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Conferenza di p. Elia Citterio tenuta in Svizzera.

Parto da questa semplice considerazione: il monachesimo è l’espressione più viva della spiritualità di una chiesa. E questo vale in modo particolare per l’Ortodossia. Richiamo, ad esempio, la frase spesso citata di Evdokimov,  allorché sostiene che una delle vie più sicure per cogliere la spiritualità ortodossa è di entrarci attraverso il monachesimo. Pensate ai santi canonizzati nelle chiese ortodosse: la quasi totalità è costituita da monaci e monache.

Tengo a sottolineare fin dall’inizio che la distinzione tra ‘vita monastica’ e ‘vita nel mondo’ (noi diremmo tra ‘vita religiosa’ e ‘vita laica’) è del tutto relativa rispetto all’unica cosa fondamentale, cioè la vocazione alla santità.   Nell’Ortodossia in particolare vale il principio di omogeneità. Porto un piccolo esempio. Nella nostra tradizione latina parliamo, rispetto alla vita religiosa, di ‘consigli evangelici’. Ebbene, nelle fonti orientali, non trovate mai l’espressione ‘consigli evangelici’; trovate sempre l’espressione ‘comandamenti evangelici’, ‘comandamenti del Signore’, valevoli per tutti e che, evidentemente, ciascuno è chiamato a vivere nel proprio stato di vita. Ma i comandamenti del Signore valgono per tutti. E’ lo stesso principio della vocazione alla santità, cioè il seguire il Signore fino in fondo: vale per tutti.

 

Monachesimo dice preghiera.

Voglio riportare un episodio che risale al mio primo viaggio in Romania, quando giunsi a Tarcu, uno sperduto romitorio dove viveva padre Nicodim, che a quell’epoca aveva 80 anni. Gli avevo posto una domanda ben specifica. Infervorato della ‘preghiera del cuore’ gli avevo chiesto: “Padre, come posso imparare la preghiera del cuore?”. E lui di rimando: “Quanti anni hai?”. Rispondo: “Trentacinque”. Dopo un attimo di silenzio, continuò: “Parinte, rabdare, rabdare … Padre, pazienza, pazienza!”. Subito pensai che quella fosse una tipica risposta diplomatica per non dirmi nulla. Il fatto però sorprendente, che più mi ha impressionato, è che a distanza di anni quella semplice parola ‘rabdare’, proferita con quel tono di voce, non mi è più uscita dalle orecchie e dal cuore. E mi ha fatto capire molte più cose quella parola che non tante letture e spiegazioni che insistentemente ho poi cercato di avere in  molti modi, indagando sul come si debba pregare, quale sia la tecnica appropriata, quella a me più adatta, ecc. Con questo intendo dire che la dimensione della preghiera e quindi della vita monastica (e quindi della vita cristiana) comporta una dimensione essenzialmente ‘misterica’, per usare il linguaggio degli orientali. Vale a dire, si collega a qualche cosa di vivo che dentro di noi viene continuamente sollecitato, al fatto che il Signore davvero vive nei nostri cuori, sebbene il più delle volte non lo sentiamo  per niente. Ecco, la preghiera non è che il continuo ritornare al luogo della presenza del Signore nel cuore. Non si tratta semplicemente di ‘ritornare nel cuore’ inteso come un ‘ritornare in se stessi’. In effetti nasce qui l’equivoco della ‘tecnica’ della preghiera. La tecnica può al massimo insegnarci a ritornare in se stessi, ma si tratta invece di ritornare al luogo della presenza del Signore in noi stessi. L’episodio che ho narrato poc’anzi non è un semplice aneddoto, ma un’esperienza, che mi ha fatto molto pensare.

