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Comunicazione al Convegno di Mosca, 9-11 ottobre 1996

“La missione della chiesa e l’azione missionaria ortodossa”.

Per i 600 anni dalla morte di Stefano di Perm

relatore: p. Elia Citterio

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In questi ultimi anni si avverte un rinnovato interesse per il tema della missione in tutte le chiese. Evidentemente l’interesse nasce dalla coscienza di una situazione di crisi che tocca intimamente persone e comunità nella loro identità e professione religiosa, ma anche da una rinnovata “ πνευματικη διακονια “ della chiesa nel mondo, in continuità con i testimoni della fede di ieri e nella fedeltà all’impulso dello Spirito che continua a rendere testimonianza al Signore Gesù (cfr. Gv 15,26) nel cuore dei credenti di fronte alle nuove sfide della storia.

Senza avere titoli particolari di competenza o rappresentatività, sento l’onore – e per questo ringrazio – di essere stato invitato a partecipare a questo Convegno con una comunicazione, in qualità semplicemente del mio essere monaco. Vivo infatti da 25 anni in una minuscola comunità monastica di nuova fondazione, nel nord Italia, nel territorio della diocesi di Alessandria, comunità sorta sull’onda della riscoperta della centralità della parola di Dio e della Tradizione dei Padri che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha insistentemente richiamato.

L’argomento propostomi non intendo affrontarlo dal punto di vista storico o descrittivo, come dovessi analizzare gli atteggiamenti oggi prevalenti nelle varie famiglie monastiche a proposito della missione. Vorrei più semplicemente proporre alcune osservazioni nel tentativo di indicare le attese e le nostalgie dei cuori a proposito della presenza dei monaci nella chiesa, comunione in missione di comunione nella storia, secondo una definizione suggestiva del p. Dalmazio Mongillo.

Anzitutto una premessa. A differenza dell’oriente cristiano che ha mantenuta inalterata l’antica distinzione degli stili di vita nella chiesa in laici e monaci, l’occidente latino ha conosciuto specificazioni ulteriori per quanto riguarda il secondo termine della distinzione. Agli ordini monastici del primo millennio si sono aggiunti, nella professione di uno stile di vita evangelico ufficialmente riconosciuto dalla chiesa, gli ordini mendicanti (si pensi ai francescani e domenicani sorti nel secolo XIII), gli ordini apostolici (si pensi ai gesuiti, nel secolo XVI), le congregazioni insegnanti, gli istituti secolari (nei secoli XIX-XX), tutti accomunati dall’identico impegno a vivere la professione dei consigli evangelici di verginità, povertà e obbedienza, nella sequela del Signore Gesù Cristo. Oggi, per tutte queste forme di vita, antiche e recenti, si tende ad usare la denominazione ‘vita consacrata’, che risulta il termine più generale e comprensivo. E’ l’uso che hanno adottato i Vescovi nel Sinodo del 1994 e che ha ripreso Giovanni Paolo II, nella sua esortazione apostolica postsinodale “La vita consacrata e la sua missione nella chiesa e nel mondo” del 1996. Io però non intendo parlare della vita consacrata in generale, ma specificatamente della vita monastica. Tanto per dare un’idea delle proporzioni, in numeri, ricordo che la vita religiosa nel cattolicesimo raggruppa nel suo insieme 1.116.320 consacrati (875.332 donne e 240.988 uomini), una minoranza esigua entro il popolo di Dio: lo 0,12%. La vita monastica è a sua volta una minoranza entro la vita religiosa. Su 1370 istituti femminili, quelli monastici sono 59 e di contro a 122 congregazioni religiose maschili clericali e laicali, gli istituti monastici maschili sono 111.

Ma l’origine di ogni forma di vita religiosa è la vita monastica, diretta erede dell’età fondativa dei padri del deserto, alla quale ci si deve perciò richiamare per ritrovare i valori primi della vita consacrata. Torna così essenziale ed urgente parlare specificatamente di monachesimo e di spiritualità monastica nel mistero della chiesa e della sua missione, nel contesto delle nuove sfide a cui siamo chiamati.

