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Introduzione di E. Citterio pubblicata nell’edizione russa degli scritti di san Francesco. Mosca 1999.


Se Dio è santo, come canta la chiesa nella Divina Liturgia, allora la santità è il luogo della rivelazione di Dio. Un uomo santo, vera icona di Dio, ‘in tutto simile a Cristo’ come viene definito nella tradizione bizantina, è la finestra attraverso la quale s’irradia sul mondo la luce di Dio. Luce di trasfigurazione, splendore di un cuore capace di guardare in modo nuovo, luminoso, da dentro la beatitudine evangelica: “beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Ma anche spazi di trasfigurazione, dove non sono più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa tanto che il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio, ormai liberato dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli, secondo l’altra beatitudine: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5). Mitezza e purità sono il paradigma di tutte le disposizioni buone  nell’uomo, quando l’io diventa capace di una misura piena ‘scossa e traboccante’(cfr. Lc 6,38), come costituisse l’esito finale e maturo di una ascesi che tende a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. Santità fondata sulla fede, in funzione cioè dell’intimità di un rapporto e non dell’esercizio di un potere, neanche quello su se stessi, per la propria perfezione. La risposta di s. Francesco a frate Masseo che si interrogava sul perché venisse concesso a Francesco tanto fascino e splendore, è illuminante: «Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto ’l mondo mi venga dietro? Questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: imperciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno»[1].

Un cuore del genere è totalmente remissivo alla rivelazione di Dio. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente dal greco: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”. Continuando: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[2]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini. E Francesco è il testimone per eccellenza di questa santità. Come nella visione di frate Pacifico, quando scorge risplendere luminosissimo sulla fronte di Francesco il sigillo a forma di tau[3]. Gli eletti, nella visione dell’Apocalisse, portano in fronte il sigillo del Dio vivente e proclamano: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Apoc 7,10). La proclamazione, a livello sonoro, esprime quello che il tau significa a livello visivo: Dio è santo, a Lui la salvezza! Il sigillo e le parole rivelano la comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti. E’ appunto lo splendore che emana da questa rivelazione al cuore dell’uomo a testimoniare la presenza della santità di Dio in mezzo agli uomini, quello splendore che promana così chiaramente dal poverello di Assisi.

L’itinerario di Francesco, proposto ai suoi frati ma valido per tutti i credenti in Cristo perché lo vivano nel quotidiano delle loro esistenze, si snoda essenzialmente per la via della povertà. Non intesa semplicemente come una scelta radicale della povertà sociale (rifiuto di ogni proprietà, del denaro, ecc.), che del resto egli non propone ai cristiani che vivono nel mondo. Prima di manifestarsi nella povertà materiale, che ne è una sorta di sacramento visibile, essa consiste in tre dinamiche radicali:

1) riconoscere che tutti i beni sono di Dio;

2) riconoscere che solo il nostro male e la nostra infelicità ci appartengono;

3) portare ogni giorno la croce di Cristo che consiste nella sottomissione a tutti, e nell’accettazione del disprezzo, della malattia e della morte.

La vera e più profonda povertà è possedere tutto per dono di Dio, senza avere nulla di proprio[4].

Il cammino, esigente, va percorso con la pazienza, l’umiltà e la gioia che Dio stesso possiede e che è. Gioia che si sperimenta nella meditazione della parola di Dio, è compagna della povertà[5], può essere così forte da dimorare nell’uomo e custodirlo nella pace anche quando tutto il resto lo abbandona. Francesco invita sempre i suoi fratelli a «essere lieti nel Signore, giocondi e amabili come si conviene»[6]. L’uomo, animato non più dallo spirito della carne, ma dalle ‘sante virtù che per grazia e illuminazione dello Spirito santo vengono infuse nei cuori dei fedeli’[7], può guardare il mondo che lo circonda con occhi purificati come ha fatto Francesco componendo verso la fine della sua vita e in momenti dolorosi il suo Cantíco delle creature. Questo canto ‑ lode rivolta all’onnipotente e buon Signore che nessun uomo è degno di nominare, cui solo appartengono la gloria e la benedizione ‑ orienta il nostro sguardo, un altro sguardo, sull’ordine e la bellezza del mondo fraterno. Ivi tutto irradia bellezza e armonia; le ferite umane, la prova, la malattia, la stessa morte, trovano il loro posto, trasfigurate come sono da un’invisibile luce. Iniziato nello sforzo e nella fatica, l’itinerario si apre, in questa vita stessa, alla gioia della risurrezione.

La povertà, con l’umiltà e la gioia che l’accompagnano, assai più di una spoliazione di beni, è vissuta come assenza di rivendicazioni, di diritti, per vivere in rapporti fraterni, con il creato e gli uomini, senza proprietà. Francesco esorta e comanda senza esitazione: “Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori” [8]. La santità dell’amore che parla al cuore degli uomini è quella che li fa sentire degni di essere amati e non semplicemente che sono oggetto di amore. L’amore ‘buono’, di quella bontà alla quale alludeva Gesù quando diceva ‘nessuno è buono, se non Dio solo’ (Mc 10,18), è quello animato solo dal desiderio che Dio sia tutto in tutti, allorquando il desiderio di ciascuno è compiuto nella totalità dell’esistenza di tutti. E’ l’esperienza di tale amore a trasformare la massa degli uomini nella moltitudine degli eletti, la somma degli individui in comunione di fraternità, la famiglia umana nella chiesa di Dio, nella chiesa dei redenti, secondo l’ideale evangelico di Francesco.