Nei testi dell’esicasmo si parla spesso di ‘preghiera pura’. Alla mia domanda, sempre nel mio viaggio in Romania, di come si debba fare per pregare in modo puro, un eremita mi ha risposto così: “Padre, non siamo più capaci di pregare in modo puro. Era una caratteristica dei nostri Padri, i quali erano molto più santi di noi. Noi non possiamo più essere a quel livello. La preghiera pura per noi oggi è la preghiera che fa scaturire nel cuore l’amore per i fratelli”. Parlava un eremita che da più di trent’anni viveva in solitudine e raramente incontrava altre persone. Mi spiegava: “Vede, padre. Siamo in una foresta, qui passano pochissime persone, eppure il clima che respiro non è più il clima puro di un tempo. Respiro il clima del mondo di oggi, tormentato da angosce, passioni, dolori (non si dimentichi che eravamo in pieno regime comunista!). Il primo compito, il più essenziale, non è allora quello di tendere alla preghiera pura, irraggiungibile, ma di tendere ad avere il cuore pieno di amore per i fratelli. E poi scopro che non posso ottenere questo senza la preghiera”.

È utile ricordare i sensi del termine ‘monaco’. ‘Monaco’ deriva dal greco ‘monos’, che vuol dire solo, unico e ricopre quattro significati:

1- il primo è quello che definisce il monaco nella sua scelta di solitudine, nel senso che si allontana da tutto e da tutti per vivere in soliturdine. E’ l’anacoreta, l’eremita. All’inizio il termine definiva propriamente questo genere di persone.

2- il termine si riferisce a coloro che hanno rinunciato e al matrimonio e ai beni di questo mondo.

3- monaco vuol dire ‘solo’ non nel senso di ‘solitario’, significato di per sè negativo, ma nel suo significato positivo, vale a dire ‘colui che non è attaccato a nulla in modo da non impedirsi di vivere unito ai suoi fratelli’, è colui che vive in un ‘cenobio’, in una comunità di fratelli.

4- monaco ha anche il significato di ‘unico’ nel senso di ‘unificato’, vale a dire colui che, staccato da tutto per poter essere unito a tutti i fratelli, deve poter essere unito in se stesso perché è unito totalmente al suo Dio.

Come vedete, la ‘radice’ è posta sempre in alto, all’opposto di quanto avviene nel mondo materiale. Non so se avete mai visto la raffigurazione dell’uomo come un albero le cui radici sono in alto e i rami con i frutti in basso. Gli uomini sono animali siffatti, con le radici in cielo e i rami in terra. Così per ogni cosa spirituale: l’origine viene dall’alto, da Dio; i frutti si vedono in basso, nella nostra condizione terrena. Alla coppia di simboli alto-basso, corrisponde l’altra interiore-esteriore, dentro-fuori. Ciò che viene dall’alto è ciò che è interiore, ciò che viene da dentro, dal cuore, il nostro centro vitale.

Ci sarebbe poi anche un altro aspetto da sottolineare. Nella nostra tradizione latina siamo abituati ad accentuare la distinzione delle vocazioni. Diciamo che ci sono tanti tipi di vocazione. Come riconoscere la propria? Una volta domandavo ad un gruppo di suore: “Come fate a sapere che avete scelto la strada giusta, che la vostra vocazione è quella davvero che fa per voi?”. Una mi risponde: “Se sento di pregare con fervore…”. “Perché? Una che prega con fervore deve per forza farsi suora?”. Un’altra aggiunge: “Quando sento che voglio fare del bene …”. “Ma non deve essere di tutti volere fare il bene?”. Voi, che cosa rispondereste? Io ricordavo loro questo semplice principio di discernimento: “Puoi essere sicura della tua scelta quando, vedendo un’altra persona che ha ricevuto un dono diverso  (per esempio, quando vedi una coppia di sposi o di fidanzati che si abbracciano) tu sei contenta per lei, più contenta di lei. Quando registri che tu sei contenta della vocazione di un altro, allora vivi la tua vocazione al cento per cento”. Vocazione, prima di tutto, dice rapporto al dono di Dio in funzione della santità dell’insieme, della chiesa; solo secondariamente si riferisce al particolare stato di vita, a me conveniente, nel quale realizzare quella santità dell’insieme, accogliendo quel dono tra tanti doni, tutti dati per il medesimo scopo. Se non riesco a vedere il dono dello Spirito Santo in un altro, vuol dire che non c’è neanche in me. Significa che mi metto su di un piedestallo, che mi sto illudendo, che mi arrogo il dono di Dio. Se in me non agisce lo Spirito, come posso vivere la mia vocazione?  Se la nostra vocazione non si specchia nella vocazione dell’altro, ci manca qualcosa, perchè in effetti ogni vocazione è ‘ecclesiale’ ed è tale in quanto simultaneamente riconosce quella altrui. Deve valere anche per noi occidentali il principio dell’unica spiritualità!