In questi ultimi anni i monaci hanno avuto occasione di dire la loro, di dibattere i problemi e di analizzare le varie situazioni. Ricordo in particolare gli incontri del 1994 a Madrid su “I monasteri in Europa oggi. Un’attività profetica di frontiera” e a Roma su “Il monachesimo tra oriente e occidente”2. Eco di tutti questi interventi come anche frutto di incontri e meditazioni personali, oso proporre determinati spunti di riflessione su un argomento per me così vivo.

1) Comunione e riconciliazione.

Nel dopo Concilio si è tornati a vedere la chiesa come mistero di comunione e riconciliazione. Se è a livello ecclesiologico che la riflessione è maturata, tuttavia emerge ora anche la valenza antropologica, secondo l’antico adagio patristico per cui ciò che si dice della chiesa  vale per l’anima  e viceversa. In effetti, la comunione esprime l’asse strutturale dell’essere dell’uomo, la sua natura, come la natura della chiesa, ad immagine della Trinità, mentre la riconciliazione allude al divenire storico, ecclesiale e personale, a quel farsi comunione nel concreto delle vicende umane e storiche. Ambedue sono l’espressione dell’attività dello Spirito Santo, nella chiesa e nei cuori, per cui riscoprire il mistero della chiesa come comunione e riconciliazione significa ridare centralità e spessore all’opera dello Spirito Santo. Ora, il mistero della vita monastica è essenzialmente legato a quella rigenerazione dall’alto, nello Spirito, che conforma a Cristo, rigenerazione che ogni battezzato riceve come il dono supremo dal Padre perché ne sia tutto compenetrato finché, per se stessi e per il mondo, Dio sia tutto in tutti

Da qui scaturisce quella qualità evangelica che connota l’agire cristiano sia della chiesa come spazio della dimora di Dio in mezzo agli uomini sia dei singoli fedeli come seguaci del Signore: un agire in mitezza ed umiltà, nel rispetto e nell’onore verso tutti, riconosciuti destinatari e soggetti, al pari nostro, dell’offerta da parte di Dio della comunione con Lui. Nessun progetto per l’umanità è tanto nobile, dal punto di vista cristiano, da poter essere perseguito sulla testa di qualcuno. Nessun messaggio è tanto buono da farci sentire in diritto di doverlo imporre ai cuori. Ne andrebbe di mezzo l’essenza stessa dell’annuncio cristiano, tutto incentrato sul mistero della comunione di Dio con gli uomini in Cristo, mistero che non può essere vissuto e riconosciuto se non nella libertà della conversione dei cuori. Invece di realizzare una dimensione ‘spirituale’, come figli del Regno, di un regno che non è di questo mondo, ci ritroveremmo defraudati e illusi da una qualche ideologia. A differenza dello Spirito, l’ideologia pretende sostituirsi ai cuori e fallisce l’obiettivo primario, quello della comunione, che è sempre comunione di persone. Paradossalmente, ma purtroppo assai concretamente, oggi come ieri, il pericolo di scadere da una dimensione spirituale ad una ideologica è sempre in agguato anche nella chiesa.

Tutto questo esige che si torni a ridare vigore alla dimensione contemplativa della pratica cristiana. Credo sia quasi impossibile oggi vivere un’esperienza cristiana senza radicarsi in una profondità contemplativa.