Francesco e l’Oriente cristiano.

Di recente p. Yannis Spiteris, un interprete acuto della tradizione patristica orientale e fervido conoscitore del Francescanesimo, ha edito un volume che studia i rapporti di Francesco con l’Oriente cristiano[9]. Analizza in particolare le concordanze nella spiritualità e le coincidenze dottrinali. Certamente s. Francesco è il santo occidentale più popolare e amato nell’Ortodossia. Come ebbe a testimoniare Marija Tatiana Alexeeva-Leskov: “Man mano che procediamo nella lettura delle Fonti Francescane, dentro di noi va formandosi, delineandosi tutto ad un tratto, una icona di san Francesco … con stupore costatiamo che l’icona che va formandosi davanti agli occhi del nostro cuore, è sempre più simile all’icona classica di un nostro santo; in essa scorgiamo i tratti austeri dei santi monaci, la pensosa riflessione dei santi teologi, la luminosa irradiazione dei santi martiri, il chiarore candido delle sante vergini, la dignità colma di bontà dei santi gerarchi, i grandi occhi spalancati sulla luce divina dei contemplativi. Tutto questo appare, linea per linea, nella icona di questo santo della Chiesa d’Occidente. E ci pare un mistero, una profezia, una nostalgia[10].

Pochi cenni sono sufficienti per far presagire l’esperienza di Francesco come testimonianza della ricchezza e della forza di tutta la Tradizione, d’Occidente e d’Oriente, della Chiesa indivisa. Per Francesco la regola suprema è l’osservanza del santo vangelo, quando la distinzione tra precetti e consigli evangelici, sviluppatasi poi in Occidente, non era ancora spuntata. Così, quello che Giovanni Crisostomo esprime a proposito della vita cristiana, può essere sottoscritto tanto da Pacomio, Basilio Magno, Pseudo-Macario, Teodoro Studita come da Francesco: “Ora ti mostrerò qual è la vita cristiana: povertà di spirito, lacrime di compunzione, mansuetudine, pace, misericordia, elevazione contemplativa della mente verso Dio, disprezzo del denaro, odio per il mondo, frugalità, continenza, amare Dio che ci ha creato ed è morto per noi, sopra ogni cosa, più del coniuge, dei figli, dei genitori, dei fratelli. Sarebbe un errore mostruoso credere che il monaco deve condurre una vita più perfetta, mentre gli altri potrebbero anche non preoccuparsi … Gente del mondo e monaci hanno lo stesso dovere: tendere alla medesima cima di santità” [11].

Il ‘mysterium paupertatis’, che così singolarmente caratterizza la forma di vita francescana e che così acutamente viene rivelato in tutte le sue sfaccettature da Francesco nelle sue Admonitiones, uguali nello spirito e nella forma ai Detti dei Padri del deserto, procede dallo stesso intuito dei Padri che riflettono sul mistero dell’Incarnazione e che può essere espresso con Nicola Cabasilas: “ La povertà in spirito … di chi può essere se non di coloro che conoscono la povertà di Gesù? Essendo il Signore, ha condiviso la natura e il modo di vivere dei servi; essendo Dio, si è fatto carne; lui che ci fa ricchi ha scelto la povertà, il re della gloria ha sofferto l’ignominia, per la liberazione del genere umano si è lasciato ridurre in catene …” [12].

Povertà, per Francesco,  accettata nella sua radicalità interiore ed esteriore tanto da diventare ‘pazzo per l’amore di Cristo’, da essere l’ultimo, disprezzato da tutti, mai desiderando di essere sopra gli altri, ma anzi servo e soggetto ad ogni umana creatura per amore di Dio[13]. L’Oriente ben conosce questa categoria agiografica. Ama questi ‘pazzi’ per il loro amore infinito al Cristo umile e crocifisso, per la loro profezia escatologica del Regno e lo smascheramento dell’ambiguità di questo mondo, identificati ai miserabili della terra, solidali con loro e con le loro sofferenze, così puri e semplici di cuore da apparire bambini. Uomini, come Francesco,  dalla preghiera ininterrotta[14], capaci di ‘vedere Dio’ in un cuore dall’atmosfera tersa e luminosa[15], totalmente assorti nel loro Dio in una continua meditazione del nome di Gesù[16], avvolti dalla luce divina[17], secondo la più ortodossa tradizione esicasta.

Due tratti, in particolare, fanno risaltare l’originalità della persona e la vitalità della Tradizione della Chiesa indivisa in Francesco: la potenza del suo discorso teologico e la visione ‘fraterna’ delle creature.