Ritorno alle fonti.

Avevamo detto all’inizio che monachesimo dice preghiera. Nella storia, però, dice anche polemica. Le grandi dispute e lotte nella chiesa sono sorte in ambienti monastici. La disputa è quasi sempre in relazione alla difesa della retta fede; tutti i dogmi nella chiesa sono stati definiti dopo furiose dispute. Qui voglio soltanto dire che dietro la nobiltà dei propositi, spesso si nascondono atteggiamenti umani peccaminosi, che feriscono e opprimono. E purtroppo la storia della chiesa è intessuta anche di questo. Quello che però è importante far rilevare è il principio costante su cui si è basata e si basa la chiesa per affrontare e risolvere le dispute oppure per dare vitalità e profondità alla sua azione : il richiamo alla Tradizione, al di là delle specifiche e diverse tradizioni particolari, il ritorno alle fonti. E’ lo stesso principio che ha guidato la riforma del Concilio Vaticano II. E’ il principio che regge la comprensione delle chiese, che dà consistenza all’ecumenismo. Porto  un esempio. Nel 1700, nella chiesa greca sotto la dominazione turca c’era grande povertà spirituale. Quando Nicodemo Aghiorita, il curatore, insieme a Macario di Corinto, della famosa Filocalia, intende far fronte alla fame spirituale e culturale della sua nazione, non trova di meglio che rimettere tra le mani della sua gente i tesori della sapienza spirituale dei Padri e della Liturgia. In questo ritorno alle fonti si avvale anche, lui dichiaratamente anti-latino per la situazione delle chiese in quel tempo, di testi spirituali tipicamente latini,che egli adatta nella lingua greca popolare, quali il ‘Combattimento spirituale’ di Lorenzo Scupoli (1530-1610), gli ‘Esercizi spirituali’ di Giampietro Pinamonti (1632-1703), alcuni trattati di Paolo Segneri (1624-1694) e altri. Da notare che questi autori spirituali italiani tra il 1500 e il 1600 erano ispirati anch’essi dallo stesso principio del ritorno alle fonti. Così in Grecia i testi più letti dagli ortodossi non sono altro che il meglio della spiritualità italiana! E’ curioso, no? Sottolineo questo per far rimarcare come il ritorno alle fonti, il ritorno alle radici, vada al di là delle differenze dottrinali che ancora dividono le chiese, al di là di tutte le dispute teologiche. Credo che il fondamento dell’ecumenismo sia da riscoprire proprio qui, in questa unità spirituale di fondo. Non si tratta, davanti alla realtà dell’altro, di voler prendere le cose belle lasciando le brutte come se potessimo assumere il meglio da tutti. E’ stupido. Se, di colpo, ci  potessimo rimirare allo specchio senza più peccati, non ci riconosceremmo più! E’ invece importante riscoprire la propria ‘identità’, nel bene e nel male e, insieme all’altro, guardare a quello che ci costituisce nel profondo, nelle radici, da cui ambedue proveniamo. Mi avvicino all’altro quando vado a ciò che lo costituisce nel suo essere, nella sua dignità, accanto alla quale scopro anche la mia.

Ogni periodo storico, per rinnovarsi spiritualmente, ripercorre  lo stesso cammino: tornare ai Padri, alle Fonti. L’uomo scoprirà se stesso tornando a Dio, che gli è più intimo di se stesso; le chiese si scopriranno nella loro santità tornando a Colui che ne costituisce il fondamento, nello stesso modo di contemplazione e di comprensione dei Padri. Non è tanto questo o quell’altro punto da sistemare, come si trattasse di arrivare a un compromesso onorevole. No, si tratta di riimparare a vedere la nostra storia di separazioni e la nostra identità di comunione a partire da un’altra prospettiva, quella delle fonti, dei Padri. L’enorme vitalità che è come rinata nella chiesa con il Concilio Vaticano II è data proprio da questo movimento.

Il movimento filocalico.