La vita contemplativa però non può essere intesa semplicisticamente come uno stato di vita contrapposto alla vita attiva. Quando i Padri del monachesimo parlano di vita attiva e vita contemplativa alludono a due dimensioni inseparabili e necessarie della vita spirituale. Riferirsi alla dimensione contemplativa come a uno stato di vita induce i monaci a dimenticare che essi stessi sono chiamati alla vita contemplativa non solo perché lo comporta la vocazione di ogni cristiano, ma anche perché ogni altra forma di comunione che si trovano a realizzare (fraterna, comunitaria, ecclesiale, di solidarietà sociale) non avrebbe valore e senso senza una vita di profonda comunione con Dio, cioè senza una vita contemplativa. La missione del monachesimo nella chiesa è quella di sottolineare l’urgenza della dimensione contemplativa dell’essere e dell’agire, senza preoccuparsi di altra specifica finalità pratica. E’ una missione in funzione essenzialmente dei cuori, che anelano al mistero della comunione con Dio. In questo va posto, per il monachesimo, il criterio di discernimento ecclesiale per  valutare la bontà o meno delle attività che si possono o si devono assumere, per essere a fianco dei propri fratelli nella ricerca dell’unico Signore e nella condivisione delle ansie comuni dell’umanità.

Per usare un’espressione liturgica, direi che il monaco è una sorta di ‘memoriale’, per la chiesa e per il mondo, del mistero di comunione di Dio con gli uomini sia per ricordare a Dio l’ alleanza con i suoi figli come per ricordare agli uomini l’unico vero grande anelito del cuore umano. A questo mistero allude la pratica della preghiera continua tipicamente, anche se non esclusivamente, monastica, in funzione della quale sono date tutte le osservanze. In tale specificità vedo la forte valenza ecclesiale del monachesimo, al cuore del mistero stesso della chiesa e della sua missione nel mondo. Il fascino, assai discreto a dire il vero, del monachesimo nelle sue forme antiche e nuove risiede tutto qui. E sembra strano che oggi siano più sensibili a tale fascino le persone toccate dal problema religioso, ma senza una precisa pratica ed appartenenza ecclesiale piuttosto che i fedeli stessi!

2) La figura del monaco.

Se, in negativo, il monachesimo è negazione di ogni identificazione con qualunque realtà di questo mondo, in positivo, è il portatore di una nuova ‘fraternità’, proprio secondo il comando di Gesù : “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Il monaco è colui che prende sul serio queste parole, sintetizzate dall’invito-comando di Gesù rivolto a tutti i suoi discepoli: “Rimanete nel mio amore” (Gv. 15,9). Più precisamente, in positivo, il monaco è colui che nella chiesa professa il coraggio di subordinare tutti i suoi averi, tutto il suo sentire e tutta la sua esistenza alla realizzazione proprio di questo comando del Signore. Non è qui questione di una o dell’altra forma di vita monastica, come se, ad esempio, la vita cenobitica fosse da preferire alla vita eremitica nella realizzazione di questo ideale di ‘nuova fraternità’. Voglio semplicemente sottolineare che il senso stesso della vita monastica, nella sua profonda valenza ecclesiale, in tutte le sue forme, va ricercato essenzialmente in quel lievito di comunione in umanità, in quella nuova fraternità in Cristo, senza il quale ogni osservanza o pratica ascetica fallirebbe il suo scopo. Solo così viene reso possibile uno sforzo morale che non sia alienante. E credo che da qui germini quel senso di pacatezza e dolcezza che una solida vocazione monastica fa presagire e di cui tutti, in tutto il mondo, hanno bisogno, segnale di una dimensione di riconciliazione con se stessi e con la vita che trasfigura i cuori. In tal senso andrebbe ricompresa la necessaria ‘fuga mundi’, che non vuol dire affatto disprezzo del mondo o tanto meno sospetto nei confronti della vita.

Due mi sembrano allora i tratti specifici della figura del monaco: un uomo affascinato dalla sapienza di una visione e un uomo capace di godere la grazia di una nuova fraternità, allargata a tutta l’umanità. Tratti, che corrispondono ai due primati essenziali nella vita: il primato di Dio e il primato della persona.