  1. A) Nella Lettera a tutto l’Ordine Francesco dice di se stesso ‘ignorans sum et idiota’, ‘ignorante e incolto’[18]. Invita: “coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle[19]. Riporta il Celano: “Mentre dimorava presso Siena, vi capitò un frate dell’Ordine dei predicatori, uomo spirituale e dottore in sacra teologia. Venne dunque a far visita al beato Francesco e si trattennero a lungo insieme, lui e il Santo in dolcissima conversazione sulle parole del Signore (Cfr Gv 3,34). Poi il maestro lo interrogò su quel detto di Ezechiele: Se non manifesterai all’empio la sua empietà, domanderò conto a te della sua anima (Ez 3,18-20). Gli disse: «Io stesso, buon padre, conosco molti ai quali non sempre manifesto la loro empietà, pur sapendo che sono in peccato mortale. Forse che sarà chiesto conto a me delle loro anime?». E poiché Francesco si diceva ignorante e perciò degno più di essere da lui istruito, che di rispondere sopra una sentenza della Scrittura, il dottore aggiunse umilmente: «Fratello, anche se ho sentito alcuni dotti esporre questo passo, tuttavia volentieri gradirei a questo riguardo il tuo parere». «Se la frase va presa in senso generico, – rispose Francesco – io la intendo così: Il servo di Dio deve avere in se stesso tale ardore di santità di vita, da rimproverare tutti gli empi con la luce dell’esempio e l’eloquenza della sua condotta. Così, ripeto, lo splendore della sua vita ed il buon odore della sua fama, renderanno manifesta a tutti la loro iniquità». Il dottore rimase molto edificato, per questa interpretazione, e mentre se ne partiva, disse ai compagni di Francesco: «Fratelli miei, la teologia di questo uomo, sorretta dalla purezza e dalla contemplazione, vola come aquila (Gb 9,26). La nostra scienza invece striscia terra terra» (Cfr Gen 1,20)” [20].

La teologia di Francesco procede dall’esperienza dello Spirito: “Poiché Dio è Spirito, non può essere visto che con lo Spirito; è infatti lo Spirito che dà la vita, la carne invece non giova a nulla[21], nella più pura tradizione patristica, come dice lo Pseudo-Macario: “Le cose di Dio infatti vengono conosciute nella verità, grazie alla sola esperienza, da coloro nei quali i misteri operano degnamente” [22]. Ed operano in tutta sapienza e semplicità[23] nel cuore di Francesco dove agisce con potenza l’energia dello Spirito: “ E fermamente sappiamo che non appartengono a noi se non i vizi e i peccati. E dobbiamo godere quando siamo esposti a diverse prove (Gc 1,2), e quando possiamo sostenere qualsiasi angustia o afflizione di anima e di corpo in questo mondo in vista della vita eterna.  Quindi tutti noi frati guardiamoci da ogni superbia e vana gloria.  Difendiamoci dalla sapienza di questo mondo e dalla prudenza della carne (cfr. Rm 8,6-7).  Lo spirito della carne, infatti, vuole e tenta di parlare molto ma di fare poco, e cerca non la religiosità e la santità interiore dello spirito, ma vuole e desidera una religiosità e una santità che appaia al di fuori agli uomini.  È di questi che il Signore dice: In verità vi dico, hanno ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2).  Lo spirito del Signore invece vuole che la carne sia mortificata e disprezzata, vile, abbietta,  e ricerca l’umiltà e la pazienza, la pura e semplice e vera pace dello spirito;  e sempre e soprattutto desidera il timore divino e la divina sapienza e il divino amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo[24].

L’esperienza religiosa di Francesco, come quella dell’oriente cristiano, è visione della santa Trinità: del Padre come mistero di Carità; del Figlio ad immagine del quale l’uomo è stato fatto e tramite il quale è redento fino a diventare ‘in tutto simile a Cristo’; dello Spirito nel quale il Padre, attraverso Cristo, cessa di essere mistero inaccessibile e diventa il Dio-con-noi. Quello Spirito che non solo ha ispirato le Scritture, ma che le rende vive e attuali per noi che le leggiamo oggi operando la nostra salvezza; quello stesso Spirito che ci unisce a Cristo e continua a ‘cristificarci’ con il mistero dell’eucarestia; quello Spirito che geme in ogni cosa e che rende il cuore dell’uomo santo interprete e voce di e per tutte le creature nella lode al Creatore.

  1. B) Qui si innesta il secondo tratto di cui si diceva, la capacità ritrovata di una nuova visione ‘fraterna’ delle creature in un respiro universale. Per Francesco il termine ‘fratello’ o ‘sorella’ resta l’appellativo privilegiato per rivolgersi agli esseri creati, come annota il Celano : “E finalmente chiamava tutte le creature col nome di fratello e sorella, intuendone i segreti in modo mirabile e noto a nessun altro, perché aveva conquistato la libertà della gloria riservata ai figli di Dio. Ed ora in cielo ti loda con gli angeli, o Signore, colui che sulla terra ti predicava degno di infinito amore a tutte le creature”[25]. Questo senso della fraternità universale, esteso anche al mondo animale ed inanimato, appartiene alla storia del cristianesimo orientale e ci è ritornato familiare, al di là dei grandi testi patristici, con la scoperta dei famosi racconti del Pellegrino russo. Vi si possono leggere espressioni come queste: “Quando con queste cose in mente io pregavo nel profondo del cuore, tutto ciò che mi stava intorno mi appariva sotto un aspetto stupendo: gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce, tutto sembrava dirmi che ogni cosa esiste per l’uomo, testimonia l’amore di Dio per lui, e tutte le cose pregavano e cantavano Dio e la sua gloria. Così compresi quella che la Filocalia chiama ‘la conoscenza del linguaggio di tutte le creature’ e colsi la possibilità che ha l’uomo di dialogare con le creature di Dio”[26]. La brama infinita per la salvezza universale di un Isacco Siro, talmente solidale con tutte le creature da credere di non potersi salvare se non in totale comunione con tutto il creato[27]; la sensibilità spirituale di un Silvano del Monte Athos che sente il ‘profumo’ della gloria di Dio, della sua bontà e della sua misericordia in tutte le creature[28]; la conoscenza del linguaggio della creazione in un Serafino di Sarov[29]; tutte queste esperienze non si rispecchiano forse nel profondo sentimento di ‘fraternità’ di Francesco con tutte le creature?