Sorvolando sullo sviluppo storico del monachesimo in oriente, vorrei accennare a un movimento, il cosiddetto ‘movimento filocalico’ che ha caratterizzato l’Ortodossia orientale a partire dal sec. XVIII. Tutto fa perno sulla figura di un uomo, Paisij Velickovskij (1722-1794). Esce dalla sua terra natale, l’Ucraina, perchè lo stato aveva soppresso e impediva la costituzione dei monasteri e come molti altri ripara nei Principati romeni, dove era viva la tradizione patristica ed esicasta. Va all’Athos ma non trova che incuria. Non solo, come ebbe a scrivere in una sua lettera, nessuno conosce la pratica esicasta e la preghiera di Gesù, ma nemmeno più gli autori che trattano di queste cose. Comincia a raccogliere i testi dei Padri, si forma attorno a lui una piccola comunità e alla fine lascia l’Athos nel 1763 per ritornare in Romania, in Moldavia, prima a Dragomirna, poi a Secu e quindi a Neamt. Qui la comunità cresce a dismisura tanto che in pochi anni si trova a guidare circa un migliaio di monaci di tutte le nazionalità. Credo sia la prima volta che nell’ortodossia avvenga un fenomeno simile: russi, ucraini, romeni, bulgari, greci, serbi, tutti insieme in una grande comunità (morto Paisij, tutto questo finisce).

Per comprendere lo spirito della Filocalia, bisogna rifarsi alla sua esperienza. La Filocalia,prima che essere un libro, è una tradizione, una tradizione di vita. Sapete come sono nate queste traduzioni di testi dei padri e di autori spirituali e mistici? Paisij, a partire dalla piccola quaresima in preparazione del Natale, quando tutti i lavori in campagna erano finiti, radunava tutti i giorni la comunità dei fratelli e leggeva loro, commentandoli, i testi patristici che andava traducendo insieme a un gruppo di collaboratori. Oggi si parla del servizio della Parola; è un’espressione che, dopo il concilio, è diventata comune. Ebbene, nei testi dell’epoca di Paisij, si dice espressamente che il compito principale dello staretz, di colui che guida la comunità, è il ‘servizio della parola’. In ambito orientale, quando si dice ‘parola’, ‘scritture’, non ci si riferisce solo alla lettura della Bibbia, ma a tutta la Tradizione che ha interpretato la Bibbia e tradotto in esperienza spirituale quello che è l’insegnamento del Signore. Da tale contesto di insegnamento alla comunità, finalizzato al sostegno per la vita interiore della stessa, è scaturita l’esigenza di predisporre i testi patristici atti a veicolare il medesimo messaggio per tutti.

Paisij introduce una novità di rilievo nella sua comunità. Quando, prima di lui, si parla di pratica esicasta si allude sempre ad una pratica religiosa osservata da un eremita o da minuscole comunità di due o tre fratelli che vivono in regime di solitudine. Egli invece dà alla vita comune, al cenobio, alla grande comunità, lo stesso afflato interiore che era riservato a pochi. La forza del suo messaggio, che arriva al cuore della pratica monastica e che la chiesa ortodossa nel suo insieme ha in qualche modo fatto proprio, è dato da questo: “Come si può vivere una pratica esicasta che tende alla preghiera pura se un uomo non è arrivato a staccarsi da se stesso con l’obbedienza e l’umiltà, che è l’unico contesto che può far germogliare la preghiera?”.