La comunione non proviene dal basso, ma dall’alto. Non è frutto di strategie psicologiche o pastorali o di dinamiche di gruppo, bensì espressione della guarigione-conversione dei cuori. La comunione è come un sostanziarsi della visione di fede. Per questo non può essere ottenuta se non immergendosi nel mistero della preghiera, che può essere considerata come l’attività specifica del monaco. Una preghiera che apra la fede alla visione attraverso l’amorosa obbedienza alla Parola trattenuta in cuore tanto da farne tessuto di memoria. Appunto nella ‘memoria di Lui ’ (si pensi all’importanza del tema della μνημη του Θεου nella tradizione monastica) si alimenta quella sapienza che viene dall’alto capace di cogliere le cose che rimangono, le cose nascoste, forgiando una relazione sempre più intima col Signore.

Il monaco è colui che ha il compito nella chiesa di mostrare con la vita che per un cristiano il fare è in funzione del vedere. Ricorda, al di là dei suoi peccati, che i comandamenti vanno vissuti in funzione della gloria di Dio, vale a dire in funzione della rivelazione al nostro cuore del volto di Dio, a cui tiene dietro anche la rivelazione dello splendore delle creature. Non che lui, per la sua vocazione, possa vivere meglio di altri, in  altre vocazioni, tutto questo nella chiesa; no, egli mostra semplicemente, a modo di memoriale, che si possa e si debba ricercare comunque di vivere in tale ottica. Allora il ritorno alle fonti, alle radici della vita cristiana così insistentemente propugnato dal Concilio Vaticano II per tutti i fedeli, non può che risultare un ritorno all’esperienza dell’incontro con Gesù, il Salvatore. Semplicemente con la loro esistenza i monaci tengono viva la domanda essenziale per l’annuncio cristiano: è possibile una esperienza cristiana senza radicarsi in profondità contemplativa? Sarebbe ancora credibile una chiesa che non faccia più presagire la possibilità e la realtà dell’esperienza dell’incontro con Dio? Un agire che non riveli ai cuori la nostalgia di Dio, che vi portano sepolta, ha ancora a che fare con l’annuncio del vangelo?

In secondo luogo il monaco è un uomo capace di godere la grazia di una nuova fraternità, allargata a tutta l’umanità e, aggiungerei, a tutto il creato. La professione monastica, di ogni tempo e di ogni dove, rammenta che tale fraternità è accessibile unicamente attraverso la porta misteriosa dell’obbedienza. E’ la vittoria sull’egoismo perché l’obbedienza, che apre all’intimità con Dio, immerge il cuore in un clima di umiltà e pacatezza abituandolo ad onorare i fratelli. L’obbedienza monastica è assai più che l’obbedienza ad una regola, ad un superiore; è la sottomissione vicendevole, un’obbedienza in umiltà  In tale obbedienza si forgia quella nuova fraternità in Cristo che apre il cuore a tutta l’umanità e a tutto il creato. Ci si riconcilia con gli uomini e con il creato, senza più arroganza o autodifesa. Quando si impara a chinare la testa davanti al Signore in adorazione, nell’ascolto della sua parola, si impara anche a chinare la testa davanti ai fratelli e si diventa capaci di ascoltare la voce del loro cuore. Credo sia questo il modo più efficace per tenere la testa aperta alla grazia che viene dall’alto. E non proviene forse da qui quella pace e quella consolazione di cui il cuore umano ha tanto bisogno?

3) Icona di uno stile.

La chiesa ha un unico ministero, quello della  riconciliazione (cfr. 2 Cor 5,18-21); ha un unico annuncio da fare: “ … noi siamo in pace con Dio …” (Rom 5,1). E’ la pace di Dio che viene riversata sul mondo tramite la chiesa. Un inno della liturgia latina in onore degli apostoli canta:

“Su voi, resi saldi in eterno,

s’edifica e innalza la Chiesa

che eterna, riversa sul mondo

da Dio, come un fiume, la pace”.

Ebbene, il monaco è colui che, di questa pace, testimonia il suo carattere mansueto, umile. E’ la mansuetudine dei martiri per Cristo, i quali sanno che non hanno da combattere contro alcun loro fratello, ma solo contro il maligno.