            Ora tale fraternità non deriva che da quella umiltà-povertà ricercata al di là di ogni rivendicazione di diritti per poter vivere pienamente del dono di Dio, il suo amore per gli uomini, accolto in Cristo. Come dice Francesco: “E attribuiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie poiché procedono tutti da lui. E lo stesso altissimo e sommo solo vero Dio abbia, e gli siano resi, ed egli stesso riceva tutti gli onori e l’adorazione, tutta la lode e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, poiché ogni bene è suo ed Egli solo è buono (Lc 18,19)”[30].  Così la santità di Dio può risplendere nel mondo e il mondo diventa il luogo della proclamazione della sua santità. Il Regno di Dio è rivelato al cuore dell’uomo.

Francesco e i suoi scritti.

Uno che abbia incontrato anche soltanto una volta s. Francesco di Assisi, non riesce a sottrarsi al fascino dolce, mite, forte e sempre nuovo che promana da lui. Così, la luce del progetto di Dio a favore dell’uomo pienamente rivelato in Cristo, torna a risplendere attraverso la persona di Francesco con semplicità e purezza. E gli uomini, adesso come allora, guardando Francesco sentono che è possibile vivere, con genuina vitalità nel vissuto reale della vita, il sogno inappagato di una intimità con il Creatore, nostro Padre, nella nostra umanità riconciliata con i paradossi del mondo.

Per giungere a Francesco è indispensabile l’aiuto delle memorie scritte, che ci tracciano come due strade: la prima è quella delle antiche biografie, un complesso notevole di testimonianze che ci illustrano la vicenda evangelica di Francesco e della sua prima fraternità. La seconda è quella dei suoi scritti. Sono questi la fonte primaria per scandagliare l’interiorità di s. F., i suoi desideri, i suoi progetti, i suoi slanci, la sua visione della vita, del mistero di Dio e dell’uomo. Qui è F. che parla; nelle biografie sono coloro che l’hanno conosciuto che parlano di lui. Abbiamo ritenuto particolarmente opportuno offrire questi scritti al pubblico di lingua russa, che potrà scoprire, forse con stupore, quanto l’animo di F. sveli a noi stessi le nostre nostalgie e ci indichi dei percorsi interiori da percorrere.

Sebbene questi scritti siano così ricchi, F. di Assisi non ha mai pensato di diventare uno ‘scrittore’: scrive occasionalmente, spinto dalle esigenze della sua vita e di coloro che facevano riferimento a lui. Fino alla fine sembra che preferirà dettare piuttosto che scrivere di persona. Era un uomo privo di cultura teologico-letteraria, anche se si dice che amava leggere e ruminare le Scritture, e si nutriva particolarmente della ricchezza dei testi liturgici. “Quantunque questo uomo beato non avesse ricevuta nessuna formazione di cultura umana, tuttavia, istruito dalla sapienza che discende da Dio (Cfr Col 3,1-3) e, irradiato dai fulgori della luce eterna, aveva una comprensione altissima delle Scritture. La sua intelligenza, pura da ogni macchia, penetrava le oscurità dei misteri (Cfr Col 1,26), e ciò che rimane inaccessibile alla scienza dei maestri era aperto all’affetto dell’amante. Ogni tanto leggeva nei Libri Sacri, e scolpiva indelebilmente nel cuore ciò che anche una volta sola aveva immesso nell’animo. «Per lui – come già per s. Antonio del deserto – la memoria teneva il posto dei libri»”[31].

Così gli scritti di F. dichiarano ad ogni passo legami strettissimi con la parola biblica e liturgica, e anche profonde affinità con la sapienza della grande tradizione spirituale patristica, fatte proprie seguendo l’itinerario indicato dal Celano: un cuore puro che medita il mistero, l’orecchio e la mente vigile che vi riconducono ogni parola che possa illuminarlo.

Si può essere certi che F. non scrive a caso, né facilmente, né più del necessario e che non c’è niente di casuale e di superfluo nei suoi scritti. Anche quando qualche compagno lo aiuta nella redazione dei testi, soprattutto quelli normativi, sempre si riconosce il timbro tipico del Poverello.

Possediamo due autografi di F. : la Benedizione a Frate Leone con le Lodi di Dio Altissimo (settembre 1224), conservato ad Assisi al Sacro Convento, e la Lettera a Frate Leone, conservata al Duomo di Spoleto. Poi, ci sono le “Collezioni” o “Raccolte” degli scritti di F., pervenuti a noi in diversi manoscritti. Il più antico e più prestigioso è il Codice 338 del Fondo Antico della Biblioteca del Sacro Convento che è del 1240/50 circa. Soltanto in tempi recenti, però, si è avuta l’edizione critica degli scritti, opera di p. Kajetan Esser: Die Opuscula des hl. Franziskus von Assisi, neue textkritische Edition, Grottaferrata 1976, seguita nel 1978 da una edizione più maneggevole, in latino: Opuscula sancti patris Francisci Assisiensis, denuo edidit iuxta codices mss. Cajetanus Esser OFM, Grottaferrata 1978. In tutto si tratta di una trentina di scritti, tutti sicuramente autentici.