Quando si parla di tecniche nella preghiera  non si deve dimenticare che qualsiasi tecnica può essere accessibile, ma nessuna garantisce il risultato della preghiera. Perchè? Perchè la preghiera non sboccia in conseguenza della capacità di usare una tecnica appropriata, ma unicamente in conseguenza della capacità di essere obbedienti e umili. Evidentemente, parlo di obbedienza non solo in rapporto al proprio superiore, fatto che può essere vissuto solo materialmente. Io dico che si deve imparare a obbedire anche tra marito e moglie, tra fratelli. Parlo di obbedire nel senso di quell’espressione tanto cara alla tradizione : “Ho visto il mio fratello, ho visto il mio Signore”. Paisij la ripeteva spesso e diceva che su di essa era fondata l’organizzazione interiore della comunità (come di qualsiasi altra comunità, che voglia vivere fino in fondo il mistero di comunione con Dio e con i fratelli). Questa è l’obbedienza. Mi ricorda tanto la figura di s. Francesco, ma anche s. Paolo quando ci dice che se non ci riteniamo inferiori ai nostri fratelli, non potremo incontrarli, perché non troveremo il Signore. Mi piace ricordare, poco più che a livello di battuta, che quando Adamo è stato sorpreso dal Signore nel suo peccato era ancora sull’albero che prendeva la mela. Ecco, noi siamo restati sull’albero. La via della perfezione non è un salire, piuttosto un scendere, scendere dall’albero, perché il Signore, che si è fatto uomo, sta ai piedi dell’albero e se noi non scendiamo non lo possiamo incontrare. Ma se non troviamo il Signore, non troveremo nemmeno l’amore per i fratelli e se non troveremo l’amore per i fratelli ogni perfezione, qualsiasi sia, è sciocca, vuota.

La comunità di Paisij era fondata su quattro pilastri:

1) vita comune, tra fratelli, nel senso sopra ricordato

2) Scrittura e Padri, cioè lo studio quotidiano delle Scritture e dei Padri. Nel mondo spirituale non possono esserci improvvisazioni, ogni improvvisazione sa di sconfinamento psicologico. Il mondo spirituale è il mondo dello Spirito con la ‘S’ maiuscola. Per poter ascoltare lo Spirito. dobbiamo ascoltare gli uomini che dallo Spirito sono stati mossi, che la chiesa ha riconosciuto mossi da Lui ed alla cui scuola sente di trovare il suo Signore. E’ lo stesso principio della santità. La santità non è una perfezione che si guadagna; la santità è una capacità di vivere in sintonia con Qualcuno … Posso dire di conoscere bene una persona se non riesco a vivere in sintonia con quella persona? E posso dire di vivere in sintonia con quella persona se non l’amo? Posso dire di conoscere Dio se non vivo unito a  Lui?

A partire dalla Parola di Dio come dalla parola dei Padri che commentano quella Parola, la luce che spunta in cuore e che ci mostra poco a poco tutte le cose non proviene che da questo: quella parola rivela una comunione, fa sentire una comunione; la santità rivela la comunione tra due persone. La vita spirituale potrebbe essere definita semplicemente così: “mettere Qualcuno vivente in relazione con qualcuno vivo”, Qualcuno con la ‘Q’ maiuscola con qualcuno con la ‘q’ minuscola, che siamo noi. Ecco, questo è il valore dello studio delle Scritture e dei Padri. In questo la tradizione ortodossa ha da insegnarci nel senso che ne custodisce più genuinamente il mistero e la profondità, il significato ecclesiale.

3) la preghiera di Gesù. Paisij vuole che si riprenda, anche in contesto di vita cenobitica, la pratica della preghiera di Gesù. Attenzione, però. Ho provato a domandare tante volte, pur con discrezione, ad uomini che sapevo praticavano questo tipo di preghiera, perchè mi dicessero qualcosa. Non mi hanno mai detto nulla di preciso. Chi mi ha spiegato la preghiera di Gesù non la praticava. C’è un motivo in tutto questo? La cosa mi ha fatto sempre riflettere.  E’ davvero sincero il nostro cuore quando desidera imparare tale preghiera come anche la preghiera in generale? Non siamo piuttosto affascinati semplicemente da tale forma di preghiera oppure non abbiamo come l’illusione di trovare una specie di scorciatoia? Con questi sentimenti l’insuccesso sarà totale. 