Per citare un esempio portato recentemente all’attenzione del mondo, la testimonianza dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante, in Algeria, uccisi il 21 maggio scorso dai fondamentalisti islamici, è tutta in questo senso. E’ il coraggio della mansuetudine a servizio del mistero di comunione di Dio con gli uomini[3]. Un avvenimento, questo, che fa dire dalle colonne del Figaro del 27 giugno scorso, a Jean Delumeau, professore al Collège de France e autore una ventina d’anni fa del libro “ Le christianisme va-t-il mourir? ” : Q Une religion qui est capable de susciter des témoins de la qualité des moines trappistes assassinés en Algérie n’est pas une religion moribonde, mÃme si elle éprouve des difficultés f.

C’è un problema anche di ‘stile’ nella testimonianza cristiana. Spesso l’annuncio della ‘pace’ nella chiesa è stereotipato, retorico (nel senso che viene professata la verità, ma senza trasmettere la vita né indicare la via concreta di realizzazione); a volte perfino autoritario o presuntuoso (nel senso che la verità è difesa, ma secondo modalità non evangeliche, in modi ‘mondani’, con reazioni ‘mondane’).

Il monaco richiama all’essenzialità di uno stile cristiano che io riassumo in tre caratteristiche:  mansuetudine, discrezione, coraggio.

 

Mansuetudine.  Il monaco, per vocazione, è sensibile a tutti i livelli, al mistero della comunione. La sola sfida che può raccogliere è la sfida della comunione: nella sua esistenza, nella sua comunità, nella sua chiesa, con i cristiani delle altre confessioni, con gli uomini, con le culture, con le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, con il creato.

L’atteggiamento di cuore più propizio per vivere in profondità e verità la sfida della comunione è appunto la mansuetudine, che è la forza della speranza, il segno del radicamento nella fede del Signore Gesù Cristo. Fede che dice essenzialmente relazione, non possesso; cammino, non meta; fatica, non godimento.

Nella mansuetudine i cuori sono orientati a predisporre le condizioni per vivere nel concreto la pace offerta da Dio. In essa vengono superati gli ideali semplicemente umani, sprovvisti del lievito della grazia, come ogni senso di superiorità di una razza, di una cultura, di una nazione, di ogni forma di elezione, ecc. Non ogni difesa della verità è veritiera, cioè retta davanti a Dio, se manca lo spirito di mansuetudine, quel fermento evangelico che il monaco è chiamato ad impastare con la realtà di questo mondo, nella chiesa.

Discrezione.  E’ la lotta contro lo spirito di questo mondo che tanto indulge al protagonismo e all’esteriorità. Caratterizza il monaco nella sua stessa professione di vita quel continuo esercizio di discernimento per separare ciò che vale da ciò che ha sembianza di valore, ciò che è attinente alla comunione in Cristo da ciò che sembra soltanto rassomigliarle, fuggendo il protagonismo e puntando all’interiorità, come alla forza che tiene aperti i cuori alla solidarietà profonda e concreta con gli uomini.

Coraggio.   Lo sforzo di liberarsi da ogni spirito di dominio e da ogni forma di possesso, si tratti di se stesso come delle proprie visioni del mondo, fa nascere il coraggio della speranza. E’ il coraggio di saper andare contro il mondo, ma a fianco dell’uomo; è il coraggio di una parola schietta e viva, che tanto manca proprio negli ambienti di chiesa; è il coraggio della purificazione della memoria, a livello personale e culturale, in nome della speranza cristiana, in spirito di mansuetudine e discrezione.

Ad un coraggio di questo tipo non può mancare il tratto di una nobiltà di animo e di intenti, unito ad una gioia semplice, tranquilla, capace di toccare i cuori al di là di tutte le strategie pastorali.

Da questi tratti risulta una forza evangelizzante semplice e potente : la testimonianza cristiana si fa persuasiva.

4) Le attese di oggi.