I testi possono essere raggruppati in tre gruppi, sostanzialmente omogenei al loro interno per genere letterario:

 

1) Regole ed esortazioni.

E’ la sezione più nutrita ed importante.

  1. Regola non bollata, del 1221. Il testo della prima Regola o Forma di vita, redatta “con poche parole e con semplicità” – come dice Francesco stesso nel Testamento -, e approvata oralmente da papa Innocenzo III nel 1209 (o 1210), non si è conservato. Quando la Fraternità crebbe, la Regola evolve con essa, ed il testo del 1221, lungo, ricco e prezioso, rimane il documento più eloquente degli slanci della vita francescana autentica.
  2. Regola bollata, del 1223. A Francesco viene chiesto di elaborare un testo più conciso e più giuridico, cosa che fece con l’aiuto dei frati e probabilmente della Curia romana. Lo spirito originale della Fraternità viene salvaguardato, e questa Regola, approvata con bolla pontificia il 29 novembre 1223, è quella attualmente in vigore presso i francescani in tutto il mondo. L’originale si conserva al Sacro Convento di Assisi.
  3. Regola per la vita negli eremi. Composta fra il 1217 e il 1221, organizza in modo armonico la vita dei frati nei luoghi e periodi di ‘eremo’ o ‘deserto’. Si è conservato così lungo i secoli un tratto caratteristico del francescanesimo primitivo e dell’animo stesso di Francesco, che amava grandemente e praticava assiduamente il ritirarsi in solitudine e preghiera con pochi fratelli per periodi più o meno lunghi in piccoli ‘esicasteri’.
  4. Testamenti. Negli ultimi tempi della sua vita, Francesco ribadisce i principi fondamentali della sua intuizione, prima con il brevissimo Testamento di Siena (o piccolo Testamento), dettato verso l’aprile del 1226, pensando di essere sul punto di morte. Poi, già ad Assisi, detta il Testamento “grande”, che forse è il documento più personale ed eloquente del Santo.
  5. Scritti per Chiara e le Sorelle. Sono brevi esortazioni, incorporate da Chiara nella sua Regola, al cap. VI, Regola approvata il 9 agosto 1253, due giorni prima della morte della santa. Esprimono l’essenziale del progetto di vita delle Dame Povere o Clarisse.
  6. Ammonizioni. Sono trascrizioni scritte di insegnamenti orali di Francesco, ripetuti lungo gli anni. Non è possibile datarle con precisione, anche se la raccolta già è conosciuta fuori dall’ambiente francescano nel 1231, perché un frate domenicano ne cita una in una predica a Parigi. Si tratta di testi molto vicini per lo stile e il contenuto ai Detti dei Padri del deserto, e ne condividono la potenza interiore e la penetrazione spirituale. Bisogna aggiungere a questi un altro degli opuscula dictata (“scribe sicut dico tibi …”) la cosiddetta Parabola della perfetta letizia.

 

2) Lettere.

È un insieme di lettere, lunghe e brevi, rivolte a più destinatari, che esprimono la volontà di F. di raggiungere tutti e ciascuno: “poiché sono servo di tutti, sono tenuto a servire a tutti e ad amministrare le fragranti parole del mio Signore”[32]. Così abbiamo, tra altre, la lettera a tutto l’Ordine, ai reggitori dei popoli, a tutti i chierici, a tutti i fedeli, ad un ministro, a frate Antonio di Padova.

Delle Lettere conservate, quelle destinate a più destinatari, si concludono tutte con una esortazione a conservare attentamente il testo per metterlo in opera, e perfino frequentemente con l’invito a farne delle copie. Francesco è consapevole che le sue parole portano la Parola del Signore, e che questa deve essere resa vicina al cuore di ciascuno: “Onnipotente, eterno, giusto e misericordioso Iddio concedi a noi miseri di fare, per tua grazia, ciò che sappiamo che tu vuoi, e di volere sempre ciò che ti piace, affinché interiormente purificati, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito Santo, possiamo seguire le orme del Figlio tuo, il Signor nostro Gesù Cristo e a te, o Altissimo, giungere con l’aiuto della tua sola grazia. Tu che vivi e regni glorioso nella Trinità perfetta e nella semplice Unità , Dio onnipotente per tutti i secoli dei secoli. Amen”[33]. Ma in fondo questo è un invito aperto a tutti i fedeli, senza esclusioni: “E tutti coloro che faranno tali cose e persevereranno fino alla fine riposerà su di essi lo Spirito del Signore (Is 11,2), ed Egli ne farà la sua dimora, e saranno figli del Padre celeste di cui fanno le opere, e sono sposi; fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo (cfr Gv 14,23; Mt 5,45). Siamo sposi, quando per lo Spirito Santo l’anima fedele si unisce a Gesù Cristo. Siamo fratelli suoi, quando facciamo la volontà del Padre suo che è in cielo (Mt 12,50). Siamo madri sue, quando lo portiamo nel cuore e nel nostro corpo con l’amore e con la pura e sincera coscienza, e lo generiamo attraverso sante opere che devono risplendere agli altri in esempio”[34].

3) Laudi e preghiere.