4) La manifestazione dei pensieri al proprio padre spirituale.  Oggi è in crisi la confessione. E non è che manchino i motivi per farla andare in crisi! Paisij chiedeva ai suoi monaci di confessare i pensieri al padre spirituale. Pensieri, quindi non solo peccati! Si tratta di una pratica ascetica più che di un atto sacramentale. E’ una pratica che ormai si è come persa ed è stata rimessa in onore, in un diverso contesto e con diverso significato, dagli psicoanalisti di oggi. I pensieri sono tutto ciò che si muove nel nostro cuore. Possono essere sensazioni, immagini, attese, desideri, pregiudizi, giudizi, ecc., colti prima che si traducano in atti concreti. Praticando una certa ascesi ed istruiti da un certo spirito di preghiera, incomincerete a rendervi conto di quante cose si muovono nel nostro cuore, imparerete a riconoscerle, a filtrarle alla luce della Parola del Signore, a cogliere il messaggio che portano. Quando si tratta di vincere un certo difetto o peccato, se non ci accorgiamo da dove arriva e fin dove porta l’impulso cattivo che scaturisce dal cuore, possiamo fare tutti gli sforzi che vogliamo, ma quel difetto o quel peccato non verrà superato. Notate come non sia poi realmente importante superare il difetto (di difetti ne avremo sempre); l’importante è riuscire a non giustificare il nostro difetto, a nessun livello. E qui mi ricollego ad una annotazione per me essenziale. Quando si parla della preghiera, della preghiera del cuore soprattutto, si dimentica troppo spesso un aspetto fondamentale, che risulta espresso da una affermazione categorica del padre spirituale di Paisij Velickovskij, Basilio di Poiana Marului, che lo stesso Paisij ha fatto propria e l’ha trasmessa ai suoi discepoli: “La struttura fondamentale della preghiera è data dall’attenzione e dal pentimento”.  I vari metodi o le varie tecniche di preghiera si riferiscono solo al primo elemento, all’attenzione, ma senza il pentimento non sboccia la preghiera. Con l’insistenza sul pentimento, la tradizione orientale custodisce il meglio dell’insegnamento patristico sulla preghiera. Quando noi diciamo che non si può pregare se non si è concentrati, a quale tipo di concentrazione ci riferiamo? Da cosa è data la concentrazione?  Ad una giovane signora che mi chiedeva come pregare, sapendo che aveva un bambino di pochi mesi, le dissi di fare la preghiera  mentre allattava. La rividi parecchio tempo dopo e mi confidò: “Sai, Elia, ho provato a fare come mi hai detto e viene che è una meraviglia.  A parte che mi ritrovo raccolta naturalmente, a parte che questo momento lo vivo con una tenerezza incredibile, mi sembra di vivere in una dimensione così viva del mistero che non faccio alcun sforzo di concentrazione; mi trovo dentro la realtà del mistero”. Ecco,  ha rivelato anche a me il senso di quel che percepivo. Il pentimento porta appunto l’anima a trovarsi dentro il mistero. La concentrazione di cui parlano i testi spirituali non deriva dallo sforzo di introspezione psicologica o di attenzione mentale; deriva dalla intensità del pentimento. I Padri arrivano a dire che la concentrazione, l’attenzione e quindi il senso della presenza del Signore, è direttamente proporzionale non solo al pentimento rispetto ai propri peccati, ma alla coscienza del proprio stato di peccatori. Quando ci confessiamo sacramentalmente, non siamo forse troppo preoccupati di dire tutto, di fare l’elenco completo dei peccati, quando ormai non sappiamo nemmeno più cosa sia peccato mortale o meno …? Quello che è veramente importante non è la completezza dell’elenco dei peccati, ma che attraverso i peccati riconosciuti si abbia ancora più fortemente la coscienza che siamo peccatori. E’ questa coscienza che fa gridare a Dio:”Signore, abbi pietà di me”. Se non abbiamo questa coscienza, le parole che diciamo che valore hanno? In un certo senso, quello che mi sembra manchi al  nostro desiderio di esperienza spirituale sia il fatto che non parte sinceramente dal cuore, ma piuttosto dalla testa. Restiamo affascinati, ci entusiasmiamo per una certa pratica religiosa, ma siamo davvero coinvolti? Attenzione che essere ‘sinceri’ non significa essere ‘veri’. Si può essere sinceri nel dire quello che si prova, ma ciò che si prova può benissimo non procedere dalla profondità del nostro cuore, dalla verità del nostro essere. Qui si cela uno dei nodi della vita spirituale.