Il concetto di secolarizzazione si sta rivedendo. Da una fase di preannunciata sparizione del religioso nella società moderna si è giunti a constatare un nuovo ritorno del religioso, per cui modernità e religiosità non sono più visti in modo antitetico. E’ in atto un processo di ricomposizione del religioso dove la religiosità non segue più i criteri di appartenenza tradizionali. Quello che però emerge comunque è la diffusa domanda di senso.

Il disagio delle giovani generazioni, che ormai si è esteso anche ai loro padri, nasce dalla difficoltà di coniugare libertà e verità, per cui si cerca affannosamente nell’amore, inteso come emotività, l’antidoto alla propria insicurezza e insoddisfazione.

La società, per le migrazioni di persone e di culture e per l’affacciarsi di nuove problematiche umane e sociali in un mondo che cambia in fretta, subisce un’accelerazione di complessità che sembra cogliere impreparate sia la classe politica che le chiese.

Credo che in tale contesto il monachesimo abbia da giocare un ruolo preciso. Anzitutto nella chiesa, che lentamente si va abituando a un linguaggio di comunione. Sembra difficile trovare un atteggiamento intermediario tra la sottomissione passiva e la ribellione. Direi che la vita monastica debba offrire la sua esperienza di comunione vissuta nel mistero della preghiera e di quella nuova fraternità in Cristo che non teme di onorare tutti, di accogliere le differenze e di recepire la ricchezza di tutti come espressione dell’unico dono di Dio alla sua chiesa. L’uomo nuovo, mosso dallo Spirito, non è altro rispetto all’uomo vecchio se non quello stesso uomo vecchio guarito. Quando un uomo si sente sano perché guarito, non può andare troppo fiero della sua salute, perché l’accoglie come un dono. Rimane umile. E’ questo il senso di un autentico cammino di perfezione o di santità: quello di un’umanità ritrovata, guarita, salvata. L’unica innocenza possibile per gli uomini è quella del perdono, datoci da Dio in  Cristo ed esteso all’umanità propria ed altrui, alla storia propria ed altrui.

Si potrebbe interpretare nel senso della riconciliazione l’accordo tra coloro che si riuniscono nel nome di Cristo scondo il passo di Matteo 18, 19-20: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Dove si cerca riconciliazione è in atto la forza della redenzione, è presente il Salvatore. Riconciliarsi nel nome di Cristo significa allora vivere il mistero di comunione di Dio con gli uomini: come Dio non accorderà questa grazia a coloro che gliela chiedono?

Ecco, io vedo i monasteri come luoghi in cui sale a Dio incessante dai cuori e dalla stessa esperienza di vita questa preghiera.

In secondo luogo, il monachesimo è chiamato a giocare un ruolo nei confronti del mondo esercitando un discernimento. Un’apertura al mondo che proceda da una sana vigilanza significa conoscere e farsi carico dei disagi e delle sofferenze degli uomini, farsi carico delle domande che i cuori celano dentro, per collaborare così all’opera di Dio della riconciliazione in atto nella storia.

Si tratta di vivere semplicemente il ‘compimento’ del regno di Dio nel fatto stesso di accogliere e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione. Il senso dell’accoglienza dei pellegrini nei monasteri non ha altro scopo se non questo, come del resto lo sforzo di assumere stili di vita semplici e poveri in accordo [= riconciliati] con la fatica del vivere quotidiano di tanta parte dell’umanità.

Ed infine, un ultimo aspetto. Dovrebbe, il monaco, cercare quella ‘grazia’ nell’agire che non l’intrappoli nei confini di questo mondo, ma lo apra alla sapienza che viene dall’alto e lo renda capace di portare vita e consolazione agli uomini.

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1 Cfr. REGNO 16/1994, p. 498.

2 Si vedano i testi in REGNO 12/1994, p. 368-380; 16/1994, p. 498-518; 19/1994, p. 591-597.

[3] Si veda la lettera ai cistercensi del loro abate generale, dom Olivera Bernardo e la lettera-testamento del p. Christian della comunità di Nostra Signora dell’Atlante, riprese dall’ Osservatore romano, in REGNO 13/1996, p. 427-430.