Sono alcune preghiere di amplificazione biblica come la Preghiera davanti al crocifisso, La parafrasi del Padre nostro, il Saluto alla beata Vergine Maria, o che riflettono gli eventi interiori del contemplare di F., come le autografe Lodi di Dio Altissimo, le Lodi per ogni ora, l’Ufficio della passione del Signore, ed il notissimo Cantico di frate sole …

Queste preghiere e lodi non avevano altro scopo che parlare a Dio e di Dio. Le preghiere permettono di gettare uno sguardo sull’animo di Francesco, calamitato dal mistero del Dio Vivente tre volte santo. Così racconta il suo primo biografo, Tommaso da Celano: “Cercava sempre un luogo appartato, dove potersi unire non solo con lo spirito, ma con le singole membra, al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore (Cfr Lc 1,68), per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola col mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica, per non svelare la manna nascosta (Ap 2,17). Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello sposo (Ct 5,4): così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave. Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto. Assorto in Dio e dimentico di se stesso, non gemeva né tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno esteriore. Questo il suo comportamento in casa. Quando invece pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo. E in realtà, per offrire a Dio in molteplice olocausto (Cfr Sal 65,15) tutte le fibre del cuore (Cfr Sap 7,22), considerava sotto diversi aspetti Colui che è sommamente Uno. Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tale modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio (Cfr Sal 26,4): non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente”[35].

Riguardo poi alla Theotokos, sappiamo che: “Circondava di un amore indicibile la Madre di Gesù, perché aveva reso nostro fratello il Signore della maestà (Cfr Sal 28,3). A suo onore cantava lodi particolari, innalzava preghiere, offriva affetti tanti e tali che lingua umana non potrebbe esprimere. Ma ciò che maggiormente riempie di gioia, la costituì Avvocata dell’Ordine e pose sotto le sue ali i figli, che egli stava per lasciare, perché vi trovassero calore e protezione sino alla fine”[36].

Le “Lauda” erano fiorenti in quell’epoca, in rapporto alla letteratura cavalleresca e cortese e ai temi della vita spirituale. Per Francesco era un modo per toccare il cuore della gente ed aprirlo al mistero del Regno di Dio, come testimonia la Leggenda perugina: “Ogni giorno usiamo delle creature e senza di loro non possiamo vivere, e in esse il genere umano molto offende il Creatore. E ogni giorno ci mostriamo ingrati per questo grande beneficio, e non ne diamo lode, come dovremmo, al nostro Creatore e datore di ogni bene». E postosi a sedere, si concentrò a riflettere, e poi disse: «Altissimo, onnipotente, bon Segnore…». Francesco compose anche la melodia, che insegnò ai suoi compagni . Il suo spirito era immerso in così gran dolcezza e consolazione, che voleva mandare a chiamare frate Pacifico che nel secolo veniva detto”il re dei versi” ed era gentilissimo maestro di canto , e assegnargli alcuni frati buoni e spirituali, affinché andassero per il mondo a predicare e lodare Dio. Voleva che dapprima uno di essi, capace di predicare, rivolgesse al popolo un sermone, finito il quale, tutti insieme cantassero le Laudi del Signore, come giullari di Dio. Quando fossero terminate le Laudi, il predicatore doveva dire al popolo: «Noi siamo i giullari del Signore, e la ricompensa che desideriamo da voi è questa: che viviate nella vera penitenza». E aggiunse: «Cosa sono i servi di Dio, se non i suoi giullari che devono commuovere il cuore degli uomini ed elevarlo alla gioia spirituale?». Diceva questo riferendosi specialmente ai frati minori, che sono stati inviati al popolo per salvarlo. Le Laudi del Signore da lui composte e che cominciano: «Altissimo, onnipotente, bon Segnore», le intitolò: Cantico di fratello Sole, che è la più bella delle creature e più si può assomigliare a Dio. Per cui diceva: «Al mattino, quando sorge il sole, ogni uomo dovrebbe lodare Dio, che ha creato quell’astro, per mezzo del quale i nostri occhi sono illuminati durante il giorno. Ed a sera, quando scende la notte, ogni uomo dovrebbe lodare Dio per quell’altra creatura: fratello Fuoco, per mezzo del quale i nostri occhi sono illuminati durante la notte». Disse ancora: «Siamo tutti come dei ciechi, e il Signore c’illumina gli occhi per mezzo di queste due creature. Per esse e per le altre creature, di cui ogni giorno ci serviamo, dobbiamo sempre lodare il Creatore glorioso». Egli fu sempre felice di comportarsi così, fosse sano o malato, e volentieri esortava gli altri a lodare insieme il Signore. Nei momenti che più era torturato dal male, intonava le Laudi del Signore, e poi le faceva cantare dai suoi compagni, per dimenticare l’acerbità delle sue sofferenze pensando alle Laudi del Signore. E fece così fino al giorno della sua morte”[37].

Gli scritti sono eco della parola di Dio che F. vive, annuncia e trascrive ed interpreta col solo scopo che essa diventi sapienza di vita e non lettera che dà morte. Torna qui a proposito un suo detto ricordato dai biografi: “ tanto un uomo conosce della scienza, quanto traduce in opere”[38];  oppure : “ tanto sa l’uomo quanto fa, e non di più”[39]. Quindi un fare in funzione di un sapere, cioè, di  un conoscere sperimentalmente il Signore. Un fare in vista di una intimità.

Avere “il cuore  rivolto verso il Signore ” è una espressione cara a Francesco[40]. Essa vuol dire questo: ciò che vi è di più centrale, di più profondo, di più unificante in noi – il nostro cuore – deve sempre restare desto al desiderio e alla ricerca di Dio. E’ questo il cuore stesso della Regola francescana : “Desiderare sopra ogni cosa di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, pregando sempre con cuore puro, avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella  infermità e amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano ”[41].

