DI ROMANS, Opusculum tripartitum de tractandis in concilio Lugdunensi, in BROWN ed., Fasciculus rerum expetendarum et fugiendarum, t. II (Appendix), Londra 1690, pp. 185-228, citato in CHENU, Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Montréal-Parigi 1954, 2° ed., p. 43.

[23] H. U. VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, vol. 4 : nello spazio della metafisica, l’antichità, Milano 1977, p. 355-356.

[24] Cfr. l’articolo 106 della II-II della Somma teologica di s. Tommaso. Su tutti questi temi, assai feconda risulta la lettura di un’altra opera di p. Chenu, Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, Milano 1982.

[25] Per uno studio del contesto storico del secolo, segnalo ISERLOH-GLAZIK-JEDIN, Riforma e Controriforma. Crisi-Consolidamento-Diffusione missionaria (XVI-XVII sec.), Milano 1975 (vol. VI, della Storia della Chiesa, diretta da Hubert Jedin). Cfr. anche R. GARCIA-VILLOSLADA, Historia de la Iglesia en España, vol. III-2°, La Iglesia en la España de los siglos XV y XVI, Madrid 1980 (BAC maior 21).

[26] Indipendentemente da queste confraternite e dal loro influsso, il giovane patrizio veneziano Paolo Giustiniani (1476‑1528), poi monaco camaldolese ed eremita,  radunava intorno a sé a Venezia, dal 1505, una schiera di simpatizzanti da lui conosciuti all’università di Padova. In una casa di sua proprietà nell’isola di Murano, essi studiavano insieme la Bibbia e i Padri della chiesa, non per un interesse puramente umanistico, ma quale strumento per tendere alla perfezione cristiana.

[27] Su s. Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, vedi il lungo articolo in tre sezioni (I. Vita e opere, di I. IPARRAGUIRRE; II. Esperienza e dottrina spirituali, di G. DUMEIGE; III. Gli ‘esercizi spirituali’, di G. CUSSON), DS 7 (1970), col. 1266-1318. Cfr. anche H. U. VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, vol. 5 : nello spazio della metafisica, l’epoca moderna, Milano 1978, p. 98-108.

[28] Vedi ANCILLI-PAPAROZZI, a cura, La mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, Roma 1984, vol. I, p. 495-546 (s. Teresa, a cura di J. Castellano Cervera), p.547-597 (s. Giovanni della Croce, a cura di F. Ruiz-Salvador). Su s. Giovanni della Croce, vedi anche Dictionnaire de Spiritualité 8 (1972), col.408-449.

[29] La versione latina curata dalla Curia omette di menzionare ‘i metodi di ricerca’ e ‘il modo di trasmissione del pensiero moderno’, cfr. BERNARD SESBOÜÉ  e CHRISTOPH THEOBALD, Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, XVI-XX secolo, Dottrina della Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Casale Monf.to (AL) 1998, p. 421.

[30] Vedi BERNARD SESBOÜÉ  e CHRISTOPH THEOBALD, Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, XVI-XX secolo, Dottrina della Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Casale Monf.to (AL) 1998, p. 336-394.

[31] Evidentemente non alludo al valore e all’efficacia che ha sempre giocato il tomismo come sistema di riferimento nella chiesa cattolica, e che anche Giovanni Paolo II, nella sua recente Fides et ratio ricordava (in particolare, i paragrafi 43, 44). Alludo invece allo spirito con cui era condotta l’operazione.

[32] P. CLAUDEL, L’Ecriture sainte, in LA VIE INTELLECTUELLE, maggio 1948, p. 10, scriveva che si stupiva di costatare che presso i cristiani “il rispetto per la Scrittura fosse senza limiti, ma  … si manifestasse soprattutto per l’allontanamento”.

[33] Regola bollata, X,8 in Fonti francescane, 104.

[34] A tal riguardo, la testimonianza dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante, in Algeria, uccisi il 21 maggio 1997 dai fondamentalisti islamici, mi sembra particolarmente illuminante.