E per noi, oggi, come potremmo porre la ‘questione Filocalia’?   Possiamo accedere alla  ricchezza di tanti testi spirituali di prim’ordine (anche se le traduzioni non sono sempre all’altezza del contenuto). Pensate che, con tutta la buona volontà di leggerli e di metterli in pratica, arriveremo a praticare l’esicasmo, la preghiera del cuore? Ho visto tante persone partire con zelo ed entusiasmo e poi arenarsi. Non mi stupisco. Il motivo non sta tanto nella difficoltà dei testi. Il motivo principale mi sembra risiedere nel non avere lo spirito giusto, non entrare dalla porta giusta. Ritorno a dire: “È sincero il nostro cuore quando vogliamo percorrere questa via? Siamo disposti a percorrere tutta la strada, senza scorciatoie e improvvisazioni?”.  Credo che occorra riprendere quella ‘scienza dello spirito’ che proprio la Filocalia dà ad intendere che costituisca il contesto genuino della preghiera del cuore. Scienza, che va intesa come la capacità di tradurre in valori concreti il tesoro della fede, in valori vitali che coinvolgano tutto il nostro essere nell’adorazione di Dio, nel mistero di Cristo e della chiesa. Sembra che noi si possa diventare buoni sforzandoci semplicemente di compiere tanti atti buoni. Ma come sarebbe possibile operare il bene se il male non è stato vinto stabilmente nel nostro cuore? Fin tanto che non impariamo a distinguere con lucidità i nostri pensieri segreti e, invocando il Signore, a respingere quelli che non si accordano con i suoi comandamenti, come potrà venir illuminato il nostro cuore da compiere il bene secondo Dio? Come potrà adorarlo in spirito e verità, in pentimento ed umiltà, per ricevere quel perdono che noi stessi siamo invitati a dare al nostro prossimo, testimoniando così il nostro amore? Ma per arrivare a questo punto abbiamo bisogno di inicazioni precise e sicure per procedere nel nostro cammino spirituale. L’apertura alla Filocalia e alla preghiera di Gesù in questo spirito potrebbe riuscirci di grande aiuto per questo immenso, instancabile, lavorio interiore del cuore.

Ed è proprio questo che noi dovremmo imparare dalla tradizione ortodossa:  il senso della lotta contro le nostre passioni, i nostri pensieri, per imparare a pregare.  Lottare contro le passioni ed i pensieri a queste collegati non è fatto di psicologia o di testa. Si tratta essenzialmente di un’altra cosa; si tratta di ridare ai nostri pensieri l’oggetto e il contenuto loro proprio, che è il Cristo. Ritornare in se stessi, come dicevo all’inizio, significa ritornare al luogo della presenza del Signore nel cuore. Combattere allora i pensieri che ci illudono non significa distruggerli, ma trasfigurarli perché (sembra un paradosso, ma è così) in ogni nostro pensiero, anche cattivo, in ogni nostro peccato, di qualsiasi tipo, vi sta come racchiuso un anelito che va liberato perché il cuore torni a vivere profondamente e liberamente. E l’anelito è in diretta dipendenza con la presenza del Signore nel cuore. Padre Staniloae, il maggior teologo ortodosso rumeno, recentemente scomparso, ha una bella espressione relativa all’infinità del cuore umano nel suo ‘Corso di ascetica e mistica’ . Dice:”I nostri peccati, le nostre passioni, come possono essere definiti? Sono un attaccamento infinito a ciò che è finito”. Anche in questo il cuore umano ha la percezione netta di desiderare l’infinito. Si tratta di ridare il contenuto infinito a questo attaccamento infinito. E questo è esattamente il lavoro dell’ascesi, questo è essenzialmente ciò che avviene nella preghiera.  La preghiera ti mette in comunione con Dio e Dio è comunione di Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo.  Se la preghiera ci mette in comunione con Dio, comunione di Persone, allora la porta di accesso a questa comunione non può che essere il pentimento, perché il pentimento è ciò fa cadere ogni barriera di separazione, ci ‘concentra’ nella comunione con  Dio, ci rende eminentemente persone, non più alienati nelle cose o nelle illusioni che creano barriere. Così, più ognuno perde la sua individualità alienata, la sua chiusura, più si apre alla comunione, più diventa persona tra persone, più è assunto nella comunione con Dio e con i fratelli.  In questo io vedo racchiuso la ricchezza dell’esperienza monastica. E noi tutti non aneliamo alla stessa cosa?

” Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore! “