Il “ registro ”, per così dire, nel quale F. si pone è quello di ricercare l’intimità e mai la potenza[42]. L’aneddoto riportato nella Leggenda dei tre compagni ne fa fede: “Una volta [il vescovo di Assisi, al quale l’uomo di Dio ricorreva di frequente per consigliarsi] gli ebbe a dire: «La vostra vita mi sembra dura e aspra, poiché non possedete nulla a questo mondo». Rispose il Santo: «Messere, se avessimo dei beni, dovremmo disporre anche di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte maniere tanto l’amore di Dio quanto l’amore del prossimo. Per questo non vogliamo possedere alcun bene materiale a questo mondo». Al vescovo piacque molto la risposta dell’uomo di Dio, che disprezzò tutte le ricchezze transitorie, e sopra tutto il denaro”[43]. “I frati non si approprino di nulla”, comanda la Regola[44].

E questo sempre in vista di una intimità da gustare: “Nulla di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi accolga Colui che totalmente a voi si offre”[45].

Le porte di questa intimità gli erano state aperte attraverso gli effetti del perdono, da quando il Signore lo tolse dai peccati di una vita vuota incentrata su di sé. Ha sperimentato da parte del suo Dio un’accoglienza senza barriere; imparò da lui “dal quale e per il quale e nel quale è ogni perdono”[46] il messaggio penitenziale di lode al Signore e di perdono, che irraggiava pace attorno a sé: “perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6,37)[47]. E’ questo che permette di sperimentare che “il Signore Dio si offre a noi come a figli”[48].

Familiarità e tenerezza, essere “miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, gentili”[49]: amare, portare con pazienza, perdonare colui che ci molesta e ci stanca, ci disturba e ci ferisce, è il segno ed il frutto più chiaro della presenza intima dello Spirito in noi, l’irradiazione di quella intimità ricercata al di sopra e al di là di tutto, dietro le orme del Signore Gesù. Questo permette di assaggiare una ‘perfetta letizia’[50]: la gioia di una intimità è ciò che rimane a sostenere l’uomo quando tutto il resto lo abbandona.

Questi sono alcuni cenni che forse possono far presagire qualcosa del mistero che abitava in Francesco o nel quale Francesco abitava. Ma come ai discepoli di Giovanni che incontrano Gesù al Giordano e gli domandano: “Maestro dove abiti?”, anche a noi viene offerta la stessa risposta: “Venite e vedrete” (Gv 1,38-39). Ognuno, se lo desidera, può vedere con gli occhi del cuore dove abita Colui verso il quale si volge ogni nostro desiderio…

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[1] Dai Fioretti, X, in FF 1838

[2] Regola bollata, X, in  FF 104.

[3] Cfr. Leggenda maggiore di san Bonaventura, IV,9 in FF 1079 e  Vita seconda di Tommaso da Celano, LXXII,106, in FF 693

[4] Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne prendesse turbamento e ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. Ed egli è beato perché, rendendo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, non gli rimane nulla per sé (Ammonizione XI); Beato l’uomo che offre un sostegno al suo prossimo per la sua fragilità, in quelle cose in cui vorrebbe essere sostenuto da lui, se si trovasse in un caso simile. Beato il servo che restituisce tutti i suoi beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere (Ammonizione XVIII); Beato quel servo il quale non si inorgoglisce per il bene che il Signore dice e opera per mezzo di lui, più che per il bene che dice e opera per mezzo di un altro. Pecca l’uomo che vuol ricevere dal suo prossimo più di quanto non vuole dare di sé al Signore Dio (Ammonizione XVII).

[5] Cfr. Ammonizioni, XXVII,  in  FF 177

[6] Regola non bollata, VII, 16,  in FF 27

[7] Cfr. Saluto alla Vergine, in FF 260

[8] Lettera a un ministro, in FF 234

[9] Yannis SPITERIS, Francesco e l’oriente cristiano. Un confronto, Roma 1999, Istituto storico dei Cappuccini (Bibliotheca ascetico-mystica 8). L’Istituto ha aperto un sito in Internet: http://users.iol.it/ist.cap

[10] M. T. ALEXEEVA-LESKOV, Francesco d’Assisi, icona della indivisa santità della Chiesa, in  San Francesco educatore spirituale, a cura di R. Falsini, Milano 1982, p. 54.

[11] Giovanni Crisostomo, Contro i detrattori della vita monastica, III, 14, PG 47,372C.

[12] N. Cabasilas, La vita in Cristo, a cura di U. Neri, Torino 1981, p. 308.

[13]  “Non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne (1Cor 1,26), ma piuttosto dobbiamo essere semplici, umili e puri.  E disprezziamo noi stessi, poiché tutti, per colpa nostra, siamo miseri, putridi, fetidi e vermi, così come dice il Signore per mezzo del suo profeta: Io sono un verme e non un uomo, sono l’obbrobrio degli uomini e lo spregio del popolo (Sal 21,6).  Mai dobbiamo desiderare di essere sopra gli altri, ma anzi dobbiamo essere servi e soggetti ad ogni umana creatura per amore di Dio (1Pt 2,13)” , 2 Lettera ai fedeli, FF 199.

[14] Cfr. Regola non bollata XXXIII, 11, in FF 71; Vita Seconda di Tommaso da Celano, 95, in FF 682.

[15] Cfr. Regola non bollata, XXII, 26, in FF 60; Ammonizioni XVI, 2, in FF 165

[16] “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l’abbondanza dei santi affetti del cuore (Mt 12,34), e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra. Quante volte, mentre sedeva a pranzo, sentendo o pronunciando lui il nome di Gesù, dimenticava il cibo temporale e, come si legge di un santo, «guardando, non vedeva e ascoltando non udiva». C’è di più, molte volte, trovandosi in viaggio e meditando o cantando Gesù, scordava di essere in viaggio e si fermava a invitare tutte le creature alla lode di Gesù. Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, perciò fu insignito gloriosamente più di ogni altro della immagine di Lui, che egli aveva la grazia di contemplare, durante l’estasi, nella gloria indicibile e incomprensibile seduto alla «destra del Padre», con il quale l’egualmente altissimo Figlio dell’Altissimo, assieme con lo Spirito Santo vive e regna, vince e impera, Dio eternamente glorioso, per tutti i secoli. Amen!”, Vita Prima  di Tommaso da Celano, 115, in FF 522. Oppure, nella testimonianza dei Fioretti “… e finalmente egli udì la voce di santo Francesco e, appressandosi, il vide stare ginocchioni in orazione con la faccia e con le mani levate al cielo, e in fervore di spirito sì dicea: «Chi se’tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?». E queste medesime parole pure ripetea, e non dicea niuna altra cosa. Per la qual cosa frate Leone forte maravigliandosi di ciò, levò gli occhi e guatò in cielo, e guatando sì vide venire dal cielo una fiaccola di fuoco bellissima e splendentissima, la quale discendendo si posò in capo di santo Francesco…”, in FF 1915.

[17] Nella Preghiera davanti al Crocifisso:  “O alto e glorioso Dio, illumina el core mio.  Dame fede diricta, speranza certa, carità perfecta, humiltà profonda,  senno e cognoscemento che io servi li toi comandamenti. Amen“, in FF 276. Testimonia s. Bonaventura: “E l’uomo di Dio, restandosene tutto solo e in pace, riempiva i boschi di gemiti, cospargeva la terra di lacrime, si percuoteva il petto e, quasi avesse trovato un più intimo santuario, discorreva col suo Signore. Là rispondeva al Giudice, là supplicava il Padre, là dialogava con l’Amico. Là pure, dai frati che piamente lo osservavano, fu udito interpellare con grida e gemiti la Bontà divina a favore dei peccatori; piangere, anche, ad alta voce la passione del Signore, come se l’avesse davanti agli occhi. Là, mentre pregava di notte, fu visto con le mani stese in forma di croce, sollevato da terra con tutto il corpo e circondato da una nuvoletta luminosa: luce meravigliosa diffusa intorno al suo corpo, che meravigliosamente testimoniava la luce risplendente nel suo Spirito”, Leggenda maggiore, 4, in FF 1180.

[18] FF 226

[19] Regola bollata, VIII, in FF 104.

[20] Vita Seconda di Tommaso da Celano, CIII, in FF 690.

[21] Ammonizione I, in FF 141.

[22] Omilia 10, 3. Vedi  Macario/Simeone, Discorsi e Dialoghi/ 1, a cura di Moscatelli, p. 196.

[23] Cfr. Saluto alle Virtù 1, in FF 256: “O regina sapienza, il Signore ti salvi con la tua sorella, la pura e santa semplicità”.

[24] Regola non bollata XVII, in FF 48

[25] Vita prima di Tommaso da Celano, LXXXI, in FF 461.

[26] Racconti di un pellegrino russo, tr. di Martinelli, Milano 1973, 2° ed., p. 57.

[27] Vedi Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, trattato 81, dove alla domanda di cosa sia un cuore compassionevole si risponde : « E’ un cuore che s’infiamma di carità per la creazione intera, per gli uomini, gli uccelli, per gli animali, per i demoni, per tutte le creature … ».

[28] Si possono leggere i passi relativi nell’opera dell’archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos. La vita, la dottrina, gli scritti, Torino 1973, p. 105-107

[29] Vedi l’opera di Gorainoff, Serafino di Sarov.Vita, colloquio con Motovilov, scritti spirituali, Torino 1981, p. 50.

[30] Regola non bollata, XVII, in FF 49

[31] Cfr. Vita Seconda di Tommaso da Celano, LXVIII, in FF 689.

[32] Lettera a tutti i fedeli, in FF 180.

[33] Lettera a tutto l’Ordine, in FF 233.

[34] Lettera a tutti i fedeli, in FF 200.

[35] Vita Seconda di Tommaso da Celano, LXI-LXII, in FF 681-682.

[36] Idem, CL, in FF 786.

[37] Leggenda perugina, in FF 1592.

[38] Idem, in FF 1628

[39] Cronaca delle sette tribolazioni, in FF 2172

[40] Regola non bollata, XXII, in FF 59-60

[41] Regola bollata, X, in FF 104

[42] Cfr. Lodi delle virtù, in FF 258

[43] Leggenda dei tre compagni, IX, in FF 1438

[44] Regola bollata, VI, in FF 90

[45] Lettera a tutto l’Ordine, in FF 221

[46] Regola non bollata, XXIII, in FF 70

[47] cfr. idem, XXI, in FF 55

[48] Lettera a tutto l’Ordine, in FF 216

[49] Regola bollata, III, in FF 85

[50] Della vera e perfetta letizia, in FF 278